Daniela Babolin – Di brume e solchi. Viaggi in poesia
Poesia, palpiti del cuore – percorsi, solchi e vastità
Ho incontrato Daniela Babolin, autrice della silloge “Di brume e solchi”, come alunna della scuola media Vittorino da Feltre di Abano Terme. Di lei apprezzavo il rispetto, la devozione verso ogni persona, proprie di un’anima particolarmente sensibile che sapeva tradurre i suoi sentimenti con una scrittura originale e matura per la sua età. E ora a distanza di anni, ignara di tanta poesia pur avendo mantenuto contatti per collaborazioni varie, la ritrovo in queste pagine con quella sua vocazione-attenzione all’altro acuita da una sensibilità affinata dagli eventi della vita e innervata da un sotteso desiderio di dire, pur nella sua riservatezza, per fissare nella memoria la figura paterna, la famiglia, la bellezza della natura, gli attimi del tempo che passa, per un desiderio intimo di eternità e di infinito. Temi questi ed altri ricorrenti nelle cinque arcate di questa silloge, approfonditi con linguaggio elegante, uso frequente di figure retoriche, aperti in versi musicali come nel ritmo lento della ballata “Il ritorno”.
Il tutto, già evidente nella prima parte dedicata al padre, percorre ogni sezione dell’opera in cui sono presenti altre figure familiari, quale pensiero poetico affettivo reso in una perfetta circolarità, incipit e conclusione della silloge con i sonetti dedicati alla nonna. La chiave di lettura prima quindi, a mio dire, è il mondo degli affetti, le radici, la memoria nella vita privata, nel procedere della storia. E su questa traccia ci soffermiamo seguendo l’autrice nella lirica introduttiva “È un viaggio, la poesia” in cui enuncia sinteticamente il suo itinerario: … tra brume e solchi, / ti accompagna … nel vivere de giorni … Scava scioglie svela sparge semi, / imprime la sua traccia e per te miete / ricolme spighe e frutti… È un viaggio, la poesia, nell’altro e l’oltre / e ancora e sempre ti sorprende / in rinnovarsi di stupori / d’emozioni…
E noi eterni nomadi alla ricerca come lei di risposte ai mille quesiti esistenziali, sostiamo alla prima stazione “Il viaggio” dedicata al padre, che si potrebbe intuire come viaggio nel padre, il viaggio cioè di Daniela attraverso il vissuto paterno: la sua sofferenza psicologica e fisica in quel cunicolo polveroso e buio, l’impossibilità di comunicare, la sua nostalgia di Itaca, sentimenti provati nei campi di concentramento tedeschi. Soldato semplice, era uno dei 650 mila Internati Militari Italiani fedeli al giuramento di soldati, costretto a lavorare nella miniera a prezzo della sua stessa vita. Pagina di storia solo recentemente rivalutata nella sua coerenza, con onestà intellettuale. Pagina di storia rivissuta con la forza dell’amore-dolore da Daniela che vuole ricostruire con il ricordo dei racconti paterni a lei e alle sorelle bambine, il percorso anche interiore del padre reinserendolo nella grande Storia attraverso luoghi come in “Per sempre Majdanek” (pag.11), l’orribile campo senza tenera erba, delle estreme sofferenze, dopo l’Alsazia ed altri campi fino all’Ucraina, della vita-non vita, sull’orlo dell’abisso per l’ingiustizia subita nel dopo di reduce.
Esperienze riscattate, raccolte dall’autrice: affidasti a noi tue memorie per farne Memoria. In questo iter storico- poetico rivede persone amiche in “Ti chiamavi Ivan Stumpf”: … non solo un nome, per mio padre, / prigioniero in quella terra d’Ucraina, / ma un fiore rosso, delicato e forte e lieve / tra le spighe ondulanti sotto il vento… simbolo dell’amicizia e dell’umanità pur vive nell’orrore bellico. E alla sua Assenza estrema, provata svuotata, vuole colmare quel vuoto di ricordi di vita danzante, allegra, giocata alle carte: ozio beato tra affetti e amici. Insieme recupera, in poesie diverse, quali “Ancòra Ancora”, “Vieni, Padre”, quotidiane carezze, tenerezze, la devozione e gratitudine al Santo Antonio pregato, mai sazia di rievocare il padre mai sazio nella sua avidità di vita, per sanare le sue sofferenze, tenerlo in vita per sempre e per lenire il proprio dolore di figlia, preziosa autoterapia per purificare per sempre il dolore.
In particolare “Eternamente” è una continua dichiarazione d’amore, un’epifania di immagini vive di lui, amabile nel lavoro, nella piazza, punto di riferimento, risuscitato nel dolce-amaro canto della poesia in cui i sentimenti della figlia e del padre vivono insieme in un’empatica fusione. È come un risarcire con i versi il lungo patire e salvare il tutto alla smemoratezza del tempo. E altre immagini lievitano dai versi di Daniela prendendo corpo, come quello della madre, figura sfumata, emersa da una scia di profumi-ricordi d’infanzia, in un sapore di nido, di giardino, di casa. Immagine leggera, intensa rievocata con amore, presenza fiorita nella famiglia in un effluvio continuo di essenze, presenza nel cammino di vita dell’autrice qui vissuto nelle varie fasi in delicati petali di un divenire perpetuo (“Fiori”, pag.41).
È dal dolore per la grave perdita che può nascere la poesia come desiderio di tergere le lacrime, poesia che però si allarga poi, per un innato bisogno di comunicare, ad altre pagine di vita come il mondo dell’infanzia rassicurante nella figura della nonna, a chiusura della silloge, offerta di uno spaccato altro di costumi, tradizioni. Il poetare così diviene rifugio per il proprio dolore, luogo di preghiera e speranza, caleidoscopio di ricordi, canto alfine all’esistenza. Probabilmente anche per Daniela è avvenuto questo processo catartico attraverso le meditazioni sul padre, sulla madre in primis e su altre figure in un continuo affettuoso richiamo poetico.
Seguiamo però il percorso dell’autrice che apre la seconda parte con il mito di Ippocrene e rivela il senso della poesia, per lei, come laboratorio di ricerca e rielaborazione, esercizio metrico, espressione della sua interiorità. È infatti costituita da un susseguirsi di variazioni emotive proprie quindi di momenti diversi, esistenziali e di scrittura, espressi con flash “Immersione”, “Fragilità” quasi in contrappunto ai poemetti paterni, e anche con la creazione di sonetti e haiku. Sempre riconducibili a quei motivi preannunciati nel manifesto iniziale. La poesia è addirittura intesa come esistenza stessa (pag. 23): … Mi pare d’esistere / se m’immergo in poesia, urgenza di spazi infiniti, di ricerca dell’oltre e insieme il bisogno di quotidianità, la conoscenza del proprio limite in una fusione di sentimenti vari espressi in grumi di solitudine, attese, attimi d’amore, brevità del tempo, sete di vita in uno sfondo di natura che penetra leggera (pag. 32) tra i versi come altro motivo di vita. Come pure vita è quel Tu “Presenza”, “Nel tutto tu”, quella presenza non chiarita espressamente ma che potrebbe essere anche l’annuncio del divino racchiuso nella poesia.
Nella terza arcata “Momenti” ritroviamo testi che nascono dal profumo, anzi dai richiami in noi di profumi che denotano i luoghi e rimuovono emozioni, con un ritorno puntuale alla famiglia e in particolare, come abbiamo già anticipato, alla madre. Il profumo diviene sorgente emotiva salvifica per l’anima e il corpo. Ma anche la quotidianità ha una sua essenza e in essa, afferma l’autrice, si vive l’eterno “Cenacolo”: …è nella quotidianità / da cogliere attimo per attimo / l’umana nostra resurrezione. Poesie che indicano sempre stati d’animo, riflessioni sull’oggi, sul nostro vivere e che seguono la dinamica del nostro stesso pensiero che vaga da idea a idea a seconda del momento, con una sua indefinibile logica. E così riaffiora il ricordo di un commiato acerbo rivissuto in “Solstizio d’inverno” con delicate note di luce crepuscolare lunare in cui … amore / discioglieva gelida pietra / in fiorire di nuova vita… (pag. 53).
E in questa chiave talora enigmatica di attimi, di attese ricorrenti nella silloge, è riletto anche il messaggio dell’arte intesa nel suo linguaggio, nella sua visione. Ecco che la lettura dei quadri ti crea stati d’animo simili all’estasi, isolandoti completamente dalla realtà in una sensazione di eternità. La brevità della vita, dell’istante è espressa anche pittoricamente in “Prima che il giorno muoia” nel giallo del girasole. L’autrice invita Vincent a cogliere l’attimo del giallo per renderlo eterno per sempre prima che si sciolga il giallo e il girasole chini… prima che il giorno muoia. Quindi l’arte come espressione di eternità. Ma a questa eternità si contrappone in un “Un nuovo silenzio”, il senso della provvisorietà del nostro oggi, della nostra umanità sospesa, / sorpresa all’improvviso / a fare conti impietosi con se stessa… stato d’animo illuminato dall’aria tersa di un nuovo mattino … per chi passa, senza un’ultima carezza, / sopra un camion… E siamo nel pieno della nostra storia, del nostro quotidiano nuovo silenzio.
Passando alla quarta sezione “Sul filo d’orizzonte” Daniela stringe un patto intimo con la natura, già sfondo o riverbero o filo di luce penetrato in moltissimi suoi versi, perfino nel viaggio imico, ma qui resa protagonista come occasione di continue emozioni, di poesia. L’autrice coglie l’anima del creato che ovunque palpita e si manifesta: è vita, sorgiva, nutrimento allo spirito che ci solleva in un’atmosfera oltre il reale. Ovunque, nella brezza, al crepuscolo, con la luna, o sulla battigia c’è una fuga d’infinito, un rimpianto d’eternità e un attimo da ghermire, ovunque è percepito il ritmo del creato anche nella danza instancabile di “Mellifere api” segno dell’operosità perenne della natura.
Soffermandoci su questa penultima sezione osiamo pensare alla nostra eterna inquietudine, alla coscienza dei nostri limiti, al non espresso nel quotidiano che ci guida alla ricerca di pace proprio nel creato offerto come un libro aperto nella sua chiarezza, malleabile materia trasformata in Parola, luogo del ritrovato equilibrio.
E fonte di poesia sono anche “Incontri”, ultima sezione in cui l’autrice esprime, come già nella prima arcata, la sua devozione ad alcune persone con cui si è incontrata in attimi di poesia e che hanno inciso un solco nella sua anima: da Andrea, dono d’amicizia alla figlia, troppo presto ghermito alla vita, all’insegnante di lettere delle medie che disvelò l’inesplicabile della poesia, tracciando come lama in una zolla / il solco di poesia. Non possiamo dimenticare le “Voci in cortile” dei suoi alunni, parte vissuta della sua vita vivace brulichio d’anime, e la nonna materna come scrigno di memorie, rievocazione del tempo mitico dell’infanzia, come costume di vita altra, vissuta insieme in case vicine, in un cortile comune, in un’aria profumata di calle, gigli e gerani. Nonne, “Nonna prece”, “Nonna nodo”, Nonna cuna”, “Nonna formica”, nonna materna riemersa in ricordi affettuosi di fiabe, nenie che ancora rivivono patrimonio di ogni mondo bambino.
La poesia quindi è anche qui un impegno etico di trattenere questo mondo unico qual è l’infanzia, per trasmetterla ai figli, ai famigliari, agli amici, come pure il vissuto paterno già precedentemente annunciato, nobilitando il genitore nella sua storia imica, nel suo comportamento dignitoso, coerente, coraggioso pur nella sua sofferenza ultima. E conclude rivolgendosi ai figli in una confessione d’amore: … Vorrei lasciarvi perle lucenti e cangianti / racchiuse in conchiglie d’intimo involucro: / sono come le parole di un amore profondo / amore infinito e a volte inespresso…
Un’opera con riferimenti autobiografici questa prima silloge “Di brume e solchi”, espressa con palpiti del cuore, costruita dal pensiero che ne ha deciso il percorso. Quindi un lavoro proprio di chi si è impegnato da sempre, soprattutto negli ultimi sei anni, che conosce il mestiere, ha letto molto, ha fatto suo il linguaggio dei suoi autori preferiti. Non ha quindi le caratteristiche dell’opera di un neofita, ma è esperienza acquisita in un lungo meditare.
Rivolgo il mio grazie alla scrittrice Gloria Spessotto per aver convinto Daniela a uscire dal suo riserbo, a pubblicare la sua opera che sono contenta ora di conoscere nella sua vastità