Andrea Zanzotto – Sovrimpressioni

(Mondadori, 2001)

Sere del dì di festa 5

Vestita di rosso e con un famoso
fabulistico cappello (nero?)
sull’auto rossa sull’utilitaria
detta “Corsa”, dell’Opel, una rossa
invero straordinaria,
giù dai campi di inenarrabili candori
dai campi-incanti
scende scende madame per i tornanti
della strada d’Alemagna –
È già tardi, il traffico è debole, stagna,
è la sera – già notte – del dì di festa.
Verso dove lei tranquilla si lascia scendere
verso quali obiettivi dentro il buio
che non sa come spegnere tutti gli splendori
e i covi di faville che esaltarono
insufflarono attizzarono il giorno –
da dove a dove fa ritorno?
Nulla mai comunque ci sarà ridato,
non un solo respiro, un solo afflato:
ma almeno, unicamente         un pensiero
di sera del dì di festa, bloccato
bloccato nel suo deludere
nel suo deludere amato,
ci è consentito scrivere come
epistola all’alto Tutto-Nulla.
Lungo i tornanti madame si culla,
pur sempre attenta ed intrepida nel procedere;
già sono lungi i campi-paradisi
intrisi ora di tenebre,
e lei è qui, nella sera del dì di festa
che pungendo s’ingelatina ancor nell’aria.
Già al capo è giunta e dorme – mah –
la rossa utilitaria

Piace proporre, nei festeggiamenti per il nostro poeta, la poesia Sere del dì di festa, 5 tratta dalla silloge Sovrimpressioni, Premio Pen, di Andrea Zanzotto, tema a noi lettori particolarmente gradito. E questo anche per onorare il poeta che in quest’opera – segnata da una continua ricerca linguistica – e testimone, come lui afferma, di un mondo perduto di inenarrabili candorie lunari concerti campestri in un’epoca smarrita per la caduta di identità, per il degrado della natura. In questa rilettura ricompare subito quel flash di gioia visiva accesa dalla figura femminile in un paesaggio di incanto immacolato, quasi visione mitica ricuperata alla fisicità dalla forza della parola poetica. E appare, come leitmotiv del testo, la sera del dì di festa. Espressione vitale, in offerta di speranza, che ripropone tutta la gioia dell’attesa di questo particolare momento, in realtà spesso deludente nel vissuto, al dire di Zanzotto-Leopardi e anche al nostro sentire, ma pienamente amata nel suo deludere amato. Perché è nell’attesa la vera festa, il propulsore del giorno. E quanto si attende, si ama quella deludente sera che in se racchiude il Tutto-Nulla leopardiano! Quanta gioia da questa attesa della sera del dì di festa, unica certezza come “pensiero bloccato” nell’amara constatazione di Zanzotto che nulla ci sarà ridato del nostro vivere.

S’intravede un altro senso di gioia, di forza energetica in “tutti gli splendori / e i covi di faville che esaltarono / … / il giorno” che il buio di ogni disagio, di ogni dolore della vita stessa fatica a spegnere. Un buio in cui madame, forse metafora del nostro andare, si lascia scendere ignara di dove venga e dove vada, quasi senza obiettivi, ma ancora attenta-ardita nel procedere-vivere la sera del dì di festa. L’esserci, in questa mitica sera, e quello che conta, mentre le tenebre hanno ormai offuscato i campi-paradisi del giorno. Una gioia che quindi non è canto pieno e continuo, ma accesa in alcune atmosfere indicibili, in particolare presagita nella sera del dì di festa e vissuta nella sua miracolosa attesa. Così ad una prima immediata lettura.

Si può tuttavia addentrarsi nel testo precisando alcuni dati. Fra le cinque versioni di Sere del dì di festa ci si sente da subito catturati dalla madama vestita di rosso, dal famoso fabulistico cappello nero e si avverte, già in questi primi versi, la tensione linguistica di Zanzotto nel tradurre la realtà di un viaggio su di una Opel rossa (tra l’altro, la moglie Marisa Michieli aveva proprio una vettura uguale) in un’atmosfera magica in cui l’immagine non svanisce, ma si carica tutta del sentire zanzottiano, si dilata estesa in un tempo sospeso, grazie anche all’uso ripetuto dei verbi al presente storico. Il che prolunga l’azione ritmandola musicalmente, anche in virtù del ricorso a continue assonanze e consonanze. Diviene cioè poesia-voce-favola che attraversa il viaggio, la sera del dì di festa, la storia stessa con un messaggio universale: l’enigma di madame, da noi vissuto come attesa delusa ma amata, resa con un linguaggio favolistico. Già il colore rosso del vestito, il cappello, il rosso riacceso della macchina, la ripetizione dell’aggettivo e del verbo, il punto di domanda creano una figura femminile reale ma straordinaria: una rossa straordinaria protagonista di un viaggio-enigma esaltato dall’innocenza immacolata di un paesaggio invernale, dal candore di campi definiti inenarrabili che dilatano la purezza di una natura senza luogo e tempo, ma buona laddove bellezza e mistero della vita si fondano, come in altre liriche di Zanzotto ma sempre in una suggestione unica (si veda, sempre in Sovrimpressioni, il C’era una volta in Ligonas). Questa tensione linguistica innerva anche la strofa successiva, quando ormai è già sera, e già notte del dì di festa nel lasciarsi andare di Madonna dentro al buio ma con l’ardore vitale, dentro, ancora acceso. E qui, una sequenza di espressioni che vale la pena di citare nuovamente: splendori / e covi di faville che esaltarono / insufflarono attizzarono il giorno

Una sequenza che esalta la bellezza della vita-attesa nella sua magia-fuoco che avvampa, nel crescendo linguistico zanzottiano, creando un altro incantesimo come solo lui sa fare, quando allontana il volto triste della realtà – consumato in una sera deludente – rifugiandosi in questa atmosfera fantastica che avvolge l’enigma della vita in una temporalità sospesa, grazie proprio alla sua parola. Ed e questa parola ad accendere il fascino amoroso della sera del dì di festa nel suo deludere amato in un ritorno meditativo e filosofico di stampo e sapore leopardiano, nella consapevolezza condivisa che nulla ci verrà ridato, neppure un respiro di quel giorno fuggito, estinto in una delusa attesa. Una breve sosta permeata da una modulazione sapiente del registro linguistico, intenso ma pacato.

Il linguaggio non tradisce mai l’azione accompagnando madame nella fine del suo viaggio in un giorno ormai passato, confinato in ricordi di campi paradisiaci finche si addensano le tenebre. Una sera, però, che si estende e conclude – nella dicotomia tra attesa e delusione – in pungenti disincanti emotivi, l’annuncio nell’aria di un’imminenza di gelo. La potenza linguistica si accampa nelle immagini come una resistenza contro il perdersi della sera nel nulla: la rossa utilitaria è giunta e dorme – mah. Il linguaggio diviene pertanto una forma di certezza, pur in bilico, una sorta di difesa con la forza lessicale (espressione del pensiero-sentimento zanzottiano) dell’enigma che solo la lingua sa lambire senza cedere alla sera del nulla. Così la magia della parola, quel raccontare quasi antico, riempie i vuoti del vivere attraverso la parvenza di altri miti, primo tra tutti la bellezza perenne della natura.