Giuseppe Ruggeri – Il Croco “La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin”

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Pomezia Notizie nr. 4/2010

C’è da chiedersi perché, al giorno d’oggi, la scrittura in versi sia tanto diffusa. Merito dei multipli canali mediante cui questa forma di comunicazione riesce ad esprimersi, complice la rivoluzione delle tecnologie mass-mediali e informatiche, o di un qualche altro sotteso fenomeno che attiene piuttosto a inaspettati rivolgimenti anteriori dell’artista moderno? Perché la poesia è, a tutti gli effetti, arte, intesa nella sua accezione di esperienza creativa e di scoperta. Ma specialmente è, la poesia, quella sempre più rara “intuizione pura” che Benedetto Croce poneva al vertice delle potenzialità esplorative umane. E, proprio per questo, momento di empatia assoluta con la panica poesia del cosmo, fatta di equilibri e di segni e di metafore che compongono il complesso mosaico del tutto.

E chi è, dunque, il poeta, se non un assorto esploratore che naviga in oceani misteriosi e pieni di insidie pronto a cogliere gli echi di questi equilibri e segni e metafore di cui è punteggiato il suo cammino? Custode del suo destino non meno che gli altri uomini, ma più degli altri, forse, consapevole dei riflessi che la sua arte è chiamata a proiettare sull’economia generale dell’universo. Proteso a cogliere a uno a uno, pertanto, gli elementi che gli consentiranno un giorno di rintracciare le linee identificative di quell'”uomo cosmico” che egli già intravede, in filigrana, al di qua del convulso teatro dell’ immanenza.

Panistico e religioso a un tempo, come le due sonorità tonali che scandiscono il battito del cuore, è il verso di Maria Luisa Daniele Toffanin, una poetessa che giunge all’espressione poetica nella maturità e che vi giunge, appunto per questo, con un’arte già esperta e consumata. Anni di gestazione in cui la tecnica del “labor limae” ha potuto svolgere compiutamente il suo ruolo, ma anche i moti dell’anima, quelli profondi e inconfessabili, sono riusciti a convergere in un’unica, a tratti sofferta, espressione.

E’ una poesia raffinata nel fraseggio,di una musicalità cromatica e di una misurata immaginificità quella che Mario Richter, nel suo saggio La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin stigmatizza fin dalla premessa come frutto di una “lingua lirica già chiaramente formata, una lingua sua, evidente risultato, appunto, di una felice sotterranea conquista, di una lunga meditazione di altri poeti lirici del nostro tempo (da Valeri a Cardarelli, da Solmi a Montale), ma tutto sempre saggiamente controllato da una educazione letteraria che non consente gli eccessi e lascia trasparire una misura che ha radici antiche e profonde negli strati più eletti della nostra tradizione poetica”.

La lingua. Più che una conquista in un mondo dove la diffusa e ondivaga tendenza ad abbeverarsi ora a quella ora a quell’altra fonte deturpa e pregiudica “ab origine” il frutto stesso dell’arte, quella forma estetica dalla quale non può prescindere alcuna sostanza interiore. Sicché viene reso possibile alla Toffanin, forte della “sua” lingua, trasmetterci attraverso la scansione musicale del verso innumerevoli impressioni visive, che scaturiscono dalla resa di luci e colori che si susseguono lungo il percorso di piedi brevi e incisivi separati da lunghi spazi bianchi i quali, più che intervalli, diventano a loro volta versi muti, punti di sospensione che aumentano l’aerea plasticità — e non è un facile ossimoro — delle parole.

Musicalità del verso a cui fa da contraltare, secondo Richter, “quella meraviglia fuggevole dell’attimo, arricchito di tutti gli attimi che l’hanno preceduto (fino ai più remoti), acquista quasi — già nella parola poetica presente — un valore di eternità, anzi di una visione nuova, annunciatrice luminosa di gioia”.

Il trascorrere del tempo. Sconfitto dal legame intimo e arcano che correla l’attimo presente, di per se fugace e illusorio, all’eternità in cui quell’attimo si dilata all’infinito, attingendo dai frammenti di ogni tempo passato e di là da venire l’energia vivificante che la rende figura visibile del tutto. “Nella poesia della Daniele Toffanin” acutamente intuisce Richter “c’è senz’altro (come ho detto) il mondo della memoria, ma si tratta di un mondo sempre riconsegnato alla vita entro un trepido orizzonte di speranze e di eternità”. Il passato non è passato se come tale non lo si intende, dirottandolo invece verso una dimensione priva di curvature, di confini. Il tempo privo di tempo in cui la Toffanin colloca questa dimensione e, mirabilmente direi, sintetizzato nei versi finali dell’undicesimo componimento della raccolta A Tindari: “E noi con l’anima confusa / ormai in catene di acqua e di luce”. Qui la visione dei fanciulli che si bagnano nelle acque mitiche del golfo di Tindari viene sublimata da un’ immagine senza tempo, una visione di acqua e di luce” di raro effetto semantico.

Nella raccolta Per colli e cieli insieme mia euganea terra, non certo in contrapposizione ma in armonia piuttosto con la tematica testé descritta, è la poesia della Toffanin rivolta alla natura, a quella natura fattrice e amorevole la cui portata, afferma Richter, “imprime ai singoli versi un respiro che si trasmette al lettore in modo quasi concreto. E’ un atto d’amore fatto di energia, di partecipazione vitale, di primordiale fiducia nel creato e nel suo senso”. In questa dimensione s’inquadra pure il dolore per gli affetti perduti, le persone care scomparse, a essere sublimato, irraggiato di una luce che rasserena il lutto e la sofferenza, colmano i vuoti che si vanno aprendo nel cammino dell’esistenza.

Un cammino che è viaggio, e non solo per luoghi geografici, ma anche e soprattutto per luoghi dell’animo, regioni spesso insondabili se non soccorre appunto l’intuizione pura della poesia, la talentuosa capacità di leggere, attraverso i segni disseminati lungo l’itinerario che a ciascuno tocca percorrere, le ragioni del nostro essere al mondo. Lungo questo cammino la Toffanin mette insieme i versi dell’Iter ligure, là dove Richter individua “l’assunzione della realtà visibile per trasformarla in messaggio umano, in verità dell’anima” in quanto le tappe dell’itinerario in terra ligure che la Toffanin si prefigge, ivi attingendo a ricordi e contesti vissuti, finiscono per diventare vere e proprie mete dello spirito. Ma c’è di più. La Liguria è terra d’elezione per la poesia italiana, sicché la Toffanin riesce anche a rivisitarla in chiave simbolica e fonte d’echi lirici lontani. Ne è un vivo esempio il componimento “Golfi di poesia” la cui quartina finale: “E Venere dallo smeraldo fluttuante / pura rinasce, o poeta, col suo primo sorriso / e nella tela immortale s’eterna” richiama chiaramente l’immagine foscoliana del sonetto “A Zacinto”.

Siamo arrivati alla raccolta Fragmenta. E’ la raccolta degli “archetipi”, che Richter definisce “dei modelli costanti, dei punti di riferimento originari e non modificabili, delle verità che uno si trova dentro, per così dire, alla nascita, come degli ‘a priori’. Cos’è dunque un archetipo? Si tratta di punti di riferimento che, nel deterioramento di ogni cosa, la perdita di ogni stabilità, in una parola l’inevitabile dinamismo involutivo delle cose, riescono a evitare la completa dissoluzione di quella realtà apparente che spesso poco o nulla ha a che fare con la vera realtà, quella profonda, del cuore. La ricerca degli archetipi si attua, secondo Richter, “nella spontaneità, nello slancio del cuore, in una vitalità sempre rinnovata, e comunque sempre capace di alimentare una liricità particolarmente felice, quella stessa che già si è potuto rilevare nelle precedenti raccolte dell’autrice”.

Ed è qui che la ricerca iniziata dalla Toffanin ha modo finalmente di compiersi, nel recupero dei miti, delle immagini scolpite nella mente, basi genetiche iscritte primordialmente nel nostro dna. Qui che il panismo sotteso a tutta la poesia dell’autrice padovana riesce ad esprimersi nella sua finalmente non più dubbiosa interezza. Richter si sofferma in particolare sulla contemplazione che la Toffanin rivolge al cielo stellato, questo splendido “opus musivo nel prato della notte” nel quale convergono i pensieri e le memorie e le impressioni di tutta un’umanità passata presente e futura che a turno vi si soffermata. Ricorda il Leopardi del “Canto notturno del pastore errante nell’Asia” ma non vi è traccia del cosmico pessimismo del recanatese per il quale “la vita è male”, piuttosto la visione della costellazione del Toro, improvvisamente fiorita nel cielo terso, e improntata di una tensione positiva, fiduciosa nel futuro dopo le “amare piogge” che hanno funestato il giorno. I frammenti torneranno a ricomporsi nonostante tutto, perché sarà la speranza a rianimare il dolore per la perdita di quanto ci è caro, una speranza che vincerà la rassegnazione. “In questo orizzonte di speranza” conclude Richter “sta la verità più intima di una voce poetica nuova dal timbro insieme familiare e grave, voce per noi di grande e rasserenante conforto”.

Una voce che sentiamo appartenerci da sempre grazie all’empatia che sa creare con le corde più profonde dell’anima.