Andrea Zanzotto – AD ANDREA ZANZOTTO SULLE CONSEGUENZE DEL PROGRESSO
Divagazioni su alcune tematiche attuali a me note da personali conversazioni con Andrea Zanzotto e dalla lettura di In questo progresso scorsoio, Garzanti, 2009
“Emergenze climatiche e crisi ambientali, conflitti per l’energia e fondamentalismi religiosi, turbo capitalismo in panne ed eclissi degli idiomi minori: agli esordi del nuovo millennio, ci troviamo immersi in un «tempo che strapiomba», si aprono nuove difficili sfide, che stiamo affrontando inconsapevoli. Una certa teoria del progresso, sordida e indifferente all’etica, rischia di portarci verso l’autodistruzione.
Erano riflessioni come queste ad angosciare Andrea Zanzotto, maestro di coscienza, oltre che autore di versi fra i più importanti e profetici del Novecento. In queste conversazioni raccolte nel volume “In questo progresso scorsoio –Edizione Garzanti, 2009, frutto di una lunga amicizia e consuetudine, il poeta ripercorre con Marzio Breda la propria esperienza umana, culturale e creativa. Soprattutto, tratta alcuni temi chiave del nostro presente, quando è più che mai necessario riscoprire il passato per sondare il futuro: paesaggio e linguaggio, storia e memoria, fede e politica, eros e psicoanalisi…”
«…in questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio.» // «C’è un volano infernale che gira / ed esaspera una certa idea di onnipotenza, / una rivoluzione che invade i pensieri / e che inquieta e alla quale bisogna / opporre resistenza…»
Questa quarta di copertina sintetizza la sostanza del libro e ben si ricongiunge al concetto di Ulisse, demoniaco, ingannevole nella sua incitazione ad andare oltre. Certo diversa è l’interpretazione omerica, ma visto che parliamo dell’Ulisse dantesco, mi avvedo di sentire grandi affinità con quanto espresso da Zanzotto nella sua Conversazione con Breda su questo progresso scorsoio, in particolare sull’urgenza di opporgli una forte resistenza. Questa resistenza, a suo dire, s’innerva nella verità del paesaggio, nella voce salvifica della poesia, dell’arte, nell’intensità dell’incontro umano, e soprattutto nel richiamo ad antiche tradizioni che sono storia, memoria, senso di appartenenza ad una comunità. E lui, il poeta uomo di paese, ben le trattiene in Mistieròi nel suo dialetto solighese, lingua materna, anche evidenziando il valore dei dialetti che proprio questo modo nuovo di vivere va distruggendo come forme di identità. “La vera umanità – lui sostiene – non può avere che una radice sola, la fedeltà alla madre”. Padre David Maria Turoldo lo riafferma nella sua postfazione a Mistieròi, nell’edizione tradotta in friulano. Quindi senza la materna lingua poetica, senza più memoria delle proprie radici, non ci può essere storia per l’umanità come ribadisce il poeta in vari punti del suo conversare. Così accade anche per l’assenza, ormai diffusa, di rispetto per l’infanzia, stupore e meraviglia, con cui guardare il mondo, e per la natura, specchio e riflesso di ogni vicenda terrestre. Per questo Zanzotto diviene acceso ambientalista contro un progresso che distrugge le colline di Pieve di Soligo per fini economici e che non si occupa, come sostiene nel libro, dei figli che si drogano perfino con la grappa nella ricca e gioiosa Marca Trevigiana. Tutti fatti, soprattutto quest’ultimo, conseguenza dell’eclissi del sacro, già anticipata dal sociologo Sabino Acquaviva secondo Marzio Breda, e discussa in vari dialoghi anche radiofonici da Zanzotto, come conseguenza della distruzione delle pratiche religiose, della perdita del senso di comunità e quindi dell’assenza di spirito d’impresa solidale. Quando si tocca il sacro della vita, della morte e della convivenza umana – precisa il poeta – si sfascia la società in tutti i suoi aspetti macroscopici e microscopici incluso l’utilizzo dei dialetti che tende così a scomparire. Qui Zanzotto ne esalta nuovamente il valore come raccolta di memorie della nostra stessa storia, quindi anche di costumi di vita come il filò a sera a Calsanta, la strada della sua infanzia, senso primo di comunità, azzerati da questo progresso scorsoio. In particolare ravviva allora il valore dell’incontro umano, lui che credeva nell’ umanità. Tra i tanti suoi rapporti ricordiamo la bellezza dell’amicizia con Fellini, con padre Turoldo e con la migliore intellighentia del mondo e dell’Italia. Basti pensare ai contatti con la cultura della Sicilia, specialmente con Lucio Piccolo e Tomasi di Lampedusa incontrati al convegno di San Pellegrino a cui aveva partecipato su invito di Eugenio Montale, ben evidenziati da Giuseppe Ruggeri nel suo Incontri in Sicilia. Testimonianze di vita e di cultura, Giambra Editori, 2016. Ma ancor più mi tocca il suo discorso sull’ambiente distrutto dal progresso, ascoltato dalla sua viva voce, durante il viaggio tra Pieve di Soligo e la scuola Alberti di Abano. Andrea riproponeva con sofferenza l’eterno problema della trasformazione dissennata di luoghi fantastici come Ligonàs, le terre del duca di Dolle, che erano feudo dell’amico Nino, cioè di quelle zone mitiche che sono state adattate a resort e hanno perso la loro bellezza con la distruzione non solo del paesaggio ma anche di tradizioni, costumi di vita paesana così vivi e autentici nella giovinezza del poeta: un rammarico da lui più volte espresso e da me recepito in momenti unici di confidenze. Tutto per quella arroganza del folle volo di Ulisse che usa l’inganno del luogo più accessibile, appetibile ed altro per annientare, senza rispetto alcuno, l’ambiente che è storia, memoria e umanità. Tanti altri spazi, come il Montello, rimbalzano vivi nel bel conversare, ambiti di fantastiche leggende, ma anche di verità storica e soprattutto di ispirazione e progettazione poetica.
Ecco alcuni versi del poeta, da pagina 69: La contrada, già Zauberkraft / povera, sul nulla si equilibrava, volava: / ora con qualche soldo in più / piomba giù. / Cento capannoni puzzolenti / la stringono come denti. / Ecco poi qua via Alzaimer, / abitazioni vuote o con vecchi solitari, / timidi somari. / Ecco via Catarro, via Borderline / inter quos ego / con un piede sull’ultra-confine. / Ecco là «Associazione giovani mafiosi nostrani & / ultramontani» / a sparger becchime di peste / ai bambini figli unici che domani / se mai si uniranno / di un colpo solo elimineranno / col loro figlio unico / metà abitatori. / E i restanti saranno ancor più rapidi / nel farsi fuori. // Ma su tutto il paese / vigila un gran capo balinese. / «Chissà / se nemmeno ce l’ha / una grande città».
Una conversazione che si dilata, come già annunciato, ad ogni aspetto del nostro tempo, etico, religioso, consumistico, perfino climatico e alla stessa globalizzazione, ulteriore causa della scomparsa dei dialetti e dell’impoverimento della lingua italiana per l’abuso di termini stranieri. Fenomeno di cui ha grande responsabilità anche il dilagante utilizzo della comunicazione via mail che, tra l’altro, aumenta l’individualismo, spegne la bellezza del rapporto umano fatto di parole e sguardi. I cosiddetti social sono strumenti di grande utilità quotidiana nel mondo del lavoro, nelle relazioni economiche e appunto sociali, ma spesso privi di regole che salvaguardino i principi umani, i diritti e doveri di una collettività. Ci troviamo quindi di fronte ad un’anarchia completa in cui, nell’anonimato, chiunque può dire di tutto e di più su tutto e tutti, rivelando un senso di bestialità proprio dell’uomo lupo all’altro uomo. Senza poi pensare a tutti i luoghi reconditi, segreti in internet, spazi pericolosi per un giovane e senza alcuna legge né limitazione. Il folle volo, nel procedere ingannevole del progresso, apre una vetrina di punti di luce immersi in vaste zone d’ombra nella ricerca, ad esempio, tecnologica e scientifica. Le stesse cure mediche più avanzate, per scendere nel particolare, hanno esiti diversi, talora fatali, date le reazioni del corpo umano non sempre codificabili. Permane quindi il limite indicibile, il mistero in cui siamo immersi per cui non c’è che la trascendenza a poter dare garanzie di Luce, non c’è che la risposta della preghiera che offra soluzioni altre. In Zanzotto l’esame del rapporto con il trascendente è sempre attuale e connaturato, in questa conversazione ad ampio raggio, attraverso la storia dell’uomo e nella storia stessa della terra. Coinvolgente cammino mentale psicologico che il poeta profeticamente propone, invitandoci a riflettere sul nostro esserci oggi. Spiace doverci limitare ad una lettura incompleta di un testo così ricco di spunti, ma anche questo limite fa parte degli aspetti contradditori dello stesso progresso. Importante è che ognuno di noi riprenda coscienza sull’abuso di qualsiasi novità rivalutando il senso della propria vita, i silenzi interiori, gli strumenti umani per riconoscere se stessi e gli altri nella vera dimensione che sembra ormai completamente scomparsa. Le conversazioni di Zanzotto con Marzio Breda sono davvero uniche: una meditazione, quasi un odierno vangelo laico che ha in sé qualcosa d’eterno senza spazio, senza tempo, pur gravitando sulla terra, in particolare sulle coline di Pieve. È in fondo l’infinita inquietudine dell’uomo di fronte ai problemi del suo tempo nella ricerca, sempre, del divino.
VIAGGIO-VISITA AL POETA
ad Andrea Zanzotto
S’inerpica ardito il pensiero
verso il Passo San Boldo
in vertigine di balzi rimbalzi
spaccati di roccia livida
a spruzzi d’umido verde.
Un crescendo col respiro
aperto alfine in un lento adagio
di pascoli e boschivi.
Dà il la d’allegria un profumo
intenso richiamo del ciclamino
tra segni vivi d’umana fatica.
La discesa soffocata in vorticoso
tunnel – intellighentia bellica –
si fa poi morbida nell’odore
di gravide vigne giù giù fino a Pieve
amati amari declivi
globale osservatorio del poeta.
Quel dì ti vidi nella tua Soligo
a me ancora verde di acque di fronde
a te altra ormai dalla stagione giovane.
Dolle non più magia-feudo di Nino!
Ti vidi
le membra, al tuo dire
bulinate ora dal vento degli anni
ma il volto illuminato di poesia
lo sguardo buono acceso di stupore.
E nelle parole fra noi
impetuoso scorreva il fiume della vita
tutto il tuo ardore per il sacro dell’uomo
del paesaggio. Dietro.
Pieve di Soligo, 26 agosto 2002
(Maria Luisa Daniele Toffanin, dalla silloge inedita da Per soli uomini)