Salvatore Arcidiacono  – Di fronte al calzolaio

Non è facile parlare di una esperienza poetica quando dell’autore hai appena appreso il suo percorso poetico e umano. Non è facile ma, nell’atmosfera di amicizia a cui si ispira il Cenacolo di Poesia di Praglia – Insieme nell’umano e nel divino – da me e da Salvatore frequentato, piace accingersi a questa impresa. Colpisce subito alla prima lettura il linguaggio particolare, modernissimo e antico insieme, amalgama del vissuto giuridico, quotidiano, anzi isolano caratterizzato da un lessico ora professionale ora famigliare ora filosofico, biblico con frequentazioni greche e latine – che sono poi sempre della Magna Grecia, luogo natale di Salvatore – ed echi arabi e in dialetto siciliano.

In questa impegnata e costante ricerca di novità che coinvolge tutto il suo sentire, come un magma prorompente dal suo cratere-pensiero, la parola è impreziosita da un notevole apporto culturale, già evidenziato, derivato anche da esperienze artistiche (quali mostre ed altro) legate a Piero della Francesca, Chagall, a conoscenze d’architettura che si manifestano in forme decise anche se talora criptiche, come habitus di un parlare-pensare abituale. Guidato dalla mente in questa sua esplorazione linguistica, è allo stesso tempo assorto in un’indagine esistenziale sulla verità da ritrovare in una realtà, anche religiosa, che offre più dubbi che certezze. E così percorre nella sua silloge, costituita da due parti, le categorie del tempo – nelle sue diacronie – e della conoscenza attraverso varie asserzioni, riservando spazi limitati agli affetti vissuti con estremo riserbo pur in stato di complicità con il padre e i figli. Canta nella seconda arcata l’evento pasquale, rievocato secondo la tradizione-folclore del suo luogo d’origine, in una esasperata riflessione sul giusto-non giusto, vero-non vero, anche qui in un solerte interrogare sullo stesso Pietro, sullo sfondo di un’apertura paesaggistica ristretta, appena tratteggiata cromaticamente.

Una scrittura, così affollata di riferimenti colti, potrebbe soffocare quella libertà emotiva, quell’anima autentica troppo controllata, ma sottesa nel cammino linguistico. Questo però è forse l’obiettivo di Salvatore che predilige il non detto come plusvalore poetico, con i suoi relativi rischi, come scelta anche esistenziale. E questo si percepisce nel suo guardare le cose da lontano, dall’alto senza confondersi nei riti della Settimana Santa, per vedere il tutto muoversi in uno spazio-tempo di Verità.

Il registro è sempre alto, modulato su toni diversi: da un crudo realismo che sembra voler stupire ad una pensosità filosofica, dal sentenzioso all’ironico, dall’amletico all’inquisitorio, innervato costantemente da una sincera aspirazione a quel Vero di cui già si è detto. Il tutto usato con estrema parsimonia in una scrittura sintetica, quasi lapidaria, che converge in chiuse finali spiazzanti perché inattese per linguaggio e immagine, o in chiuse filosofiche inquietanti. Una poesia per lo più intesa come ricerca sia linguistica che ontologica, compiuta tramite affermazioni autentiche di un’anima che si rivela, ma ancor più si vela. Cifra propria del soggetto culturale della Sicilia che, nella triplice ascendenza greca, arabo-spagnola e normanna, avverte spesso l’esigenza di affermare una propria identità nell’inquietudine esistenziale globale.