Domenico Defelice – Silvina Òlnaro
Non mi ritrovo a teatro invece, come con il precedente lavoro, leggendo le prime pagine di Silvina Olnaro, dramma in tre atti di Domenico Defelice: mi ritrovo nell’angoscia di una dolorosa realtà appena consumata, a tutti nota, quasi profeticamente riprodotta nel dicembre 2008 dall’autore nella vicenda di Silvina in coma da 17 anni per un incidente d’auto.
E non riesco a staccarmi dal dramma reale che mi preme dentro, troppo recente, troppo usato dai media, e proiettare sul palcoscenico i protagonisti defeliciani per una rilettura obiettiva del testo nella sua resa artistica. Ma Defelice per l’impegno teatrale è già apprezzato da validi critici e credo che il suo intendimento non sia questo, ma di agitare le coscienze. In realtà l’opera mi provoca, mi sollecita ad interrogarmi, a tentare delle risposte sulla vita e la morte, sulla non vita/non morte di Silvina e di tanti altri. Anche di un amico mio che è recentemente scomparso in modo naturale, ma è vissuto per anni in modo artificiale attaccato giorno e notte alle macchine. E qui verrebbe da chiedersi se era vita quella di M. che assisteva lucido al degrado psicofisico di se stesso , senza poter proferire parola alcuna in un coinvolgimento famigliare indicibile, senza assistenza alcuna da parte delle organizzazioni sanitarie. Eppure accenni di sorriso al nipotino che gli asciugava il sudore dimostravano un sentimento ancora di partecipazione affettiva alla realtà. Quindi la sua era vita. Ma la disumana sofferenza che ben avvertiva insieme alla perdita di ogni sua dignità, quella era non vita. Mai però ha dato segni di voler troncare questo suo esistere, né la moglie lo ha chiesto per lui. Altri lo hanno fatto in analoghe simili situazioni, simili e analoghe al mio sentire. E qui sarebbe da discutere all’infinito sul significato di ogni parola, in particolare sul senso , per ognuno di noi delle parole vita e morte. Ma il caso di Silvina è altro. Ed ogni storia è altra, ma tutte avvolte da un mistero che ci sfugge e che vogliamo ad ogni costo oggi decodificare secondo un codice umano, quando nessuno da sempre ha avuto risposte. E sarà difficile, inadeguato legiferare sul mistero: ogni testamento biologico o altro tipo di provvedimento comporterà per chi rimane dubbi sulla decisione da prendere con carico ulteriore di sofferenza, perché, di fronte ad una possibile legislazione in merito e a un testamento biologico con eventuali mutazioni in itinere, è poi sempre con la tua coscienza che ti devi confrontare. E la coscienza non perdona, anche se la legge ti consola, soprattutto quando si tratta di una vita che si sta aprendo o che si sta spegnendo. Ma qui sarebbe da valutare che cos’è la coscienza per ognuno di noi e appunto il loquire non avrebbe fine. Allora leggo da Matteo, XXIV,42; XXV,13: “Vegliate adunque, perché non sapete a che ora sia per venire il Signor vostro”…”Vegliate adunque, perché non sapete il giorno, né l’ora”.
Ma se mi è lecito citare, non mi è lecito imporre il Vangelo. Ed io rispetto la diversità, ma ripenso ad altri vissuti, in camera di rianimazione, a me molto vicini, che mi confermano quanto detto sopra come verità-percorso da seguire senza cercare soluzioni diverse, semmai chiedere alla Provvidenza la pazienza del patire difficile da accettare:”Padre allontana da me questo calice amaro”. Provvidenza, pazienza: altri termini su cui soffermarsi prima della loro definitiva estinzione. In realtà noi nella malattia, nella morte paghiamo un alto prezzo al progresso, che dona molti benefici, ma ti aggredisce, talora con esito positivo altre volte letale, per tenerti in vita a tutti i costi aggredendo la spontaneità del morire, perfino negando il conforto della presenza dei propri cari intorno al letto di morte in quelle asettiche stanze dal meccanico pulsare. Allora troppo coinvolta da esperienze personali e turbata dall’entità del quesito per esprimere giudizi sulla morte/non morte di Silvina, sulla decisione definitiva del padre pur autorizzata, mi soffermo brevemente solo su alcuni aspetti dell’opera teatrale Silvina Olnaro definita da Giorgio Bárberi Squarotti “un dramma altissimo, lucido e appassionato, fra tragicità e satira, efficacissime entrambe”. In tutti i tre atti si respira un grande pathos. Defelice ha saputo infatti immedesimarsi e immedesimarci nella disperazione del dolore umano ma anche negli aneliti infiniti di speranza, nella pietas per la morte/non morte e insieme nel rispetto per la dignità della persona, per le diverse opinioni e nella satira a una società distratta di fronte ai gravi problemi. Questo ancora una volta attraverso l’intelligenza del dialogo modulato su accordi alti e bassi , su registri linguistici diversi, dalle frasi brevi frante, consumate da una insopportabile astenia del cuore o innervate di fiducia in Dio, allargate in dolcissimi monologhi-colloqui che solo un’amica vera o un cugino affettuoso può inventare per risvegliare alla vita Silvina. Un dialogo corale che accompagna la tragedia: tante voci diverse che dicono l’umana solidarietà o si confrontano, si scontrano alla fine alla ricerca di una soluzione al problema che è umano, etico e giuridico. Espressioni queste di una società superficiale che non vuol comprendere i tanti drammi sofferti in modi diversi, come ora questo di Silvina. Un dialogo dunque di forte presa, autentico, tale da evidenziare dal profondo la sostanza psicologica dei vari personaggi che si muovono in uno spazio immobile, disadorno, dai battiti metallici, invaso alla fine dall’arroganza dei media. E questo in un tempo sapientemente ravvicinato sempre con quella ricerca di umana misura, cifra dell’arte teatrale di Defelice, già evidenziata nel lavoro precedente. E il tutto ti coinvolge nella sua verità artistica derivata dalla lettura dell’animo umano in ogni sfumatura. Un vibrare continuo di note emotive come in una sinfonia d’amore-dolore che si eleva nel silenzio della pietà, si colma di pathos nella disperazione del padre, nel respiro ultimo della madre, si inasprisce nei toni ambigui dei dialoganti e si chiude in quelle note finali disarmoniche che pur riflettono la rilevanza del problema. E al calar della tela, anche se l’opera teatrale corrisponde ai canoni di un grande dramma, è la realtà che mi riafferra: la problematicità di una decisione che coinvolge diverse categorie di giudizio, non facilmente conciliabili. E ancora il tutto mi turba.