Giovanni Ponchio

Dell’amicizia – My red hair

Presentazione del prof. Giovanni
Ponchio

6 ottobre 2004, Abano Terme (Padova) Kursaal

Ho accettato con un certo imbarazzo la proposta fattami dalla
prof. Toffanin: presentare il suo ultimo libro di poesia. Mi pareva piuttosto
bizzarro, infatti, che si chiedesse a me di riflettere sul tema dell’amicizia tra due donne, visto che conosco poco
l’una, ossia la prof. Toffanin e non conoscevo per nulla l’altra. Tanto meno
potevo conoscere il significato ed il profondo valore della loro amicizia.
Ma, in seguito, riflettendo sulla strana situazione, ho
compreso che la scelta è caduta su di me, perché ignorante, perché ignoravo la
loro vicenda ed il suo sviluppo. E quindi, con la mente sgombra ed il cuore
tranquillo, potevo ricostruirla attraverso le poesie, senza che i miei ricordi
potessero proiettarsi su quelli dell’autrice, adulterandone il contenuto.

La serata è articolata in modo semplice. Io farò qualche
breve riflessione su questa straordinaria silloge di poesie, non sulla morte, ma
sulla vita. In seguito saranno letti alcuni testi della raccolta con una
ambientazione circostanziata da parte dell’autrice. Se ripercorriamo le nostre strade, i nostri Colli Euganei,
può accadere di udire l’eco, il suono di altre poesie scritte per la tomba del
fratello o della donna amata. Qui, non molto lontano, secondo la tradizione
Nicolò Ugo Foscolo fu ospite dell’abate Merchiorre Cesarotti. Ugo Foscolo che al
fratello dedicò il celebre sonetto, rivisitando il carmen catulliano “Multas per
gentes et multa per aequora vectus”, Ugo Foscolo che in “Ultime lettere di Jacopo
Ortis” raccontò del pellegrinaggio del protagonista sulla tomba del Petrarca ad
Arquà.

Francesco Petrarca, di cui si celebra il 700° anniversario
della morte, a Laura morta dedica una parte cospicua delle 366 poesie del
Canzoniere. Ma le poesie di Petrarca e di Foscolo lungi dal parlare di colui o
colei che è morta, rappresentano il pretesto, l’occasione per parlare di sé. Per
parlare dei propri dilemmi, ansie, aspirazioni “al cenere muto”, senza
evidentemente che vi possa essere risposta alcuna. Si tratta di poesie che
nascono da un forte senso di sé, da un forte egotismo per il quale la poesia
risulta una sorta di rispecchiamento del soggetto, più che un colloquio con una
persona viva, almeno nel ricordo.

Non è così invece per le poesie della prof. Toffanin che hanno
al centro l’amicizia, hanno al centro un’altra donna con la quale si sono
intessuti rapporti profondi che il fluire della poesia rivisita e ricostruisce.
A tale proposito è naturale conoscere l’analisi della raccolta proprio dalla
“Praefatio”, prefazione che rappresenta la principale chiave interpretativa
dell’itinerario poetico. Leggo il testo, anche se non bene come sarà fatto in
seguito, ma la lettura mi serve per cercare di definire il senso del viaggio:
“Evocate al bulino del dolore | dirò amica di ore nostre glissate | tra sabbia di
clessidra | note lucenti d’amicizia | alla risacca memorante emerse | vive per questo
mio spartito | ché in ogni rigo di noi insieme | si sente il suono della
gioia, | quella umana hic et nunc | canto di confine con l’affanno, | e di chiari
accordi d’acqua | dal mare dei tuoi gesti | dal profondo tuo inquisire | segni di un
nobile lavare | che ancora dà nitore | ai tuoi diletti spazi | al tuo sentire di
cristallo. | Conforto a te | da chi nel mistero permane.”

Ogni parola possiede un corredo di significati che vanno
almeno indicati.

Partiamo dalla metafora ( il bulino del dolore): il dolore è
uno strumento che incide nella carne e nello spirito, ma è mezzo che raffina,
che struttura, che dà dorma. Il dolore non è un tormento , privo di senso, ma
una sofferenza, una fatica, un travaglio che conduce ad un approdo.

Lo stridore del bulino evoca “…ore…glissate | tra sabbia di
clessidra”, fa tornare alla memoria le ore passate insieme, in amicizia, senza
accorgersi del trascorrere del tempo. E’ lo scivolare via (glisser) delle ore
una delle condizioni dell’amicizia, quando si “perde” tempo l’una con l’altra,
senza avere la percezione del tempo che passa. Ma quelle ore passate senza
pensarci, vengono ad occupare il fuoco della riflessione, perché evocate dal
bulino del dolore ed emerse “alla risacca memorante”. Bellissima immagine quella
della risacca che è lo sbattere continuo dell’onda sulla sabbia, contro la
costa, in un perpetuo movimento che fa emergere dal fondo del mare gli oggetti
che esso ha inghiottito. Così dal lago della mente, dal mare interno della
memoria l’onda del ricordo fa affiorare i frammenti del passato che, sommersi
dal subitaneo oblio di chi li ha vissuti senza preoccupazione, ora il dolore fa
emergere.

Tutta la raccolta poetica può essere letta come una continua
altalena tra ciò che si è vissuto insieme senza farci caso ( le scene di
quotidiana vita scolastica ) e quanto dal mare dell’inconscio il moto ondoso
porta sulla riva del conscio, reperti/lacerti di una nave naufragata, per
diventare materia dell’invenzione poetica.

Nel movimento ascensionale che dall’inconscio ( dal glissato
) conduce al conscio le ore diventano “vive” ( aggettivo marcato attraverso
un’arcatura, un “enjambement” che lo rende illuminante), perché rivissute e
reinventate come note di uno spartito musicale. Ora lo spartito è un insieme di
note, è la scrittura musicale che sulla carta esprime una melodia, una struttura
musicale armonica. Lo spartito dona significato dando valore ai suoni, segna il
limite tra una congerie di rumori e una sequenza di suoni dotata di senso.

Si stabilisce così, rispetto al magma indistinto della
memoria, un ruolo e una funzione della poesia che riesce ad evocare dal passato
quegli elementi che consentono di dare un significato alla vita, alla vita
dell’amica e al rapporto di reciproca amicizia. Come se sul limitare della morte
la poesia avesse il dono divino di percepire improvvisamente il senso profondo
di quanto è appena trascorso. Come se soltanto dalla fine d’un viaggio,
ripercorrendone a ritroso il percorso, fosse dato d’afferrarne il significato.
E’ questa la grande operazione compiuta dall’autrice: trasformare il suono
indistinto, i rumori di fondo che provengono dal passato in una frase musicale,
anzi in un percorso musicale scandito dalle diverse frasi che sono le poesie
della raccolta.

Questo è il motivo per cui dicevo che si tratta di poesie
della vita e sulla vita. Se la morte, infatti, rappresenta il limite della vita,
è anche il termine che ci consente di comprenderla che permette di stabilire il
valore di ciò che l’ha preceduta. Così la vita difficile da afferrare nel
momento in cui la si vive, diventa comprensibile al suo traguardo, se la pietà
del vivo riesce a raccogliere i diversi frammenti che la memoria comune
interrogata gli restituisce.

Ma qual è il contenuto della vita ricostruita, qual è il
senso dell’amicizia, secondo l’autrice ?

La risposta è espressa in due immagini che attraversano tutta
la raccolta: “…che in ogni rigo di noi insieme | si sente il suono della
gioia | quella umana hic et nunc | canto di confine con l’affanno…” e “…dal mare dei
tuoi gesti | dal profondo tuo inquisire | segni di un nobile lavare | che ancora dà
nitore | ai tuoi diletti spazi | al tuo sentire di cristallo…”

Questi sono i due grandi temi:

– il tema della gioia, del piacere di vivere, della
voglia di mordere la vita che porta con sé l’affanno della corsa, il senso del
limite, la premonizione del dolore.

– l’azione costante della ricerca, del “profondo
inquisire”, che significa cercare, scavare, cercare di capire. Ma anche lavare,
anzi “nobile lavare”.

Il gesto del lavare è ricorrente in molte delle poesie.
Lavare che ancora “…dà nitore | ai tuoi diletti spazi…”. Questo conferisce
all’azione una valenza esterna come sciacquare i panni, lavare le tende, pulire
il portico davanti a casa. Probabilmente un insieme di gesti che sono propri
dell’amica, che fanno parte di un rituale su cui si è discusso e riso insieme.
Ma lavare è anche qualcosa di più profondo, è cercare dentro di sé, è la
ricerca, attraverso la purificazione interiore, di quei principi etici che
costituiscono la stella polare dell’azione consapevole. Ecco, dunque, apparire
nel cielo dei convincimenti, l’etica stella di cui si parla in alcune poesie. E
con esse il rimando ad un’altra poesia, anzi ad un epitaffio, la celebre frase
che Kant chiese venisse riportata sulla sua lapide: “Il cielo stellato sopra di
me | la legge morale dentro il mio cuore”.

Il tema della legge morale dentro al cuore è il risultato
della ricerca interiore, del continuo inquisire, del diuturno scavo attorno
all’essenziale per la vita, al “nobile lavare” che si ripete attraverso l’uso
dell’imperfetto frequentativo “lavava” ripetuto tre volte.

Definiti i due temi trasversali di tutta la raccolta, la
poesia si conclude: “…conforto a te | da chi nel mistero permane.” Non è l’amica
defunta a vivere nel mistero, ma è chi continua a vivere e a recare conforto
alla defunta a rimanere con i piedi e la mente nel mistero, in quella dimensione
indecifrabile che è la vita nel momento in cui viene vissuta.

“Vivemus in speculo et in aenigmate” scriveva S.Paolo.
Viviamo dentro uno specchio costituito da una lamina d’argento in cui si vede e
non si vede, viviamo dentro ad un enigma che solo al morte può risolvere, perché
la morte mettendo termine alla vita, consente ad ognuno di fare i conti con il
suo significato.

Questa conclusione ci rimanda dunque all’incipit della poesia
attraverso un percorso elittico di grande efficacia.

Questo è, per me, il valore funzionale della “Praefatio”.

Non da meno è il “Commiato” che cito per intero, data la sua
brevità: “Poter fermare | quell’attimo | in punta di vita | e ridirti, amica, | immutato
ancora | il mio bene | pur nell’ora più greve | e sentir spuntare | i fiori | in
fremito-risposta”.

Vi è un colloquio che continua oltre la morte, dopo la morte.
Parlare “in punta di vita” vuol dire parlare sul limitare della vita, lungo quel
confine dove la vita passata attraverso la sua fine, fa intuire il suo fine.
Parafrasando : poter fermare quell’attimo in punta di vita e dirti, amica mia,
il bene che provo immutato per te, anche se nell’ora più greve, pesante tanto da
stringere il cuore.

La risposta fremente che si ottiene è di sentire spuntare i
fiori.

Non so se l’autrice avesse in mente, quando fissò quei versi,
il Pascoli ed il suo riferimento all’erba che cresce sulle fosse. I fiori, ben
più dell’erba, spuntando dalla terra in cui riposa chi ci ha lasciato,
rappresentano la risposta ad un invito, ed il colloquio continua al di là della
vita e della morte.

Così il “Commiato” chiude in maniera intensa e suggestiva il
percorso che la “Praefatio” apre.

Sono imbarazzato ed indeciso nel dover scegliere tra le
poesie della raccolta. La raccolta, costruita attorno agli ordinati frammenti
della memoria, è articolato in due grandi parti: parte I “Il nostro tenero
tempo”, parte II “Il nostro tempo maturo”. I ricordi si svolgono lungo un
percorso cronologico e raggruppati a tema. Ma vi sono due fili che tutti li
trapassano.

Il primo filo è costituito da un elemento retorico, citato
anche nella dottissima introduzione del curatore della silloge poetica. E’ “la
rossa criniera”. Si tratta di una sineddoche, ossia di quel meccanismo
metonimico per cui si indica il tutto ( in questo caso l’amica ) attraverso un
suo tratto caratteristico. Ma perché, potendo scegliere tra centinaia di
particolari, l’autrice ha scelto “rossa criniera”?

L’aggettivo rosso corrisponde alla realtà storica. Criniera è
il termine scelto tra una vasta gamma di sinonimi ( chioma, capigliatura, taglio
di capelli, acconciatura), forse perché indica qualcosa di naturale, di non
curato, espressione esterna di quanto di più naturale esista, nello stato
d’animo, nella psiche profonda della persona. Questa parola, questo vocabolo
così primordiale e selvaggio serve ad esprimere il moto naturale del cuore che
irradia un fascio di luce sull’episodio, sul frammento memorante in cui l’amica
vive. Così la rossa criniera, divenuta “frizzante”, “docente”, “smarrita”,
“radiosa”, “in maschera”, “amorosa”, “pudica”, illumina di luce speciale il
senso compiuto della frase e dell’intera poesia.

Ora la “rossa criniera” è soggetto della frase, ora diventa
una sorta di ablativo assoluto che, attraverso la sospensione, getta un fascio
di luce speciale sul relitto che la memoria tende a far galleggiare.

La criniera e soprattutto l’aggettivo che ad essa si
accompagna svolgono la stessa funzione che svolge la fonte di luce in campo
fotografico. Nella fotografia, infatti, la luce diventa l’elemento essenziale
per dare senso e significato agli oggetti fotografati.

L’aggettivo, infatti, getta sul ricordo un fascio di luce
tale da mettere in evidenza alcune valenze interpretative, che sono proprie
dello stato d’animo della protagonista nel viverle e dell’autrice nel riviverle.
Interessante per questo l’ultima poesia in cui la sineddoche viene utilizzata.
In essa l’aggettivo che connota la “criniera” è “arresa”. E’ la quartultima
poesia dell’intera silloge, eppure già emergono tra i ricordi i segni
premonitori di quanto sarebbe avvenuto : della morte. Come se la vivacità, la
voglia di vivere fossero già cessate ancor prima dell’evento improvviso ed un
odore di morte traspirasse dai gesti e degli atti evocati dalla memoria.

Il secondo filo è espresso dal verbo lavare, anzi lavava (
indicativo imperfetto del verbo ). Tra tutte di notevole interesse è la poesia :
“E lavava lavava | lavava all’onda dei ricordi | quel mite angolo agreste…”. Poesia,
in qualche modo, storica, come la successiva, perché evoca i momenti
dell’insegnamento quando “L’Aberti” si trovava a Villa Rigoni e l’asina veniva
ad illuminare la giornata degli alunni e degli insegnanti : “lavava d’umano
l’incontro | più maturo più acerbo | in parole d’aria e sole | con le mani
recitando | tutto il suo ardore | la rossa criniera frizzante | pur agitato il buio
bambino. | E s’apriva confidenza | come corolla a primavera | nel bucolico spazio
là | un po’ fuori dalla terra | con l’asina sempre al balcone | con gli allievi quasi
amici | la mente vivace e chiari disegni | in quel desueto istituto | d’un tempo ora
come remoto. | Ma è solo al nettare-ricordo | o forse è alla luce oggi miope | che noi
loro tutti allora | s’andava più innocenti?”

E’ una poesia-segno, una poesia-indicazione. Non a casa
riportata anche in quarta di copertina. Sopra tutto galleggia una domanda,
essenziale rispetto ai temi affrontati: il ricordo è un nettare che addolcisce
la vita o esiste una differenza reale tra il buon tempo andato ed il duro
presente ?

Domanda non retorica che viene collegata ad altre
domande-emozioni dal verbo “lavare”. Verbo che viene ripetuto in moltissime
poesie ove forma un incipit, per tre volte ripetuto.

Il tempo verbale utilizzato non è il passato remoto ( lavò )
che indica un’azione chiusa nel passato, bensì l’imperfetto che è frequentativo,
iterativo ( continuava a lavare ). A questa scelta si aggiunge l’uso della
ripetizione ( lavava, lavava, lavava ) che proietta e riconduce la poesia alla
struttura a salterio delle più antiche poesie della nostra tradizione
letteraria.

Il pensiero va al “Cantico di frate sole” di Francesco
d’Assisi e al “Laudato sii, mi Signore,…” che recupera nella lingua volgare la
struttura del salmo propria della tradizione ecclesiastica latina.

Così il termine, in posizione fortissima nella struttura del
verso, si carica di significati altamente poetici a sottolineare un gesto
evocato, una consuetudine consolidata, una cerimonia domestica quotidiana.

Si può solo intuire che cosa due amiche si dicessero sul
lavare: si lavava la biancheria di casa sciorinandola all’aria nei giorni di
sole, si lavavano le tende di casa e soprattutto le si stirava con grande
fatica, si lavava l’occhio di portico davanti all’ingresso imbrattato
dall’inciviltà dei passanti….

Ma questa sorta di mania-smania di lavare era l’espressione
esterna, la proiezione nei gesti di quanto avveniva nel cuore, nell’animo
dell’amica: lo sforzo continuo della ricerca interiore, la spinta a mondarsi dal
superficiale per guadagnare ciò che veramente conta, l’essenziale, ciò che è
unico, il principio che guida la nostra azione, il principio morale.

Tra tutte le poesie che si possono citare al riguardo, voglio
leggere quella a pagina 18 dal titolo “In un vivere insieme cortese” : “lavava
al risveglio i pensieri | pensieri d’amore alla casa | li stendeva al suo
davanzale | poi con calzari di vento | amabile veniva alla scuola | la rossa criniera
docente | i sogni-nonsense di Alice | la dolce follia di Ofelia | ed entrava con passo
di danza | nella stanza della Corona | col bel suono sulle labbra | dal mai obliato
vissuto inglese. | E diceva diceva ai giovani | diceva l’urgenza | d’un vivere insieme
cortese | alla voce di un’etica stella.”

La chiusura ( etica stella ) consegna questa
poesia-ricordo-riflessione al rapporto con l’epitaffio kantiano di cui parlavamo
all’inizio. L’etica stella è il punto fisso, la stella polare che indica la
direzione ed il verso del cammino. E’ il senso del dovere in cui la persona
umana realizza pienamente se stessa. La stella che mai non tramonta, che non è
legata agli stati d’animo, agli interessi di parte, alle convenienze momentanee.
E’ il dovere scritto profondamente in ognuno, dovere che soltanto il coraggio
della ragione e la limpidezza della vita sanno mettere in risalto.

Ancora più esplicita sul tema la poesia di pagina 32 dal
titolo “Dell’uomo nel morbo più solo”: “lavava con mani fiorite | d’umili
viole-umana pietas | l’anima le membra sfiorite | dell’uomo nel morbo più solo | il
più offeso, a suo dire | da sorte non giusta. | Lavava con l’offerta | di filiali
ghirlande | tessute a rose pazienti | chi madre a lei non era, | la rossa criniera
obbidiente | al fuoco-dovere nutrito | dall’imperativo del filosofo | dallo spirito
del tempo, | ma più pativa ad ogni evento | sotto il suo cielo di stelle.”

Questi i due fili che si intrecciano in tutte le poesie della
raccolta: il tema della vita vissuta, tema espresso attraverso la sineddoche ed
il tema dell’imperativo morale, elaborato attraverso l’iterazione “lavava”.

Concludo con una poesia che evocando l’ultimo incontro con
l’amica, presagisce la morte attraverso le tracce di una scena depositata nel
flusso rammemorante, dal titolo “Mi rivivrà ogni momento”: “lavava ogni alito
della mia musa | parola a lei diletta sempre |  – da cifrare-tempo dell’anima
– | diceva nell’incontro tra noi | più raro ma ancora vermiglio. | E su balaustre di
giacinti | struggente ultimo dono augurale | posavamo in volo interiore | tremori
speranze promesse | dal cuore-mia terra raccolte | perché al tepore del ricordo
| Lei
mi rivivrà ogni momento | come in un’infinita primavera | colore-odore di quei
grappoli | pegno-impegno d’amicizia | profumo benedetto ancora sempre | che vola alto
oltre il vento | della brughiera d’inverno | e non si sperde:”

Che cosa rimane dell’amica ? Il profumo benedetto oltre la
brughiera d’inverno ( la morte ). Ma è un profumo che non si perde e non si
sperde, non svanisce attraverso il tempo e la lontananza.

Perché vi è chi ha avuto ed ha la capacità, come
l’amica-autrice, di aspirare quel profumo e distillarlo ancora attraverso la
poesia.

Dell’amicizia – My red hair

Presentazione del prof. Giovanni
Ponchio

6 ottobre 2004, Abano Terme (Padova) Kursaal

Ho accettato con un certo imbarazzo la proposta fattami dalla
prof. Toffanin: presentare il suo ultimo libro di poesia. Mi pareva piuttosto
bizzarro, infatti, che si chiedesse a me di riflettere sul tema dell’amicizia tra due donne, visto che conosco poco
l’una, ossia la prof. Toffanin e non conoscevo per nulla l’altra. Tanto meno
potevo conoscere il significato ed il profondo valore della loro amicizia.
Ma, in seguito, riflettendo sulla strana situazione, ho
compreso che la scelta è caduta su di me, perché ignorante, perché ignoravo la
loro vicenda ed il suo sviluppo. E quindi, con la mente sgombra ed il cuore
tranquillo, potevo ricostruirla attraverso le poesie, senza che i miei ricordi
potessero proiettarsi su quelli dell’autrice, adulterandone il contenuto.

La serata è articolata in modo semplice. Io farò qualche
breve riflessione su questa straordinaria silloge di poesie, non sulla morte, ma
sulla vita. In seguito saranno letti alcuni testi della raccolta con una
ambientazione circostanziata da parte dell’autrice. Se ripercorriamo le nostre strade, i nostri Colli Euganei,
può accadere di udire l’eco, il suono di altre poesie scritte per la tomba del
fratello o della donna amata. Qui, non molto lontano, secondo la tradizione
Nicolò Ugo Foscolo fu ospite dell’abate Merchiorre Cesarotti. Ugo Foscolo che al
fratello dedicò il celebre sonetto, rivisitando il carmen catulliano “Multas per
gentes et multa per aequora vectus”, Ugo Foscolo che in “Ultime lettere di Jacopo
Ortis” raccontò del pellegrinaggio del protagonista sulla tomba del Petrarca ad
Arquà.

Francesco Petrarca, di cui si celebra il 700° anniversario
della morte, a Laura morta dedica una parte cospicua delle 366 poesie del
Canzoniere. Ma le poesie di Petrarca e di Foscolo lungi dal parlare di colui o
colei che è morta, rappresentano il pretesto, l’occasione per parlare di sé. Per
parlare dei propri dilemmi, ansie, aspirazioni “al cenere muto”, senza
evidentemente che vi possa essere risposta alcuna. Si tratta di poesie che
nascono da un forte senso di sé, da un forte egotismo per il quale la poesia
risulta una sorta di rispecchiamento del soggetto, più che un colloquio con una
persona viva, almeno nel ricordo.

Non è così invece per le poesie della prof. Toffanin che hanno
al centro l’amicizia, hanno al centro un’altra donna con la quale si sono
intessuti rapporti profondi che il fluire della poesia rivisita e ricostruisce.
A tale proposito è naturale conoscere l’analisi della raccolta proprio dalla
“Praefatio”, prefazione che rappresenta la principale chiave interpretativa
dell’itinerario poetico. Leggo il testo, anche se non bene come sarà fatto in
seguito, ma la lettura mi serve per cercare di definire il senso del viaggio:
“Evocate al bulino del dolore | dirò amica di ore nostre glissate | tra sabbia di
clessidra | note lucenti d’amicizia | alla risacca memorante emerse | vive per questo
mio spartito | ché in ogni rigo di noi insieme | si sente il suono della
gioia, | quella umana hic et nunc | canto di confine con l’affanno, | e di chiari
accordi d’acqua | dal mare dei tuoi gesti | dal profondo tuo inquisire | segni di un
nobile lavare | che ancora dà nitore | ai tuoi diletti spazi | al tuo sentire di
cristallo. | Conforto a te | da chi nel mistero permane.”

Ogni parola possiede un corredo di significati che vanno
almeno indicati.

Partiamo dalla metafora ( il bulino del dolore): il dolore è
uno strumento che incide nella carne e nello spirito, ma è mezzo che raffina,
che struttura, che dà dorma. Il dolore non è un tormento , privo di senso, ma
una sofferenza, una fatica, un travaglio che conduce ad un approdo.

Lo stridore del bulino evoca “…ore…glissate | tra sabbia di
clessidra”, fa tornare alla memoria le ore passate insieme, in amicizia, senza
accorgersi del trascorrere del tempo. E’ lo scivolare via (glisser) delle ore
una delle condizioni dell’amicizia, quando si “perde” tempo l’una con l’altra,
senza avere la percezione del tempo che passa. Ma quelle ore passate senza
pensarci, vengono ad occupare il fuoco della riflessione, perché evocate dal
bulino del dolore ed emerse “alla risacca memorante”. Bellissima immagine quella
della risacca che è lo sbattere continuo dell’onda sulla sabbia, contro la
costa, in un perpetuo movimento che fa emergere dal fondo del mare gli oggetti
che esso ha inghiottito. Così dal lago della mente, dal mare interno della
memoria l’onda del ricordo fa affiorare i frammenti del passato che, sommersi
dal subitaneo oblio di chi li ha vissuti senza preoccupazione, ora il dolore fa
emergere.

Tutta la raccolta poetica può essere letta come una continua
altalena tra ciò che si è vissuto insieme senza farci caso ( le scene di
quotidiana vita scolastica ) e quanto dal mare dell’inconscio il moto ondoso
porta sulla riva del conscio, reperti/lacerti di una nave naufragata, per
diventare materia dell’invenzione poetica.

Nel movimento ascensionale che dall’inconscio ( dal glissato
) conduce al conscio le ore diventano “vive” ( aggettivo marcato attraverso
un’arcatura, un “enjambement” che lo rende illuminante), perché rivissute e
reinventate come note di uno spartito musicale. Ora lo spartito è un insieme di
note, è la scrittura musicale che sulla carta esprime una melodia, una struttura
musicale armonica. Lo spartito dona significato dando valore ai suoni, segna il
limite tra una congerie di rumori e una sequenza di suoni dotata di senso.

Si stabilisce così, rispetto al magma indistinto della
memoria, un ruolo e una funzione della poesia che riesce ad evocare dal passato
quegli elementi che consentono di dare un significato alla vita, alla vita
dell’amica e al rapporto di reciproca amicizia. Come se sul limitare della morte
la poesia avesse il dono divino di percepire improvvisamente il senso profondo
di quanto è appena trascorso. Come se soltanto dalla fine d’un viaggio,
ripercorrendone a ritroso il percorso, fosse dato d’afferrarne il significato.
E’ questa la grande operazione compiuta dall’autrice: trasformare il suono
indistinto, i rumori di fondo che provengono dal passato in una frase musicale,
anzi in un percorso musicale scandito dalle diverse frasi che sono le poesie
della raccolta.

Questo è il motivo per cui dicevo che si tratta di poesie
della vita e sulla vita. Se la morte, infatti, rappresenta il limite della vita,
è anche il termine che ci consente di comprenderla che permette di stabilire il
valore di ciò che l’ha preceduta. Così la vita difficile da afferrare nel
momento in cui la si vive, diventa comprensibile al suo traguardo, se la pietà
del vivo riesce a raccogliere i diversi frammenti che la memoria comune
interrogata gli restituisce.

Ma qual è il contenuto della vita ricostruita, qual è il
senso dell’amicizia, secondo l’autrice ?

La risposta è espressa in due immagini che attraversano tutta
la raccolta: “…che in ogni rigo di noi insieme | si sente il suono della
gioia | quella umana hic et nunc | canto di confine con l’affanno…” e “…dal mare dei
tuoi gesti | dal profondo tuo inquisire | segni di un nobile lavare | che ancora dà
nitore | ai tuoi diletti spazi | al tuo sentire di cristallo…”

Questi sono i due grandi temi:

– il tema della gioia, del piacere di vivere, della
voglia di mordere la vita che porta con sé l’affanno della corsa, il senso del
limite, la premonizione del dolore.

– l’azione costante della ricerca, del “profondo
inquisire”, che significa cercare, scavare, cercare di capire. Ma anche lavare,
anzi “nobile lavare”.

Il gesto del lavare è ricorrente in molte delle poesie.
Lavare che ancora “…dà nitore | ai tuoi diletti spazi…”. Questo conferisce
all’azione una valenza esterna come sciacquare i panni, lavare le tende, pulire
il portico davanti a casa. Probabilmente un insieme di gesti che sono propri
dell’amica, che fanno parte di un rituale su cui si è discusso e riso insieme.
Ma lavare è anche qualcosa di più profondo, è cercare dentro di sé, è la
ricerca, attraverso la purificazione interiore, di quei principi etici che
costituiscono la stella polare dell’azione consapevole. Ecco, dunque, apparire
nel cielo dei convincimenti, l’etica stella di cui si parla in alcune poesie. E
con esse il rimando ad un’altra poesia, anzi ad un epitaffio, la celebre frase
che Kant chiese venisse riportata sulla sua lapide: “Il cielo stellato sopra di
me | la legge morale dentro il mio cuore”.

Il tema della legge morale dentro al cuore è il risultato
della ricerca interiore, del continuo inquisire, del diuturno scavo attorno
all’essenziale per la vita, al “nobile lavare” che si ripete attraverso l’uso
dell’imperfetto frequentativo “lavava” ripetuto tre volte.

Definiti i due temi trasversali di tutta la raccolta, la
poesia si conclude: “…conforto a te | da chi nel mistero permane.” Non è l’amica
defunta a vivere nel mistero, ma è chi continua a vivere e a recare conforto
alla defunta a rimanere con i piedi e la mente nel mistero, in quella dimensione
indecifrabile che è la vita nel momento in cui viene vissuta.

“Vivemus in speculo et in aenigmate” scriveva S.Paolo.
Viviamo dentro uno specchio costituito da una lamina d’argento in cui si vede e
non si vede, viviamo dentro ad un enigma che solo al morte può risolvere, perché
la morte mettendo termine alla vita, consente ad ognuno di fare i conti con il
suo significato.

Questa conclusione ci rimanda dunque all’incipit della poesia
attraverso un percorso elittico di grande efficacia.

Questo è, per me, il valore funzionale della “Praefatio”.

Non da meno è il “Commiato” che cito per intero, data la sua
brevità: “Poter fermare | quell’attimo | in punta di vita | e ridirti, amica, | immutato
ancora | il mio bene | pur nell’ora più greve | e sentir spuntare | i fiori | in
fremito-risposta”.

Vi è un colloquio che continua oltre la morte, dopo la morte.
Parlare “in punta di vita” vuol dire parlare sul limitare della vita, lungo quel
confine dove la vita passata attraverso la sua fine, fa intuire il suo fine.
Parafrasando : poter fermare quell’attimo in punta di vita e dirti, amica mia,
il bene che provo immutato per te, anche se nell’ora più greve, pesante tanto da
stringere il cuore.

La risposta fremente che si ottiene è di sentire spuntare i
fiori.

Non so se l’autrice avesse in mente, quando fissò quei versi,
il Pascoli ed il suo riferimento all’erba che cresce sulle fosse. I fiori, ben
più dell’erba, spuntando dalla terra in cui riposa chi ci ha lasciato,
rappresentano la risposta ad un invito, ed il colloquio continua al di là della
vita e della morte.

Così il “Commiato” chiude in maniera intensa e suggestiva il
percorso che la “Praefatio” apre.

Sono imbarazzato ed indeciso nel dover scegliere tra le
poesie della raccolta. La raccolta, costruita attorno agli ordinati frammenti
della memoria, è articolato in due grandi parti: parte I “Il nostro tenero
tempo”, parte II “Il nostro tempo maturo”. I ricordi si svolgono lungo un
percorso cronologico e raggruppati a tema. Ma vi sono due fili che tutti li
trapassano.

Il primo filo è costituito da un elemento retorico, citato
anche nella dottissima introduzione del curatore della silloge poetica. E’ “la
rossa criniera”. Si tratta di una sineddoche, ossia di quel meccanismo
metonimico per cui si indica il tutto ( in questo caso l’amica ) attraverso un
suo tratto caratteristico. Ma perché, potendo scegliere tra centinaia di
particolari, l’autrice ha scelto “rossa criniera”?

L’aggettivo rosso corrisponde alla realtà storica. Criniera è
il termine scelto tra una vasta gamma di sinonimi ( chioma, capigliatura, taglio
di capelli, acconciatura), forse perché indica qualcosa di naturale, di non
curato, espressione esterna di quanto di più naturale esista, nello stato
d’animo, nella psiche profonda della persona. Questa parola, questo vocabolo
così primordiale e selvaggio serve ad esprimere il moto naturale del cuore che
irradia un fascio di luce sull’episodio, sul frammento memorante in cui l’amica
vive. Così la rossa criniera, divenuta “frizzante”, “docente”, “smarrita”,
“radiosa”, “in maschera”, “amorosa”, “pudica”, illumina di luce speciale il
senso compiuto della frase e dell’intera poesia.

Ora la “rossa criniera” è soggetto della frase, ora diventa
una sorta di ablativo assoluto che, attraverso la sospensione, getta un fascio
di luce speciale sul relitto che la memoria tende a far galleggiare.

La criniera e soprattutto l’aggettivo che ad essa si
accompagna svolgono la stessa funzione che svolge la fonte di luce in campo
fotografico. Nella fotografia, infatti, la luce diventa l’elemento essenziale
per dare senso e significato agli oggetti fotografati.

L’aggettivo, infatti, getta sul ricordo un fascio di luce
tale da mettere in evidenza alcune valenze interpretative, che sono proprie
dello stato d’animo della protagonista nel viverle e dell’autrice nel riviverle.
Interessante per questo l’ultima poesia in cui la sineddoche viene utilizzata.
In essa l’aggettivo che connota la “criniera” è “arresa”. E’ la quartultima
poesia dell’intera silloge, eppure già emergono tra i ricordi i segni
premonitori di quanto sarebbe avvenuto : della morte. Come se la vivacità, la
voglia di vivere fossero già cessate ancor prima dell’evento improvviso ed un
odore di morte traspirasse dai gesti e degli atti evocati dalla memoria.

Il secondo filo è espresso dal verbo lavare, anzi lavava (
indicativo imperfetto del verbo ). Tra tutte di notevole interesse è la poesia :
“E lavava lavava | lavava all’onda dei ricordi | quel mite angolo agreste…”. Poesia,
in qualche modo, storica, come la successiva, perché evoca i momenti
dell’insegnamento quando “L’Aberti” si trovava a Villa Rigoni e l’asina veniva
ad illuminare la giornata degli alunni e degli insegnanti : “lavava d’umano
l’incontro | più maturo più acerbo | in parole d’aria e sole | con le mani
recitando | tutto il suo ardore | la rossa criniera frizzante | pur agitato il buio
bambino. | E s’apriva confidenza | come corolla a primavera | nel bucolico spazio
là | un po’ fuori dalla terra | con l’asina sempre al balcone | con gli allievi quasi
amici | la mente vivace e chiari disegni | in quel desueto istituto | d’un tempo ora
come remoto. | Ma è solo al nettare-ricordo | o forse è alla luce oggi miope | che noi
loro tutti allora | s’andava più innocenti?”

E’ una poesia-segno, una poesia-indicazione. Non a casa
riportata anche in quarta di copertina. Sopra tutto galleggia una domanda,
essenziale rispetto ai temi affrontati: il ricordo è un nettare che addolcisce
la vita o esiste una differenza reale tra il buon tempo andato ed il duro
presente ?

Domanda non retorica che viene collegata ad altre
domande-emozioni dal verbo “lavare”. Verbo che viene ripetuto in moltissime
poesie ove forma un incipit, per tre volte ripetuto.

Il tempo verbale utilizzato non è il passato remoto ( lavò )
che indica un’azione chiusa nel passato, bensì l’imperfetto che è frequentativo,
iterativo ( continuava a lavare ). A questa scelta si aggiunge l’uso della
ripetizione ( lavava, lavava, lavava ) che proietta e riconduce la poesia alla
struttura a salterio delle più antiche poesie della nostra tradizione
letteraria.

Il pensiero va al “Cantico di frate sole” di Francesco
d’Assisi e al “Laudato sii, mi Signore,…” che recupera nella lingua volgare la
struttura del salmo propria della tradizione ecclesiastica latina.

Così il termine, in posizione fortissima nella struttura del
verso, si carica di significati altamente poetici a sottolineare un gesto
evocato, una consuetudine consolidata, una cerimonia domestica quotidiana.

Si può solo intuire che cosa due amiche si dicessero sul
lavare: si lavava la biancheria di casa sciorinandola all’aria nei giorni di
sole, si lavavano le tende di casa e soprattutto le si stirava con grande
fatica, si lavava l’occhio di portico davanti all’ingresso imbrattato
dall’inciviltà dei passanti….

Ma questa sorta di mania-smania di lavare era l’espressione
esterna, la proiezione nei gesti di quanto avveniva nel cuore, nell’animo
dell’amica: lo sforzo continuo della ricerca interiore, la spinta a mondarsi dal
superficiale per guadagnare ciò che veramente conta, l’essenziale, ciò che è
unico, il principio che guida la nostra azione, il principio morale.

Tra tutte le poesie che si possono citare al riguardo, voglio
leggere quella a pagina 18 dal titolo “In un vivere insieme cortese” : “lavava
al risveglio i pensieri | pensieri d’amore alla casa | li stendeva al suo
davanzale | poi con calzari di vento | amabile veniva alla scuola | la rossa criniera
docente | i sogni-nonsense di Alice | la dolce follia di Ofelia | ed entrava con passo
di danza | nella stanza della Corona | col bel suono sulle labbra | dal mai obliato
vissuto inglese. | E diceva diceva ai giovani | diceva l’urgenza | d’un vivere insieme
cortese | alla voce di un’etica stella.”

La chiusura ( etica stella ) consegna questa
poesia-ricordo-riflessione al rapporto con l’epitaffio kantiano di cui parlavamo
all’inizio. L’etica stella è il punto fisso, la stella polare che indica la
direzione ed il verso del cammino. E’ il senso del dovere in cui la persona
umana realizza pienamente se stessa. La stella che mai non tramonta, che non è
legata agli stati d’animo, agli interessi di parte, alle convenienze momentanee.
E’ il dovere scritto profondamente in ognuno, dovere che soltanto il coraggio
della ragione e la limpidezza della vita sanno mettere in risalto.

Ancora più esplicita sul tema la poesia di pagina 32 dal
titolo “Dell’uomo nel morbo più solo”: “lavava con mani fiorite | d’umili
viole-umana pietas | l’anima le membra sfiorite | dell’uomo nel morbo più solo | il
più offeso, a suo dire | da sorte non giusta. | Lavava con l’offerta | di filiali
ghirlande | tessute a rose pazienti | chi madre a lei non era, | la rossa criniera
obbidiente | al fuoco-dovere nutrito | dall’imperativo del filosofo | dallo spirito
del tempo, | ma più pativa ad ogni evento | sotto il suo cielo di stelle.”

Questi i due fili che si intrecciano in tutte le poesie della
raccolta: il tema della vita vissuta, tema espresso attraverso la sineddoche ed
il tema dell’imperativo morale, elaborato attraverso l’iterazione “lavava”.

Concludo con una poesia che evocando l’ultimo incontro con
l’amica, presagisce la morte attraverso le tracce di una scena depositata nel
flusso rammemorante, dal titolo “Mi rivivrà ogni momento”: “lavava ogni alito
della mia musa | parola a lei diletta sempre |  – da cifrare-tempo dell’anima
– | diceva nell’incontro tra noi | più raro ma ancora vermiglio. | E su balaustre di
giacinti | struggente ultimo dono augurale | posavamo in volo interiore | tremori
speranze promesse | dal cuore-mia terra raccolte | perché al tepore del ricordo
| Lei
mi rivivrà ogni momento | come in un’infinita primavera | colore-odore di quei
grappoli | pegno-impegno d’amicizia | profumo benedetto ancora sempre | che vola alto
oltre il vento | della brughiera d’inverno | e non si sperde:”

Che cosa rimane dell’amica ? Il profumo benedetto oltre la
brughiera d’inverno ( la morte ). Ma è un profumo che non si perde e non si
sperde, non svanisce attraverso il tempo e la lontananza.

Perché vi è chi ha avuto ed ha la capacità, come
l’amica-autrice, di aspirare quel profumo e distillarlo ancora attraverso la
poesia.

Dell’amicizia – My red hair

Presentazione del prof. Giovanni
Ponchio

6 ottobre 2004, Abano Terme (Padova) Kursaal

Ho accettato con un certo imbarazzo la proposta fattami dalla
prof. Toffanin: presentare il suo ultimo libro di poesia. Mi pareva piuttosto
bizzarro, infatti, che si chiedesse a me di riflettere sul tema dell’amicizia tra due donne, visto che conosco poco
l’una, ossia la prof. Toffanin e non conoscevo per nulla l’altra. Tanto meno
potevo conoscere il significato ed il profondo valore della loro amicizia.
Ma, in seguito, riflettendo sulla strana situazione, ho
compreso che la scelta è caduta su di me, perché ignorante, perché ignoravo la
loro vicenda ed il suo sviluppo. E quindi, con la mente sgombra ed il cuore
tranquillo, potevo ricostruirla attraverso le poesie, senza che i miei ricordi
potessero proiettarsi su quelli dell’autrice, adulterandone il contenuto.

La serata è articolata in modo semplice. Io farò qualche
breve riflessione su questa straordinaria silloge di poesie, non sulla morte, ma
sulla vita. In seguito saranno letti alcuni testi della raccolta con una
ambientazione circostanziata da parte dell’autrice. Se ripercorriamo le nostre strade, i nostri Colli Euganei,
può accadere di udire l’eco, il suono di altre poesie scritte per la tomba del
fratello o della donna amata. Qui, non molto lontano, secondo la tradizione
Nicolò Ugo Foscolo fu ospite dell’abate Merchiorre Cesarotti. Ugo Foscolo che al
fratello dedicò il celebre sonetto, rivisitando il carmen catulliano “Multas per
gentes et multa per aequora vectus”, Ugo Foscolo che in “Ultime lettere di Jacopo
Ortis” raccontò del pellegrinaggio del protagonista sulla tomba del Petrarca ad
Arquà.

Francesco Petrarca, di cui si celebra il 700° anniversario
della morte, a Laura morta dedica una parte cospicua delle 366 poesie del
Canzoniere. Ma le poesie di Petrarca e di Foscolo lungi dal parlare di colui o
colei che è morta, rappresentano il pretesto, l’occasione per parlare di sé. Per
parlare dei propri dilemmi, ansie, aspirazioni “al cenere muto”, senza
evidentemente che vi possa essere risposta alcuna. Si tratta di poesie che
nascono da un forte senso di sé, da un forte egotismo per il quale la poesia
risulta una sorta di rispecchiamento del soggetto, più che un colloquio con una
persona viva, almeno nel ricordo.

Non è così invece per le poesie della prof. Toffanin che hanno
al centro l’amicizia, hanno al centro un’altra donna con la quale si sono
intessuti rapporti profondi che il fluire della poesia rivisita e ricostruisce.
A tale proposito è naturale conoscere l’analisi della raccolta proprio dalla
“Praefatio”, prefazione che rappresenta la principale chiave interpretativa
dell’itinerario poetico. Leggo il testo, anche se non bene come sarà fatto in
seguito, ma la lettura mi serve per cercare di definire il senso del viaggio:
“Evocate al bulino del dolore | dirò amica di ore nostre glissate | tra sabbia di
clessidra | note lucenti d’amicizia | alla risacca memorante emerse | vive per questo
mio spartito | ché in ogni rigo di noi insieme | si sente il suono della
gioia, | quella umana hic et nunc | canto di confine con l’affanno, | e di chiari
accordi d’acqua | dal mare dei tuoi gesti | dal profondo tuo inquisire | segni di un
nobile lavare | che ancora dà nitore | ai tuoi diletti spazi | al tuo sentire di
cristallo. | Conforto a te | da chi nel mistero permane.”

Ogni parola possiede un corredo di significati che vanno
almeno indicati.

Partiamo dalla metafora ( il bulino del dolore): il dolore è
uno strumento che incide nella carne e nello spirito, ma è mezzo che raffina,
che struttura, che dà dorma. Il dolore non è un tormento , privo di senso, ma
una sofferenza, una fatica, un travaglio che conduce ad un approdo.

Lo stridore del bulino evoca “…ore…glissate | tra sabbia di
clessidra”, fa tornare alla memoria le ore passate insieme, in amicizia, senza
accorgersi del trascorrere del tempo. E’ lo scivolare via (glisser) delle ore
una delle condizioni dell’amicizia, quando si “perde” tempo l’una con l’altra,
senza avere la percezione del tempo che passa. Ma quelle ore passate senza
pensarci, vengono ad occupare il fuoco della riflessione, perché evocate dal
bulino del dolore ed emerse “alla risacca memorante”. Bellissima immagine quella
della risacca che è lo sbattere continuo dell’onda sulla sabbia, contro la
costa, in un perpetuo movimento che fa emergere dal fondo del mare gli oggetti
che esso ha inghiottito. Così dal lago della mente, dal mare interno della
memoria l’onda del ricordo fa affiorare i frammenti del passato che, sommersi
dal subitaneo oblio di chi li ha vissuti senza preoccupazione, ora il dolore fa
emergere.

Tutta la raccolta poetica può essere letta come una continua
altalena tra ciò che si è vissuto insieme senza farci caso ( le scene di
quotidiana vita scolastica ) e quanto dal mare dell’inconscio il moto ondoso
porta sulla riva del conscio, reperti/lacerti di una nave naufragata, per
diventare materia dell’invenzione poetica.

Nel movimento ascensionale che dall’inconscio ( dal glissato
) conduce al conscio le ore diventano “vive” ( aggettivo marcato attraverso
un’arcatura, un “enjambement” che lo rende illuminante), perché rivissute e
reinventate come note di uno spartito musicale. Ora lo spartito è un insieme di
note, è la scrittura musicale che sulla carta esprime una melodia, una struttura
musicale armonica. Lo spartito dona significato dando valore ai suoni, segna il
limite tra una congerie di rumori e una sequenza di suoni dotata di senso.

Si stabilisce così, rispetto al magma indistinto della
memoria, un ruolo e una funzione della poesia che riesce ad evocare dal passato
quegli elementi che consentono di dare un significato alla vita, alla vita
dell’amica e al rapporto di reciproca amicizia. Come se sul limitare della morte
la poesia avesse il dono divino di percepire improvvisamente il senso profondo
di quanto è appena trascorso. Come se soltanto dalla fine d’un viaggio,
ripercorrendone a ritroso il percorso, fosse dato d’afferrarne il significato.
E’ questa la grande operazione compiuta dall’autrice: trasformare il suono
indistinto, i rumori di fondo che provengono dal passato in una frase musicale,
anzi in un percorso musicale scandito dalle diverse frasi che sono le poesie
della raccolta.

Questo è il motivo per cui dicevo che si tratta di poesie
della vita e sulla vita. Se la morte, infatti, rappresenta il limite della vita,
è anche il termine che ci consente di comprenderla che permette di stabilire il
valore di ciò che l’ha preceduta. Così la vita difficile da afferrare nel
momento in cui la si vive, diventa comprensibile al suo traguardo, se la pietà
del vivo riesce a raccogliere i diversi frammenti che la memoria comune
interrogata gli restituisce.

Ma qual è il contenuto della vita ricostruita, qual è il
senso dell’amicizia, secondo l’autrice ?

La risposta è espressa in due immagini che attraversano tutta
la raccolta: “…che in ogni rigo di noi insieme | si sente il suono della
gioia | quella umana hic et nunc | canto di confine con l’affanno…” e “…dal mare dei
tuoi gesti | dal profondo tuo inquisire | segni di un nobile lavare | che ancora dà
nitore | ai tuoi diletti spazi | al tuo sentire di cristallo…”

Questi sono i due grandi temi:

– il tema della gioia, del piacere di vivere, della
voglia di mordere la vita che porta con sé l’affanno della corsa, il senso del
limite, la premonizione del dolore.

– l’azione costante della ricerca, del “profondo
inquisire”, che significa cercare, scavare, cercare di capire. Ma anche lavare,
anzi “nobile lavare”.

Il gesto del lavare è ricorrente in molte delle poesie.
Lavare che ancora “…dà nitore | ai tuoi diletti spazi…”. Questo conferisce
all’azione una valenza esterna come sciacquare i panni, lavare le tende, pulire
il portico davanti a casa. Probabilmente un insieme di gesti che sono propri
dell’amica, che fanno parte di un rituale su cui si è discusso e riso insieme.
Ma lavare è anche qualcosa di più profondo, è cercare dentro di sé, è la
ricerca, attraverso la purificazione interiore, di quei principi etici che
costituiscono la stella polare dell’azione consapevole. Ecco, dunque, apparire
nel cielo dei convincimenti, l’etica stella di cui si parla in alcune poesie. E
con esse il rimando ad un’altra poesia, anzi ad un epitaffio, la celebre frase
che Kant chiese venisse riportata sulla sua lapide: “Il cielo stellato sopra di
me | la legge morale dentro il mio cuore”.

Il tema della legge morale dentro al cuore è il risultato
della ricerca interiore, del continuo inquisire, del diuturno scavo attorno
all’essenziale per la vita, al “nobile lavare” che si ripete attraverso l’uso
dell’imperfetto frequentativo “lavava” ripetuto tre volte.

Definiti i due temi trasversali di tutta la raccolta, la
poesia si conclude: “…conforto a te | da chi nel mistero permane.” Non è l’amica
defunta a vivere nel mistero, ma è chi continua a vivere e a recare conforto
alla defunta a rimanere con i piedi e la mente nel mistero, in quella dimensione
indecifrabile che è la vita nel momento in cui viene vissuta.

“Vivemus in speculo et in aenigmate” scriveva S.Paolo.
Viviamo dentro uno specchio costituito da una lamina d’argento in cui si vede e
non si vede, viviamo dentro ad un enigma che solo al morte può risolvere, perché
la morte mettendo termine alla vita, consente ad ognuno di fare i conti con il
suo significato.

Questa conclusione ci rimanda dunque all’incipit della poesia
attraverso un percorso elittico di grande efficacia.

Questo è, per me, il valore funzionale della “Praefatio”.

Non da meno è il “Commiato” che cito per intero, data la sua
brevità: “Poter fermare | quell’attimo | in punta di vita | e ridirti, amica, | immutato
ancora | il mio bene | pur nell’ora più greve | e sentir spuntare | i fiori | in
fremito-risposta”.

Vi è un colloquio che continua oltre la morte, dopo la morte.
Parlare “in punta di vita” vuol dire parlare sul limitare della vita, lungo quel
confine dove la vita passata attraverso la sua fine, fa intuire il suo fine.
Parafrasando : poter fermare quell’attimo in punta di vita e dirti, amica mia,
il bene che provo immutato per te, anche se nell’ora più greve, pesante tanto da
stringere il cuore.

La risposta fremente che si ottiene è di sentire spuntare i
fiori.

Non so se l’autrice avesse in mente, quando fissò quei versi,
il Pascoli ed il suo riferimento all’erba che cresce sulle fosse. I fiori, ben
più dell’erba, spuntando dalla terra in cui riposa chi ci ha lasciato,
rappresentano la risposta ad un invito, ed il colloquio continua al di là della
vita e della morte.

Così il “Commiato” chiude in maniera intensa e suggestiva il
percorso che la “Praefatio” apre.

Sono imbarazzato ed indeciso nel dover scegliere tra le
poesie della raccolta. La raccolta, costruita attorno agli ordinati frammenti
della memoria, è articolato in due grandi parti: parte I “Il nostro tenero
tempo”, parte II “Il nostro tempo maturo”. I ricordi si svolgono lungo un
percorso cronologico e raggruppati a tema. Ma vi sono due fili che tutti li
trapassano.

Il primo filo è costituito da un elemento retorico, citato
anche nella dottissima introduzione del curatore della silloge poetica. E’ “la
rossa criniera”. Si tratta di una sineddoche, ossia di quel meccanismo
metonimico per cui si indica il tutto ( in questo caso l’amica ) attraverso un
suo tratto caratteristico. Ma perché, potendo scegliere tra centinaia di
particolari, l’autrice ha scelto “rossa criniera”?

L’aggettivo rosso corrisponde alla realtà storica. Criniera è
il termine scelto tra una vasta gamma di sinonimi ( chioma, capigliatura, taglio
di capelli, acconciatura), forse perché indica qualcosa di naturale, di non
curato, espressione esterna di quanto di più naturale esista, nello stato
d’animo, nella psiche profonda della persona. Questa parola, questo vocabolo
così primordiale e selvaggio serve ad esprimere il moto naturale del cuore che
irradia un fascio di luce sull’episodio, sul frammento memorante in cui l’amica
vive. Così la rossa criniera, divenuta “frizzante”, “docente”, “smarrita”,
“radiosa”, “in maschera”, “amorosa”, “pudica”, illumina di luce speciale il
senso compiuto della frase e dell’intera poesia.

Ora la “rossa criniera” è soggetto della frase, ora diventa
una sorta di ablativo assoluto che, attraverso la sospensione, getta un fascio
di luce speciale sul relitto che la memoria tende a far galleggiare.

La criniera e soprattutto l’aggettivo che ad essa si
accompagna svolgono la stessa funzione che svolge la fonte di luce in campo
fotografico. Nella fotografia, infatti, la luce diventa l’elemento essenziale
per dare senso e significato agli oggetti fotografati.

L’aggettivo, infatti, getta sul ricordo un fascio di luce
tale da mettere in evidenza alcune valenze interpretative, che sono proprie
dello stato d’animo della protagonista nel viverle e dell’autrice nel riviverle.
Interessante per questo l’ultima poesia in cui la sineddoche viene utilizzata.
In essa l’aggettivo che connota la “criniera” è “arresa”. E’ la quartultima
poesia dell’intera silloge, eppure già emergono tra i ricordi i segni
premonitori di quanto sarebbe avvenuto : della morte. Come se la vivacità, la
voglia di vivere fossero già cessate ancor prima dell’evento improvviso ed un
odore di morte traspirasse dai gesti e degli atti evocati dalla memoria.

Il secondo filo è espresso dal verbo lavare, anzi lavava (
indicativo imperfetto del verbo ). Tra tutte di notevole interesse è la poesia :
“E lavava lavava | lavava all’onda dei ricordi | quel mite angolo agreste…”. Poesia,
in qualche modo, storica, come la successiva, perché evoca i momenti
dell’insegnamento quando “L’Aberti” si trovava a Villa Rigoni e l’asina veniva
ad illuminare la giornata degli alunni e degli insegnanti : “lavava d’umano
l’incontro | più maturo più acerbo | in parole d’aria e sole | con le mani
recitando | tutto il suo ardore | la rossa criniera frizzante | pur agitato il buio
bambino. | E s’apriva confidenza | come corolla a primavera | nel bucolico spazio
là | un po’ fuori dalla terra | con l’asina sempre al balcone | con gli allievi quasi
amici | la mente vivace e chiari disegni | in quel desueto istituto | d’un tempo ora
come remoto. | Ma è solo al nettare-ricordo | o forse è alla luce oggi miope | che noi
loro tutti allora | s’andava più innocenti?”

E’ una poesia-segno, una poesia-indicazione. Non a casa
riportata anche in quarta di copertina. Sopra tutto galleggia una domanda,
essenziale rispetto ai temi affrontati: il ricordo è un nettare che addolcisce
la vita o esiste una differenza reale tra il buon tempo andato ed il duro
presente ?

Domanda non retorica che viene collegata ad altre
domande-emozioni dal verbo “lavare”. Verbo che viene ripetuto in moltissime
poesie ove forma un incipit, per tre volte ripetuto.

Il tempo verbale utilizzato non è il passato remoto ( lavò )
che indica un’azione chiusa nel passato, bensì l’imperfetto che è frequentativo,
iterativo ( continuava a lavare ). A questa scelta si aggiunge l’uso della
ripetizione ( lavava, lavava, lavava ) che proietta e riconduce la poesia alla
struttura a salterio delle più antiche poesie della nostra tradizione
letteraria.

Il pensiero va al “Cantico di frate sole” di Francesco
d’Assisi e al “Laudato sii, mi Signore,…” che recupera nella lingua volgare la
struttura del salmo propria della tradizione ecclesiastica latina.

Così il termine, in posizione fortissima nella struttura del
verso, si carica di significati altamente poetici a sottolineare un gesto
evocato, una consuetudine consolidata, una cerimonia domestica quotidiana.

Si può solo intuire che cosa due amiche si dicessero sul
lavare: si lavava la biancheria di casa sciorinandola all’aria nei giorni di
sole, si lavavano le tende di casa e soprattutto le si stirava con grande
fatica, si lavava l’occhio di portico davanti all’ingresso imbrattato
dall’inciviltà dei passanti….

Ma questa sorta di mania-smania di lavare era l’espressione
esterna, la proiezione nei gesti di quanto avveniva nel cuore, nell’animo
dell’amica: lo sforzo continuo della ricerca interiore, la spinta a mondarsi dal
superficiale per guadagnare ciò che veramente conta, l’essenziale, ciò che è
unico, il principio che guida la nostra azione, il principio morale.

Tra tutte le poesie che si possono citare al riguardo, voglio
leggere quella a pagina 18 dal titolo “In un vivere insieme cortese” : “lavava
al risveglio i pensieri | pensieri d’amore alla casa | li stendeva al suo
davanzale | poi con calzari di vento | amabile veniva alla scuola | la rossa criniera
docente | i sogni-nonsense di Alice | la dolce follia di Ofelia | ed entrava con passo
di danza | nella stanza della Corona | col bel suono sulle labbra | dal mai obliato
vissuto inglese. | E diceva diceva ai giovani | diceva l’urgenza | d’un vivere insieme
cortese | alla voce di un’etica stella.”

La chiusura ( etica stella ) consegna questa
poesia-ricordo-riflessione al rapporto con l’epitaffio kantiano di cui parlavamo
all’inizio. L’etica stella è il punto fisso, la stella polare che indica la
direzione ed il verso del cammino. E’ il senso del dovere in cui la persona
umana realizza pienamente se stessa. La stella che mai non tramonta, che non è
legata agli stati d’animo, agli interessi di parte, alle convenienze momentanee.
E’ il dovere scritto profondamente in ognuno, dovere che soltanto il coraggio
della ragione e la limpidezza della vita sanno mettere in risalto.

Ancora più esplicita sul tema la poesia di pagina 32 dal
titolo “Dell’uomo nel morbo più solo”: “lavava con mani fiorite | d’umili
viole-umana pietas | l’anima le membra sfiorite | dell’uomo nel morbo più solo | il
più offeso, a suo dire | da sorte non giusta. | Lavava con l’offerta | di filiali
ghirlande | tessute a rose pazienti | chi madre a lei non era, | la rossa criniera
obbidiente | al fuoco-dovere nutrito | dall’imperativo del filosofo | dallo spirito
del tempo, | ma più pativa ad ogni evento | sotto il suo cielo di stelle.”

Questi i due fili che si intrecciano in tutte le poesie della
raccolta: il tema della vita vissuta, tema espresso attraverso la sineddoche ed
il tema dell’imperativo morale, elaborato attraverso l’iterazione “lavava”.

Concludo con una poesia che evocando l’ultimo incontro con
l’amica, presagisce la morte attraverso le tracce di una scena depositata nel
flusso rammemorante, dal titolo “Mi rivivrà ogni momento”: “lavava ogni alito
della mia musa | parola a lei diletta sempre |  – da cifrare-tempo dell’anima
– | diceva nell’incontro tra noi | più raro ma ancora vermiglio. | E su balaustre di
giacinti | struggente ultimo dono augurale | posavamo in volo interiore | tremori
speranze promesse | dal cuore-mia terra raccolte | perché al tepore del ricordo
| Lei
mi rivivrà ogni momento | come in un’infinita primavera | colore-odore di quei
grappoli | pegno-impegno d’amicizia | profumo benedetto ancora sempre | che vola alto
oltre il vento | della brughiera d’inverno | e non si sperde:”

Che cosa rimane dell’amica ? Il profumo benedetto oltre la
brughiera d’inverno ( la morte ). Ma è un profumo che non si perde e non si
sperde, non svanisce attraverso il tempo e la lontananza.

Perché vi è chi ha avuto ed ha la capacità, come
l’amica-autrice, di aspirare quel profumo e distillarlo ancora attraverso la
poesia.

Dell’amicizia – My red hair

Presentazione del prof. Giovanni
Ponchio

6 ottobre 2004, Abano Terme (Padova) Kursaal

Ho accettato con un certo imbarazzo la proposta fattami dalla
prof. Toffanin: presentare il suo ultimo libro di poesia. Mi pareva piuttosto
bizzarro, infatti, che si chiedesse a me di riflettere sul tema dell’amicizia tra due donne, visto che conosco poco
l’una, ossia la prof. Toffanin e non conoscevo per nulla l’altra. Tanto meno
potevo conoscere il significato ed il profondo valore della loro amicizia.
Ma, in seguito, riflettendo sulla strana situazione, ho
compreso che la scelta è caduta su di me, perché ignorante, perché ignoravo la
loro vicenda ed il suo sviluppo. E quindi, con la mente sgombra ed il cuore
tranquillo, potevo ricostruirla attraverso le poesie, senza che i miei ricordi
potessero proiettarsi su quelli dell’autrice, adulterandone il contenuto.

La serata è articolata in modo semplice. Io farò qualche
breve riflessione su questa straordinaria silloge di poesie, non sulla morte, ma
sulla vita. In seguito saranno letti alcuni testi della raccolta con una
ambientazione circostanziata da parte dell’autrice. Se ripercorriamo le nostre strade, i nostri Colli Euganei,
può accadere di udire l’eco, il suono di altre poesie scritte per la tomba del
fratello o della donna amata. Qui, non molto lontano, secondo la tradizione
Nicolò Ugo Foscolo fu ospite dell’abate Merchiorre Cesarotti. Ugo Foscolo che al
fratello dedicò il celebre sonetto, rivisitando il carmen catulliano “Multas per
gentes et multa per aequora vectus”, Ugo Foscolo che in “Ultime lettere di Jacopo
Ortis” raccontò del pellegrinaggio del protagonista sulla tomba del Petrarca ad
Arquà.

Francesco Petrarca, di cui si celebra il 700° anniversario
della morte, a Laura morta dedica una parte cospicua delle 366 poesie del
Canzoniere. Ma le poesie di Petrarca e di Foscolo lungi dal parlare di colui o
colei che è morta, rappresentano il pretesto, l’occasione per parlare di sé. Per
parlare dei propri dilemmi, ansie, aspirazioni “al cenere muto”, senza
evidentemente che vi possa essere risposta alcuna. Si tratta di poesie che
nascono da un forte senso di sé, da un forte egotismo per il quale la poesia
risulta una sorta di rispecchiamento del soggetto, più che un colloquio con una
persona viva, almeno nel ricordo.

Non è così invece per le poesie della prof. Toffanin che hanno
al centro l’amicizia, hanno al centro un’altra donna con la quale si sono
intessuti rapporti profondi che il fluire della poesia rivisita e ricostruisce.
A tale proposito è naturale conoscere l’analisi della raccolta proprio dalla
“Praefatio”, prefazione che rappresenta la principale chiave interpretativa
dell’itinerario poetico. Leggo il testo, anche se non bene come sarà fatto in
seguito, ma la lettura mi serve per cercare di definire il senso del viaggio:
“Evocate al bulino del dolore | dirò amica di ore nostre glissate | tra sabbia di
clessidra | note lucenti d’amicizia | alla risacca memorante emerse | vive per questo
mio spartito | ché in ogni rigo di noi insieme | si sente il suono della
gioia, | quella umana hic et nunc | canto di confine con l’affanno, | e di chiari
accordi d’acqua | dal mare dei tuoi gesti | dal profondo tuo inquisire | segni di un
nobile lavare | che ancora dà nitore | ai tuoi diletti spazi | al tuo sentire di
cristallo. | Conforto a te | da chi nel mistero permane.”

Ogni parola possiede un corredo di significati che vanno
almeno indicati.

Partiamo dalla metafora ( il bulino del dolore): il dolore è
uno strumento che incide nella carne e nello spirito, ma è mezzo che raffina,
che struttura, che dà dorma. Il dolore non è un tormento , privo di senso, ma
una sofferenza, una fatica, un travaglio che conduce ad un approdo.

Lo stridore del bulino evoca “…ore…glissate | tra sabbia di
clessidra”, fa tornare alla memoria le ore passate insieme, in amicizia, senza
accorgersi del trascorrere del tempo. E’ lo scivolare via (glisser) delle ore
una delle condizioni dell’amicizia, quando si “perde” tempo l’una con l’altra,
senza avere la percezione del tempo che passa. Ma quelle ore passate senza
pensarci, vengono ad occupare il fuoco della riflessione, perché evocate dal
bulino del dolore ed emerse “alla risacca memorante”. Bellissima immagine quella
della risacca che è lo sbattere continuo dell’onda sulla sabbia, contro la
costa, in un perpetuo movimento che fa emergere dal fondo del mare gli oggetti
che esso ha inghiottito. Così dal lago della mente, dal mare interno della
memoria l’onda del ricordo fa affiorare i frammenti del passato che, sommersi
dal subitaneo oblio di chi li ha vissuti senza preoccupazione, ora il dolore fa
emergere.

Tutta la raccolta poetica può essere letta come una continua
altalena tra ciò che si è vissuto insieme senza farci caso ( le scene di
quotidiana vita scolastica ) e quanto dal mare dell’inconscio il moto ondoso
porta sulla riva del conscio, reperti/lacerti di una nave naufragata, per
diventare materia dell’invenzione poetica.

Nel movimento ascensionale che dall’inconscio ( dal glissato
) conduce al conscio le ore diventano “vive” ( aggettivo marcato attraverso
un’arcatura, un “enjambement” che lo rende illuminante), perché rivissute e
reinventate come note di uno spartito musicale. Ora lo spartito è un insieme di
note, è la scrittura musicale che sulla carta esprime una melodia, una struttura
musicale armonica. Lo spartito dona significato dando valore ai suoni, segna il
limite tra una congerie di rumori e una sequenza di suoni dotata di senso.

Si stabilisce così, rispetto al magma indistinto della
memoria, un ruolo e una funzione della poesia che riesce ad evocare dal passato
quegli elementi che consentono di dare un significato alla vita, alla vita
dell’amica e al rapporto di reciproca amicizia. Come se sul limitare della morte
la poesia avesse il dono divino di percepire improvvisamente il senso profondo
di quanto è appena trascorso. Come se soltanto dalla fine d’un viaggio,
ripercorrendone a ritroso il percorso, fosse dato d’afferrarne il significato.
E’ questa la grande operazione compiuta dall’autrice: trasformare il suono
indistinto, i rumori di fondo che provengono dal passato in una frase musicale,
anzi in un percorso musicale scandito dalle diverse frasi che sono le poesie
della raccolta.

Questo è il motivo per cui dicevo che si tratta di poesie
della vita e sulla vita. Se la morte, infatti, rappresenta il limite della vita,
è anche il termine che ci consente di comprenderla che permette di stabilire il
valore di ciò che l’ha preceduta. Così la vita difficile da afferrare nel
momento in cui la si vive, diventa comprensibile al suo traguardo, se la pietà
del vivo riesce a raccogliere i diversi frammenti che la memoria comune
interrogata gli restituisce.

Ma qual è il contenuto della vita ricostruita, qual è il
senso dell’amicizia, secondo l’autrice ?

La risposta è espressa in due immagini che attraversano tutta
la raccolta: “…che in ogni rigo di noi insieme | si sente il suono della
gioia | quella umana hic et nunc | canto di confine con l’affanno…” e “…dal mare dei
tuoi gesti | dal profondo tuo inquisire | segni di un nobile lavare | che ancora dà
nitore | ai tuoi diletti spazi | al tuo sentire di cristallo…”

Questi sono i due grandi temi:

– il tema della gioia, del piacere di vivere, della
voglia di mordere la vita che porta con sé l’affanno della corsa, il senso del
limite, la premonizione del dolore.

– l’azione costante della ricerca, del “profondo
inquisire”, che significa cercare, scavare, cercare di capire. Ma anche lavare,
anzi “nobile lavare”.

Il gesto del lavare è ricorrente in molte delle poesie.
Lavare che ancora “…dà nitore | ai tuoi diletti spazi…”. Questo conferisce
all’azione una valenza esterna come sciacquare i panni, lavare le tende, pulire
il portico davanti a casa. Probabilmente un insieme di gesti che sono propri
dell’amica, che fanno parte di un rituale su cui si è discusso e riso insieme.
Ma lavare è anche qualcosa di più profondo, è cercare dentro di sé, è la
ricerca, attraverso la purificazione interiore, di quei principi etici che
costituiscono la stella polare dell’azione consapevole. Ecco, dunque, apparire
nel cielo dei convincimenti, l’etica stella di cui si parla in alcune poesie. E
con esse il rimando ad un’altra poesia, anzi ad un epitaffio, la celebre frase
che Kant chiese venisse riportata sulla sua lapide: “Il cielo stellato sopra di
me | la legge morale dentro il mio cuore”.

Il tema della legge morale dentro al cuore è il risultato
della ricerca interiore, del continuo inquisire, del diuturno scavo attorno
all’essenziale per la vita, al “nobile lavare” che si ripete attraverso l’uso
dell’imperfetto frequentativo “lavava” ripetuto tre volte.

Definiti i due temi trasversali di tutta la raccolta, la
poesia si conclude: “…conforto a te | da chi nel mistero permane.” Non è l’amica
defunta a vivere nel mistero, ma è chi continua a vivere e a recare conforto
alla defunta a rimanere con i piedi e la mente nel mistero, in quella dimensione
indecifrabile che è la vita nel momento in cui viene vissuta.

“Vivemus in speculo et in aenigmate” scriveva S.Paolo.
Viviamo dentro uno specchio costituito da una lamina d’argento in cui si vede e
non si vede, viviamo dentro ad un enigma che solo al morte può risolvere, perché
la morte mettendo termine alla vita, consente ad ognuno di fare i conti con il
suo significato.

Questa conclusione ci rimanda dunque all’incipit della poesia
attraverso un percorso elittico di grande efficacia.

Questo è, per me, il valore funzionale della “Praefatio”.

Non da meno è il “Commiato” che cito per intero, data la sua
brevità: “Poter fermare | quell’attimo | in punta di vita | e ridirti, amica, | immutato
ancora | il mio bene | pur nell’ora più greve | e sentir spuntare | i fiori | in
fremito-risposta”.

Vi è un colloquio che continua oltre la morte, dopo la morte.
Parlare “in punta di vita” vuol dire parlare sul limitare della vita, lungo quel
confine dove la vita passata attraverso la sua fine, fa intuire il suo fine.
Parafrasando : poter fermare quell’attimo in punta di vita e dirti, amica mia,
il bene che provo immutato per te, anche se nell’ora più greve, pesante tanto da
stringere il cuore.

La risposta fremente che si ottiene è di sentire spuntare i
fiori.

Non so se l’autrice avesse in mente, quando fissò quei versi,
il Pascoli ed il suo riferimento all’erba che cresce sulle fosse. I fiori, ben
più dell’erba, spuntando dalla terra in cui riposa chi ci ha lasciato,
rappresentano la risposta ad un invito, ed il colloquio continua al di là della
vita e della morte.

Così il “Commiato” chiude in maniera intensa e suggestiva il
percorso che la “Praefatio” apre.

Sono imbarazzato ed indeciso nel dover scegliere tra le
poesie della raccolta. La raccolta, costruita attorno agli ordinati frammenti
della memoria, è articolato in due grandi parti: parte I “Il nostro tenero
tempo”, parte II “Il nostro tempo maturo”. I ricordi si svolgono lungo un
percorso cronologico e raggruppati a tema. Ma vi sono due fili che tutti li
trapassano.

Il primo filo è costituito da un elemento retorico, citato
anche nella dottissima introduzione del curatore della silloge poetica. E’ “la
rossa criniera”. Si tratta di una sineddoche, ossia di quel meccanismo
metonimico per cui si indica il tutto ( in questo caso l’amica ) attraverso un
suo tratto caratteristico. Ma perché, potendo scegliere tra centinaia di
particolari, l’autrice ha scelto “rossa criniera”?

L’aggettivo rosso corrisponde alla realtà storica. Criniera è
il termine scelto tra una vasta gamma di sinonimi ( chioma, capigliatura, taglio
di capelli, acconciatura), forse perché indica qualcosa di naturale, di non
curato, espressione esterna di quanto di più naturale esista, nello stato
d’animo, nella psiche profonda della persona. Questa parola, questo vocabolo
così primordiale e selvaggio serve ad esprimere il moto naturale del cuore che
irradia un fascio di luce sull’episodio, sul frammento memorante in cui l’amica
vive. Così la rossa criniera, divenuta “frizzante”, “docente”, “smarrita”,
“radiosa”, “in maschera”, “amorosa”, “pudica”, illumina di luce speciale il
senso compiuto della frase e dell’intera poesia.

Ora la “rossa criniera” è soggetto della frase, ora diventa
una sorta di ablativo assoluto che, attraverso la sospensione, getta un fascio
di luce speciale sul relitto che la memoria tende a far galleggiare.

La criniera e soprattutto l’aggettivo che ad essa si
accompagna svolgono la stessa funzione che svolge la fonte di luce in campo
fotografico. Nella fotografia, infatti, la luce diventa l’elemento essenziale
per dare senso e significato agli oggetti fotografati.

L’aggettivo, infatti, getta sul ricordo un fascio di luce
tale da mettere in evidenza alcune valenze interpretative, che sono proprie
dello stato d’animo della protagonista nel viverle e dell’autrice nel riviverle.
Interessante per questo l’ultima poesia in cui la sineddoche viene utilizzata.
In essa l’aggettivo che connota la “criniera” è “arresa”. E’ la quartultima
poesia dell’intera silloge, eppure già emergono tra i ricordi i segni
premonitori di quanto sarebbe avvenuto : della morte. Come se la vivacità, la
voglia di vivere fossero già cessate ancor prima dell’evento improvviso ed un
odore di morte traspirasse dai gesti e degli atti evocati dalla memoria.

Il secondo filo è espresso dal verbo lavare, anzi lavava (
indicativo imperfetto del verbo ). Tra tutte di notevole interesse è la poesia :
“E lavava lavava | lavava all’onda dei ricordi | quel mite angolo agreste…”. Poesia,
in qualche modo, storica, come la successiva, perché evoca i momenti
dell’insegnamento quando “L’Aberti” si trovava a Villa Rigoni e l’asina veniva
ad illuminare la giornata degli alunni e degli insegnanti : “lavava d’umano
l’incontro | più maturo più acerbo | in parole d’aria e sole | con le mani
recitando | tutto il suo ardore | la rossa criniera frizzante | pur agitato il buio
bambino. | E s’apriva confidenza | come corolla a primavera | nel bucolico spazio
là | un po’ fuori dalla terra | con l’asina sempre al balcone | con gli allievi quasi
amici | la mente vivace e chiari disegni | in quel desueto istituto | d’un tempo ora
come remoto. | Ma è solo al nettare-ricordo | o forse è alla luce oggi miope | che noi
loro tutti allora | s’andava più innocenti?”

E’ una poesia-segno, una poesia-indicazione. Non a casa
riportata anche in quarta di copertina. Sopra tutto galleggia una domanda,
essenziale rispetto ai temi affrontati: il ricordo è un nettare che addolcisce
la vita o esiste una differenza reale tra il buon tempo andato ed il duro
presente ?

Domanda non retorica che viene collegata ad altre
domande-emozioni dal verbo “lavare”. Verbo che viene ripetuto in moltissime
poesie ove forma un incipit, per tre volte ripetuto.

Il tempo verbale utilizzato non è il passato remoto ( lavò )
che indica un’azione chiusa nel passato, bensì l’imperfetto che è frequentativo,
iterativo ( continuava a lavare ). A questa scelta si aggiunge l’uso della
ripetizione ( lavava, lavava, lavava ) che proietta e riconduce la poesia alla
struttura a salterio delle più antiche poesie della nostra tradizione
letteraria.

Il pensiero va al “Cantico di frate sole” di Francesco
d’Assisi e al “Laudato sii, mi Signore,…” che recupera nella lingua volgare la
struttura del salmo propria della tradizione ecclesiastica latina.

Così il termine, in posizione fortissima nella struttura del
verso, si carica di significati altamente poetici a sottolineare un gesto
evocato, una consuetudine consolidata, una cerimonia domestica quotidiana.

Si può solo intuire che cosa due amiche si dicessero sul
lavare: si lavava la biancheria di casa sciorinandola all’aria nei giorni di
sole, si lavavano le tende di casa e soprattutto le si stirava con grande
fatica, si lavava l’occhio di portico davanti all’ingresso imbrattato
dall’inciviltà dei passanti….

Ma questa sorta di mania-smania di lavare era l’espressione
esterna, la proiezione nei gesti di quanto avveniva nel cuore, nell’animo
dell’amica: lo sforzo continuo della ricerca interiore, la spinta a mondarsi dal
superficiale per guadagnare ciò che veramente conta, l’essenziale, ciò che è
unico, il principio che guida la nostra azione, il principio morale.

Tra tutte le poesie che si possono citare al riguardo, voglio
leggere quella a pagina 18 dal titolo “In un vivere insieme cortese” : “lavava
al risveglio i pensieri | pensieri d’amore alla casa | li stendeva al suo
davanzale | poi con calzari di vento | amabile veniva alla scuola | la rossa criniera
docente | i sogni-nonsense di Alice | la dolce follia di Ofelia | ed entrava con passo
di danza | nella stanza della Corona | col bel suono sulle labbra | dal mai obliato
vissuto inglese. | E diceva diceva ai giovani | diceva l’urgenza | d’un vivere insieme
cortese | alla voce di un’etica stella.”

La chiusura ( etica stella ) consegna questa
poesia-ricordo-riflessione al rapporto con l’epitaffio kantiano di cui parlavamo
all’inizio. L’etica stella è il punto fisso, la stella polare che indica la
direzione ed il verso del cammino. E’ il senso del dovere in cui la persona
umana realizza pienamente se stessa. La stella che mai non tramonta, che non è
legata agli stati d’animo, agli interessi di parte, alle convenienze momentanee.
E’ il dovere scritto profondamente in ognuno, dovere che soltanto il coraggio
della ragione e la limpidezza della vita sanno mettere in risalto.

Ancora più esplicita sul tema la poesia di pagina 32 dal
titolo “Dell’uomo nel morbo più solo”: “lavava con mani fiorite | d’umili
viole-umana pietas | l’anima le membra sfiorite | dell’uomo nel morbo più solo | il
più offeso, a suo dire | da sorte non giusta. | Lavava con l’offerta | di filiali
ghirlande | tessute a rose pazienti | chi madre a lei non era, | la rossa criniera
obbidiente | al fuoco-dovere nutrito | dall’imperativo del filosofo | dallo spirito
del tempo, | ma più pativa ad ogni evento | sotto il suo cielo di stelle.”

Questi i due fili che si intrecciano in tutte le poesie della
raccolta: il tema della vita vissuta, tema espresso attraverso la sineddoche ed
il tema dell’imperativo morale, elaborato attraverso l’iterazione “lavava”.

Concludo con una poesia che evocando l’ultimo incontro con
l’amica, presagisce la morte attraverso le tracce di una scena depositata nel
flusso rammemorante, dal titolo “Mi rivivrà ogni momento”: “lavava ogni alito
della mia musa | parola a lei diletta sempre |  – da cifrare-tempo dell’anima
– | diceva nell’incontro tra noi | più raro ma ancora vermiglio. | E su balaustre di
giacinti | struggente ultimo dono augurale | posavamo in volo interiore | tremori
speranze promesse | dal cuore-mia terra raccolte | perché al tepore del ricordo
| Lei
mi rivivrà ogni momento | come in un’infinita primavera | colore-odore di quei
grappoli | pegno-impegno d’amicizia | profumo benedetto ancora sempre | che vola alto
oltre il vento | della brughiera d’inverno | e non si sperde:”

Che cosa rimane dell’amica ? Il profumo benedetto oltre la
brughiera d’inverno ( la morte ). Ma è un profumo che non si perde e non si
sperde, non svanisce attraverso il tempo e la lontananza.

Perché vi è chi ha avuto ed ha la capacità, come
l’amica-autrice, di aspirare quel profumo e distillarlo ancora attraverso la
poesia.