– Omaggio ad Andrea Zanzotto. Un’amicizia fra noi leggera

Omaggio ad Andrea Zanzotto Un’amicizia fra noi leggera

Piace ricordare Andrea Zanzotto citando l’incipitdi una sua poesia Ligonàs I, 1998 da Sovrimpressioni, 2001: quell’intimo splendore/di “c’era una volta” e che/da dirupati anni mi resta diviso… per dire l’incanto di un suo paesaggio perduto, rivisitato dalla memoria poetica come luogo dell’innocenza rigeneratrice della natura e dell’infanzia.

C’era una volta, riprendo io, una casa a Pieve di Soligo, da me ancora bambina frequentata in varie occasioni, identificata poi nella casa di Fratta di Carlino e della Pisana, ritrovata più tardi nei miei ricordi come luogo felice di giochi con l’amica del cuore e il gemello – ospiti di nonna Jone, una veneziana, e di suo marito il veterinario di Pieve, un notabile del paese, personaggio molto particolare che un giorno reincontrerò anche nei Colloqui con Nino. Argomenti, questi, di miei successivi racconti al Poeta, con divertenti sue battute riguardanti la vita allora giovane nel paese, rinverdita con ironia e nostalgia. Ma al tempo fanciullo nella casa dei giochi, delle passeggiate lungo il Soligo con i miei amici gemelli, ignoravo l’esistenza di un poeta lì, in quel di Pieve (era di quegli anni, 1951, l’edizione di Dietro il paesaggio): piuttosto si parlava di Toti Dal Monte come abitante insigne, nome a me caro perché già da piccola amavo ascoltare la mamma che cantava note romanze. Solo più tardi scoprirò, inIdioma, una poesia in solighese dedicata a lei. Quella casa, quelle dolci colline, così simili ai miei colli intensamente frequentati con i miei genitori e i loro amici, erano per me luogo di magia, dell’innocenza fanciulla, luogo altro della storia di una grande amicizia che ha superato la barriera della morte, luogo che sarebbe diventato per me scrigno prezioso della poesia, terra eletta del Poeta. Ma tutto questo mi riaffiorò, in modo nitido e vivo, alcuni decenni dopo, nella prima visita-viaggio ad Andrea Zanzotto che determinò la nostraamicizia leggera.

Appena lasciato il mondo della scuola, come responsabile culturale del Centro di orientamento di Abano dell’Associazione Levi-Montalcini, organizzavo incontri culturali per i ragazzi delle superiori di Abano e Selvazzano, nell’ottica che proprio la qualità della cultura potesse offrire ai giovani aperture per una scelta scolastica e professionale più consapevole.

Amando io la poesia, ho quindi contribuito affinché insegnanti e studenti conoscessero dalla voce di critici validi, quali Mario Richter eSilvio Ramat, poeti come Valeri, Montale, Saba, Sereni, o potessero perfino confrontarsi con personaggi quali Ferdinando Camon,Cesare Ruffatoe Andrea Zanzotto, autore all’epoca ormai notissimo e affermato.

Fu l’occasione dell’incontro-amicizia leggera con il Poeta di Pieve di Soligo, a lungo corteggiato con infinite telefonate per concordare il mese, il giorno, l’ora dell’evento: l’insonnia gli impediva di programmarlo in maniera definitiva.

Quasi persa ogni speranza, da un giorno all’altro, l’appuntamento con l’Istituto Alberti di Abano fu fissato per il 9 maggio 2000 alle ore 16. Eccitazione nella scuola alle stelle, eccitazione in noi per il viaggio di andata e ritorno a Pieve con un personaggio di tale spessore, noto ma sconosciuto. Di cosa avremmo parlato? Avevo già avvertito, nei nostri colloqui telefonici, la sua immensa umanità e capacità di avvicinarsi agli altri: ma in macchina il contatto era ravvicinato e quindi creava una certa perplessità. Tutto invece si svolse in modo piacevole e spontaneo, chiacchierando come vecchi amici degli scopi dell’Associazione, dei ragazzi e della loro attesa, delle letture delle sue poesie e di altri temi, come l’ambiente, con quella sua parlata dolce e cantilenante della marca trevigiana.

Questo all’andata e, al ritorno, un’appassionata sua constatazione sulla distruzione dissennata del paesaggio ad opera di una cultura industriale cieca; qualche commento positivo sull’incontro e sui giovani, con una breve sosta per rifocillarsi a Cittadella e un pensiero comune all’amico Bino Rebellato, che l’ora tarda impediva di incontrare. Viaggio rivelatore dell’amabilità del Poeta, così lo chiamerò sempre, verso gli altri: quasi un approccio affettuoso percepito già nella sua poesia e da lì dilatato, in amorosa comunicazione con la natura e la presenza umana. Ma è dell’uomo che voglio soprattutto parlare, non del Poeta di cui conoscevo le singole opere raccolte in Le poesie e prose scelte, (Mondadori, I Meridiani, 1999). E sento che nell’incontro con gli studenti manifestava tutta la sua capacità anche di docente, conquistandone la fiducia ed entrando nella loro età con il proprio vissuto attraverso racconti vivaci sulla vita paesana e sulla giovinezza, trascorsa con amici e personaggi estrosi di Treviso e Pieve di Soligo. Sapeva modulare il suo discorso sul registro appropriato, come farà in altra occasione con gli studenti del dipartimento di romanistica dell’Università di Padova, su invito di Mario Richter. Catturava in questo modo l’amicizia e l’attenzione dei ragazzi, prima di inoltrarsi su altri terreni quali le responsabilità del secolo che sta per finire, privo di attese e di quella festosità da lui sperimentata, con lo spazio ridotto concesso alla poesia e il degrado del paesaggio veneto, e della sua lingua, in una perdita progressiva di identità.

Incitava i giovani ad usare il proprio cervello, che ha aperture impensabili, ad accostarsi agli stupori della conquista scientifica e al suo linguaggio, ma anche a quello della poesia che è non solo musicale ma anche universale, capace di rivolgersi a tutti con messaggi, proposte, risposte sempre nuove. E confidava il suo progetto di dare vita ad un libro di paesaggi e figure venete, proprio quello che ho tra le mani mentre scrivo questo ricordo: Colloqui con Nino, amico contadino già esaltato in Le profezie di Nino(La Beltà), come canto-inno ad un mondo agreste ormai desueto e perduto. E parlava parlava con tono basso, suasivo, con amabilità e dolcezza, usando un linguaggio colto e fiorito di citazioni ma comprensibile ai giovani. Il loro denso silenzio testimoniava la comunione d’anime realizzata, dirà il poeta nel viaggio di ritorno, non dalla sua persona, ma dal loro fiducioso abbandono alle sue parole. E qui riaffiora il segreto del suo cuore sempre umile, donato agli altri con semplicità.

Solo sollecitato da un insegnante interruppe il suo conversare e lesse la poesia – di cui ricordo ancora il titolo, Per la finestra nuova (da Egloghe) – illustrando l’occasione che generò il testo: l’apertura di una finestra sotto la scala di una parete di casa. La spiegazione dell’autore fece vivere ai ragazzi lo stupore di un paesaggio di terra e cielo, vegetazione ed astri che penetra d’improvviso in casa dilatando inattesi orizzonti.

Anche la realtà quotidiana diventa poesia, conquistando nuovi universi con una speranza di rinnovamento. Si potrebbe, a distanza di tempo, ricordare che secondo Wislawa Szymborska proprio la quotidianità e le piccole cose sono sublimi come se nascondessero in sé il miracolo, la poesia.

L’incontro si concluse così, ma per i ragazzi continuò in nuove pagine da scrivere con i loro insegnanti su un momento di vita scolastica irripetibile, indicibile, indimenticabile: l’incontro con un grande Poeta che dalla sua Pieve di Soligo sapeva scrutare l’anima, esplorare il paesaggio ricercando il vero, seguire la scienza e il progresso confrontandosi con gli aspetti più innovativi, avvicinarsi ai giovani nelle loro problematiche.

E molti dei temi toccati, radicati nel suo profondo sentire, diventeranno, ampliati, argomento di coinvolgenti conversazioni nel libro In questo progresso scorsoio.

L’evento scolastico non si è concluso, per me, alla fine del pomeriggio, ma ha dato l’avvio ad un’amicizia tra noi leggeratramata di visite a Pieve nella sua casa accogliente, abbracciata in settembre dai topinambur, vivi in molte sue poesie, con mazzi di alchechengi e ortensie essiccate, memoria estiva raccolta in vasi o appesa alle pareti. Mia grande passione!

E rivedo il suo venirci incontro sulla soglia di casa (la porta era sempre aperta), il suo cortese accompagnarci al commiato: nello sguardo, nel sorriso ogni volta scoprivo la dolcezza delle sue colline come se, per una fusione amorosa, gli elementi del paesaggio si fossero stemperati nei tratti del suo volto. Ci riceveva nel suo studio al piano terra, con vista sul giardino, talora insieme alla moglie Marisa. Poi nello scorrere degli anni i luoghi dei nostri incontri sono mutati, come soste diverse della nostra umana storia che ugualmente rimane dignitosa. Rivelava sempre attenzione alle persone, ma anche a ogni libro che gli donavo, commentato con frasi concise e chiare: “c’è del buono… qui c’è vera poesia”. Occasioni in cui gli chiedevo consigli sull’arte della scrittura: “bisogna fermarsi in tempo, non esprimere tutto… però lei la riconoscerei tra mille”. Momenti festosi per l’affettuosa accoglienza, preziosi per l’intensità delle conversazioni che si aprivano a ventaglio su una varietà di argomenti: i giovani drogati vittime di un presunto benessere e di una società indifferente alle loro reali esigenze, il degrado ambientale di Pieve di Soligo e dintorni, i luoghi di villeggiatura, gli scherzi paesani. Ricorrente era appunto il racconto degli scherzi organizzati tra amici del paese e diramati da un postino in bicicletta, che portava gli annunci ai componenti l’allegra compagnia. E nel racconto la giovinezza intera gli illuminava gli occhi. Ritornavi a casa con una tessera in più per ricostruire l’infinito mosaico della sua personalità.

Un’amicizia tessuta dalla partecipazione ad eventi culturali come il premio Cittadella organizzato da Bino Rebellato, i festeggiamenti per i suoi compleanni o per le onorificenze a lui attribuite. Ricordo Cittadella per aver riunito il gotha della poesia, Solighetto per la presenza di una folla smisurata, Padova per l’ufficialità della cerimonia, Nervesa della Battaglia per la festa-spettacolo in onore del suo ottantacinquesimo genetliaco: eventi che solo la sapienza e la tenacia della signora Marisa sapevano organizzare, perché quando si parla di poesia tutto diviene difficile. Fu splendida, raffinata rivisitazione della sua opera realizzata con video, letture, musiche e conversazioni interpretate da nomi prestigiosi del mondo artistico. E il Poeta manifestava tutto il suo piacere di vederci, ma anche la sua iterata stanchezza per questi rituali che lo spaesavano.

Un’amicizia vissuta in molti incontri perfino ad Abano Terme, per una cura termale insieme a Marisa. Cura mai completata per la sua, mi confiderà poi, insofferenza per i cambiamenti di orari e ritmi domestici. Un’amicizia attraversata da tante telefonate in cui si parlava delle sue opere in cantiere, delle novità della scuola di Abano, di amici comuni come Cesare Ruffato e Bino Rebellato, dei primari di Treviso, dei nostri gatti, del tempo e ultimamente dei nipoti.

In particolare ne rammento due: diverse per i contenuti, ma uguali per verità ed intensità. Un pomeriggio d’autunno, dilavato dalla pioggia, guardando i colli tutti grigi il mio pensiero corre ai vigneti fradici di Pieve come li avevo visti nell’ultima visita, ad aprile, e faccio un colpo di telefono al Poeta per un saluto e un ragguaglio meteorologico. Benedetto telefono con le voci vive che manifestano gli umori, i vari gradi di malinconia! E così ci notifichiamo la medesima situazione, quanto alla pioggia, e ci scambiamo notizie reciproche sulle nostre meteoropatie. Ad un tratto mi chiede di indovinare con chi stesse giocando. “Con la gatta” rispondo io: ed era vero. E lui a raccontarmi le reazioni ai suoi giochi con la matita della pacifica felina, che immaginavo stesa o raggomitolata sullo scrittoio del suo studio come l’avevo vista tante volte: una gatta chiara, solenne, matrona. Ed io a dirgli dei miei gatti uccisi, con grande sofferenza anche di mio figlio, dalla derattizzazione del quartiere, e della conseguente mia decisione di non ospitarli più in casa. Quel pomeriggio di pioggia ci siamo fatti piacevole compagnia in argomenti non trascendentali ma quotidiani, intrisi però di poesia. Perché è la quotidianità, abbiamo ancora una volta concordato, ad offrire stupori minimali che solo il poeta sa cogliere. Una telefonata vera in cui ognuno era se stesso, trasparente all’altro: ne annotai allora le frasi più significative, ma trovare quel foglietto ora è pura follia, nella mia casa di carta.

L’altra telefonata è davvero unica, indimenticabile: avvenne quando era già in stampa (2002) la mia silloge Per colli e cieli insieme mia euganea terra, di cui gli avevo precedentemente portato il manoscritto. Sentita questa notizia mi consigliò di aspettare. Fu lui a chiamarmi il giorno dopo, dicendomi di scrivere: era la sua postfazione, per sua volontà inserita in quarta di copertina. Fu un momento, per me, di emozione indescrivibile. E ci fu un carteggio fra noi non comune perché voleva conoscere la prefazione di Mario Richter, rivedere il proprio testo, sistemare le virgole. Tale era il suo stile, non per una tensione alla perfezione, ma per una ricerca continua di Beltà. Questo è stato il più grande dono, segno di amicizia alla mia poesia. In seguito, per non abusare della sua gentilezza, non gli chiedevo più il giudizio sulle sillogi edite che gli regalavo: temevo di sottrargli del tempo prezioso. Era lui che, dopo aver letto, esprimeva spontaneamente il suo verdetto. Preziosa la sua presenza rassicurante nella mia scrittura, ma anche nella vita, perché mi insegnava sempre qualcosa: la puntualità, il rispetto, l’attenzione per gli altri; la sua assenza di presenzialismo pur nella autorevolezza di cui godeva ormai ovunque. Ricordo un suo rimprovero: un’estate (era il 2007) lo raggiunsi dalla valle agordina, sempre previo appuntamento, con un mazzo di genziane asclepiadi che accolse, per un atto di gentilezza di fronte ai presenti, senza esprimere la sua disapprovazione.

Che fu vivace invece al telefono: mi ero appropriata di fiori protetti che appartenevano ai boschi e ai prati, in un certo senso non avevo rispettato Il Galateo in Bosco.

Una trama quindi infinita di conversazioni a Natale, a Pasqua, per il suo compleanno o per felicitarmi di qualche sua opera appena edita. Penso ai Colloqui con Nino, che creò tra noi molti contatti per la sua diffusione, a Sovrimpressionie Conglomerati. Queste ultime erano oggetto di amare sue riflessioni su paesaggi perduti come Dolle, il feudo di Nino duca della Rosada di Rolle, a causa dell’inganno del nostro tempo, e così si ripercorreva il cammino ambiguo del progresso scorsoio fino all’altra triste realtà dell’infanzia tradita.

Gli illustravo l’intenzione di raccogliere poesie sui bambini offesi di tutto il mondo: lui ascoltava il mio dire appassionato, io ne ammiravo l’impegno civile sempre vigile e la fede costante nella poesia. Mi congratulavo anche per le testimonianze apparse sui giornali e trasmesse per radio, lui se ne compiaceva molto. A volte non aveva voglia di intrattenersi telefonicamente: avvertivo la sua malinconia, sentivo che non stava bene. Avevo così diradato questi appuntamenti per rispettare i suoi disagi, per non distoglierlo dalle sua cose.

L’ultima visita però fu bellissima: parlammo a lungo, con orgoglio, dei nostri nipotini e del privilegio di vedere in loro la continuità della nostra vita mentre un giovane gatto nero, da educare diceva, deambulava sullo scrittoio. In quel momento ritrovai intatta in lui tutta la sua carica di umanità, ma percepii anche che era affaticato e aveva bisogno di raccogliere i suoi pensieri. Così, da allora, chiedevo notizie della sua salute alla moglie o a qualcuno di casa come ho fatto in ottobre, tre giorni dopo il suo novantesimo compleanno: stava già poco bene, forse stressato dai festeggiamenti, rituali temuti ma anche amati. Avrei dovuto riprovare, secondo gli accordi, dopo una settimana, proprio quel 18 ottobre in cui le nostre telefonate cessarono per sempre. Nel momento del consuntivo, però, mi rimane dentro il vuoto per un desiderio incompiuto: il progetto, proposto anche da mio marito Massimo, di una passeggiata insieme per i Colli Euganei.

Sarebbe stata un’occasione stupenda per condividere l’affezione ai miei colli, a lui cari per l’armonia e l’energia della natura, per la bellezza della cultura e della spiritualità che da secoli li attraversa. Occasione solo virtuale perché la vita ci domina con i suoi ritmi imprevedibili, ma che considero adesso come realizzata nella sua postfazione alla mia silloge Per colli e cieli insieme mia euganea terra.

Piace allora poter ricordare proprio sulle pagine di questa rivista, di cui il Poeta diceva “c’è del buono”, alcuni momenti della nostra amicizia leggera in cui si è manifestato il suo stile di vita aperto nell’amabilità del dire e nell’attenzione alle persone, teso alla lettura delle evidenti contraddizioni del nostro tempo e alla ricerca di verità e bellezza: uno stile di vita riflesso, tutto, nella sua poesia. In essa vibra la sua anima arcana, nell’abbraccio devoto alla purezza primordiale della natura e dell’infanzia – per citare solo due aspetti del suo mondo poetico – e vibra altrettanto la sua anima giovane, sapiente nella ricerca di un linguaggio che, nella sua complessità e ampiezza, è voce universale, cifra unificante tra gli uomini.

In questa grande Assenza vorrei spargere sulla soglia della casa, sullo scrittoio del suo studio i fiori del suo giardino che lo hanno accompagnato nel viaggio estremo: alchechengi, ortensie, lunarie essiccate raccolte nella mia casa e topinambur trattenuti dai Colli Euganei, come segno di affettuosa condivisione e profonda devozione al Poeta di Pieve di Soligo vivo nella sua poesia tesa nell’arco dell’eternità.

L’attimo fuggente

Ancora qui. Lo riconosco. In orbitedi coazione. Gli altri nell’incorposaincreante libertà. Dal monteche con troppo alte selve m’affrontatento vedere e vedermi,mentre allegria irrita di lumisan Silvestro, sparge laggiù la nottedi ghiotti muschi, di ghiotte correntie.E. E, puro vento, sola neve, ch’io toccherò tra poco.Ditemi che ci siete, tendetevi a sorreggermi.In voi fui, sono, mi avete atteso,non mai dubbio v’ha offesi.Sarai, anima e neve,tu: colei che non saoltre l’immacolato tacere.Ravvia la mia dispersa fronte. Sollevami. E.È questo il sospiro che discriminache culmina, “l’attimo fuggente”.È questo il crisma nel cui odore io dico:sì, mi hai raccoltosu da me stesso e con te entronella fonte dell’anno.

Andrea Zanzotto