Gerardo Vacana
Prefazione a
Dell’amicizia – My red hair
Gerardo Vacana
Anche se il precedente libro della Daniele Toffanin, Per colli e cieli
insieme, mia euganea terra, ha per protagonista un paesaggio con
figure e il presente un’amica scomparsa, cui quel
paesaggio fa da sfondo, c’è tra i due volumi una
sostanziale continuità: l’uno e l’altro ispirati a un
amore per la propria terra così profondo da identificarsi
con essa, la sua civiltà, i suoi abitanti, l’uno e
l’altro animati da una visione positiva, etica, spirituale della vita, con una
particolare tensione a coglierne il “magico arcano”, il sacro, l’invisibile.
Alla coralità del primo libro succede qui la
concentrazione in un personaggio, che l’autrice non nomina, ma rappresenta con
una sineddoche, un connotato fisico che meglio la caratterizza: «la rossa
criniera», presente nel sottotitolo, che di volta in
volta, chiamata ad esprimere lo stato d’animo predominante, diviene frizzante,
radiosa, amorosa, pudica, danzante, incantata, operosa, lucente, euforica, anche
smarrita, snervata, strappata, ma con forte prevalenza dei momenti positivi. Il
nuovo libro è il poema dell’amicizia (giusta il titolo),
la rievocazione a caldo, sull’onda ancora dell’emozione e del dolore, di uno
straordinario personaggio, colto nei suoi momenti piu significativi di docente,
di sposa, di madre, di amica, diversa e sempre identica nel suo carattere tenero
e ardente, profondamente innamorata della vita. È un’amica con cui l’autrice ha vissuto in simbiosi
per trent’anni, condividendone gioie, entusiasmi, speranze, ansie e delusioni,
soprattutto per il rapido degradarsi di un costume e di una civiltà
tra le più umane e raffinate, come la veneta.
Il libro, diviso in due parti: “Il nostro tenero
tempo” e “Il nostro tempo maturo”, composte di cinque
sezioni ciascuna, si annuncia sin dalla Praefatio come lo spartito di una
composizione musicale, dove prevalgono note di gioia e di luce:
«Evocate al bulino del dolore | dire amica di ore
nostre glissate | tra sabbia di clessidra
| note lucenti d’amicizia | […] emerse
| vive per questo mio spartito |
che in ogni rigo di noi insieme |
si sente il suono della gioia, | […] e di chiari
accordi d’acqua | dal mare dei tuoi gesti
| dal profondo tuo inquisire | segni d’un nobile
lavare | che ancora da nitore | ai
tuoi diletti spazi | al tuo sentire di cristallo.»
(p. 11).
Nella prima composizione l’autrice ribadisce il carattere orfico della sua
poesia: «Non è vano andare al luogo delle ombre
| e con loro loquire a cuore aperto, |
e fermento che ritorna | nel cammino della storia
| ardore mai sopito | che dal
silenzio viene | e in noi si fa parolamemoria
| luce […]» (p. 15).
Nella seconda lirica sottolinea fortemente, con la ripetizione del verbo
lavare (tra le parole-chiave del libro), l’anelito dell’amica alla limpidezza,
alla pulizia fisica e morale, già affermato nella
Praefatio e leitmotiv del volume, insieme all’«endemica
sete di vero» (altrove: «ansia del
vero», «ricerca del vero»).
Nella stessa composizione si canta «quel mite angolo
agreste | dimora d’umana cultura»,
dove fiorì «raro il seme
dell’amicizia | nel tempo diramata |
in presenza una nell’altra». E il «bucolico
spazio» della scuola immersa nella campagna euganea, con
un’asina che poggiava il muso sul davanzale della finestra a pian terreno,
«con gli allievi quasi amici | la
mente vivace e chiari disegni». In questo profondo amore
per la campagna, in questo vagheggiare o rimpiangere
un’Arcadia perduta, che sono un patrimonio genetico di ogni scrittore o artista
veneto (si pensi anche a certe sculture di Arturo Martini), si avverte ancora
fruttuosa l’eredità del Nievo, come in ogni figura
fernminile creata da quella letteratura fa capolino qualcosa della Pisana.
Ai giovani la docente «diceva l’urgenza
| d’un vivere insieme cortese |
alla voce di un’etica stella». Umanità,
cortesia, eticità, sono i valori che accomunano docenti,
discenti e contesto sociale, a formare un’armonia, di cui è
elemento attivo anche la natura. Si leggano, a questo proposito, le tre liriche
della Leggenda agordina. «Mai ci fu ora d’amicizia
| uguale tra noi e la natura»,
come in un’esperienza vissuta insieme con ragazzi ed amici, appunto, sulle
Dolomiti agordine. La purificazione di ogni pensiero
preoccupazione costante delle due amiche si realizza a
contatto con l’innocenza delle cose, con la verità dei
primordi (altra grande intuizione del libro), come nella «sfera
d’armonia» che regna su quei monti.
Si torna spesso nel libro sull’intreccio del binomio gentilezza ed etica,
passione (fuoco interiore) e dovere, poesia e sofia, a colorare più
intensamente il «tenero tempo» la
prima, il «tempo maturo» la
seconda. In un’opera caratterizzata da un lirismo nutrito di pensiero e di
eticità, non poteva mancare una sezione dedicata
all’enigma della presenza del male, del «non giusto»
nella vita di ognuno e nel mondo, ed è questa sezione a
chiudere la prima parte del libro.
Nella seconda parte prevalgono, come ambientazione, interni e spazi urbani di
Padova. E analogamente a quanto accade per la campagna, c’è
rimpianto sincero per la scomparsa di antichi costumi e di una certa patavinità,
così cara alle due amiche: «lavava le vecchie
botteghe | vivaci intarsi allora di vita
| battito ora spento di patavinita | accendendo
due tre parole | di melodiosa cadenza |
la con la gente semplice | delle piazze sotto il salone.
| […] lavava vicoli angoli |
spazi d’umbratili silenzi | lastricati d’ogni fattura
| dissacrati con dismisura | la
rossa criniera indignata | all’assenza d’urbano decoro
| d’un tempo troppo arrogante.»
(p. 45).
Senza essere femminista, anzi puntando tutto sul recupero della grazia e
della tenerezza, che sono caratteri insopprimibili della donna, questo libro
è anche un inno all’energia femminile, che in India
chiamano shakti, qui simboleggiata dalle «ali ai
piedi», dal «passo di danza»,
dall’«ebbrezza della danza»
dell’amica. E si sa che la danza consente di esprimere non solo sentimenti ed
emozioni, ma anche spiritualità, accostandoci all’anima
delle cose per cogliere il senso del cosmo. «E lavava
lavava | lavava le mani gentili |
come mattinale catarsi | fugate al lucore le ombre
| per nuova energia alle ore. |
Metteva gli anelli suo vezzo | con rapido tocco al
mantello | alla rossa criniera arresa |
ai suoi calzari i più alati». (p.
53). Anche l’amicizia è intesa come movimento ed energia:
«amicizia-slancio di campana |
ch’esplode di suoni un mattino | e l’eco vive per sempre».
E il rapporto con le cose è inteso come fatto vivo,
attivo, reattivo: «E nell’armonia tra sé
e le cose | rinnovava l’interiore percorso
| nel sogno dei fiori | nell’ansia
del vero | nell’urto con gli eventi |
sempre vestale nel tempio | della parola ardente.» (p.
46).
II libro si chiude nel segno (alto) del Foscolo, già
alluso nel ricordo delle «luminose vendemmie»,
nella vigna dello sposo e al tempo della festosa raccolta; ma soprattutto per la
certezza che «al tepore del ricordo |
Lei mi rivivrà ogni momento
| come in un’infinita primavera |
colore-odore di quei grappoli | pegno-impegno d’amicizia
| profumo benedetto ancora sempre |
che vola alto oltre il vento |
della brughiera d’inverno | e non si sperde.»
(p. 55).
Se tematicamente tra il precedente volume e il presente c’è
affinità, sotto il profilo delle scelte di stile e di
lingua la loro identità è totale.
Anche in Dell’amicizia continua il rifiuto della poesia pura e
dell’ermetismo, che con le loro costrizioni, rinunce, tagli, autocensure, hanno
prodotto tante pagine «cicatricose ed esangui», per dirla
con Quintiliano. Nessun pregiudizio, nell’autrice, ai danni dell’esplicito, del
troppo detto, nessun freno alle espansioni, bensì un
fidente, entusiastico abbandono alla piena degli affetti, ai voli arditi della
fantasia, agli slanci in avanti della speranza e dell’utopia. Ciò
reclama uno spiegamento di mezzi espressivi abbondante, a tutto campo, che
coinvolge le sostanze, le qualità e le azioni. Donde il
plurilinguismo, la presenza di neologismi e di arcaismi, la contiguità
di lessico alto e di più basso profilo, le ridondanze, le
iterazioni, le parole composte anche di tre sostantivi, le invenzioni ardite che
rompono tutti gli schemi e i nessi logici del discorso. È
un’opera che musicalmente e pittoricamente si affida alla ricchezza, alla varietà
dei colori e dei toni, più che alla nettezza del disegno
e del segno. Il risultato di tanta libertà e di tanto
azzardo è quello di un innegabile arricchimento
espressivo e di un’invenzione poetica che traccia percorsi inconsueti,
originali, nuovi.
8 aprile 2004
Prefazione a
Dell’amicizia – My red hair
Gerardo Vacana
Anche se il precedente libro della Daniele Toffanin, Per colli e cieli
insieme, mia euganea terra, ha per protagonista un paesaggio con
figure e il presente un’amica scomparsa, cui quel
paesaggio fa da sfondo, c’è tra i due volumi una
sostanziale continuità: l’uno e l’altro ispirati a un
amore per la propria terra così profondo da identificarsi
con essa, la sua civiltà, i suoi abitanti, l’uno e
l’altro animati da una visione positiva, etica, spirituale della vita, con una
particolare tensione a coglierne il “magico arcano”, il sacro, l’invisibile.
Alla coralità del primo libro succede qui la
concentrazione in un personaggio, che l’autrice non nomina, ma rappresenta con
una sineddoche, un connotato fisico che meglio la caratterizza: «la rossa
criniera», presente nel sottotitolo, che di volta in
volta, chiamata ad esprimere lo stato d’animo predominante, diviene frizzante,
radiosa, amorosa, pudica, danzante, incantata, operosa, lucente, euforica, anche
smarrita, snervata, strappata, ma con forte prevalenza dei momenti positivi. Il
nuovo libro è il poema dell’amicizia (giusta il titolo),
la rievocazione a caldo, sull’onda ancora dell’emozione e del dolore, di uno
straordinario personaggio, colto nei suoi momenti piu significativi di docente,
di sposa, di madre, di amica, diversa e sempre identica nel suo carattere tenero
e ardente, profondamente innamorata della vita. È un’amica con cui l’autrice ha vissuto in simbiosi
per trent’anni, condividendone gioie, entusiasmi, speranze, ansie e delusioni,
soprattutto per il rapido degradarsi di un costume e di una civiltà
tra le più umane e raffinate, come la veneta.
Il libro, diviso in due parti: “Il nostro tenero
tempo” e “Il nostro tempo maturo”, composte di cinque
sezioni ciascuna, si annuncia sin dalla Praefatio come lo spartito di una
composizione musicale, dove prevalgono note di gioia e di luce:
«Evocate al bulino del dolore | dire amica di ore
nostre glissate | tra sabbia di clessidra
| note lucenti d’amicizia | […] emerse
| vive per questo mio spartito |
che in ogni rigo di noi insieme |
si sente il suono della gioia, | […] e di chiari
accordi d’acqua | dal mare dei tuoi gesti
| dal profondo tuo inquisire | segni d’un nobile
lavare | che ancora da nitore | ai
tuoi diletti spazi | al tuo sentire di cristallo.»
(p. 11).
Nella prima composizione l’autrice ribadisce il carattere orfico della sua
poesia: «Non è vano andare al luogo delle ombre
| e con loro loquire a cuore aperto, |
e fermento che ritorna | nel cammino della storia
| ardore mai sopito | che dal
silenzio viene | e in noi si fa parolamemoria
| luce […]» (p. 15).
Nella seconda lirica sottolinea fortemente, con la ripetizione del verbo
lavare (tra le parole-chiave del libro), l’anelito dell’amica alla limpidezza,
alla pulizia fisica e morale, già affermato nella
Praefatio e leitmotiv del volume, insieme all’«endemica
sete di vero» (altrove: «ansia del
vero», «ricerca del vero»).
Nella stessa composizione si canta «quel mite angolo
agreste | dimora d’umana cultura»,
dove fiorì «raro il seme
dell’amicizia | nel tempo diramata |
in presenza una nell’altra». E il «bucolico
spazio» della scuola immersa nella campagna euganea, con
un’asina che poggiava il muso sul davanzale della finestra a pian terreno,
«con gli allievi quasi amici | la
mente vivace e chiari disegni». In questo profondo amore
per la campagna, in questo vagheggiare o rimpiangere
un’Arcadia perduta, che sono un patrimonio genetico di ogni scrittore o artista
veneto (si pensi anche a certe sculture di Arturo Martini), si avverte ancora
fruttuosa l’eredità del Nievo, come in ogni figura
fernminile creata da quella letteratura fa capolino qualcosa della Pisana.
Ai giovani la docente «diceva l’urgenza
| d’un vivere insieme cortese |
alla voce di un’etica stella». Umanità,
cortesia, eticità, sono i valori che accomunano docenti,
discenti e contesto sociale, a formare un’armonia, di cui è
elemento attivo anche la natura. Si leggano, a questo proposito, le tre liriche
della Leggenda agordina. «Mai ci fu ora d’amicizia
| uguale tra noi e la natura»,
come in un’esperienza vissuta insieme con ragazzi ed amici, appunto, sulle
Dolomiti agordine. La purificazione di ogni pensiero
preoccupazione costante delle due amiche si realizza a
contatto con l’innocenza delle cose, con la verità dei
primordi (altra grande intuizione del libro), come nella «sfera
d’armonia» che regna su quei monti.
Si torna spesso nel libro sull’intreccio del binomio gentilezza ed etica,
passione (fuoco interiore) e dovere, poesia e sofia, a colorare più
intensamente il «tenero tempo» la
prima, il «tempo maturo» la
seconda. In un’opera caratterizzata da un lirismo nutrito di pensiero e di
eticità, non poteva mancare una sezione dedicata
all’enigma della presenza del male, del «non giusto»
nella vita di ognuno e nel mondo, ed è questa sezione a
chiudere la prima parte del libro.
Nella seconda parte prevalgono, come ambientazione, interni e spazi urbani di
Padova. E analogamente a quanto accade per la campagna, c’è
rimpianto sincero per la scomparsa di antichi costumi e di una certa patavinità,
così cara alle due amiche: «lavava le vecchie
botteghe | vivaci intarsi allora di vita
| battito ora spento di patavinita | accendendo
due tre parole | di melodiosa cadenza |
la con la gente semplice | delle piazze sotto il salone.
| […] lavava vicoli angoli |
spazi d’umbratili silenzi | lastricati d’ogni fattura
| dissacrati con dismisura | la
rossa criniera indignata | all’assenza d’urbano decoro
| d’un tempo troppo arrogante.»
(p. 45).
Senza essere femminista, anzi puntando tutto sul recupero della grazia e
della tenerezza, che sono caratteri insopprimibili della donna, questo libro
è anche un inno all’energia femminile, che in India
chiamano shakti, qui simboleggiata dalle «ali ai
piedi», dal «passo di danza»,
dall’«ebbrezza della danza»
dell’amica. E si sa che la danza consente di esprimere non solo sentimenti ed
emozioni, ma anche spiritualità, accostandoci all’anima
delle cose per cogliere il senso del cosmo. «E lavava
lavava | lavava le mani gentili |
come mattinale catarsi | fugate al lucore le ombre
| per nuova energia alle ore. |
Metteva gli anelli suo vezzo | con rapido tocco al
mantello | alla rossa criniera arresa |
ai suoi calzari i più alati». (p.
53). Anche l’amicizia è intesa come movimento ed energia:
«amicizia-slancio di campana |
ch’esplode di suoni un mattino | e l’eco vive per sempre».
E il rapporto con le cose è inteso come fatto vivo,
attivo, reattivo: «E nell’armonia tra sé
e le cose | rinnovava l’interiore percorso
| nel sogno dei fiori | nell’ansia
del vero | nell’urto con gli eventi |
sempre vestale nel tempio | della parola ardente.» (p.
46).
II libro si chiude nel segno (alto) del Foscolo, già
alluso nel ricordo delle «luminose vendemmie»,
nella vigna dello sposo e al tempo della festosa raccolta; ma soprattutto per la
certezza che «al tepore del ricordo |
Lei mi rivivrà ogni momento
| come in un’infinita primavera |
colore-odore di quei grappoli | pegno-impegno d’amicizia
| profumo benedetto ancora sempre |
che vola alto oltre il vento |
della brughiera d’inverno | e non si sperde.»
(p. 55).
Se tematicamente tra il precedente volume e il presente c’è
affinità, sotto il profilo delle scelte di stile e di
lingua la loro identità è totale.
Anche in Dell’amicizia continua il rifiuto della poesia pura e
dell’ermetismo, che con le loro costrizioni, rinunce, tagli, autocensure, hanno
prodotto tante pagine «cicatricose ed esangui», per dirla
con Quintiliano. Nessun pregiudizio, nell’autrice, ai danni dell’esplicito, del
troppo detto, nessun freno alle espansioni, bensì un
fidente, entusiastico abbandono alla piena degli affetti, ai voli arditi della
fantasia, agli slanci in avanti della speranza e dell’utopia. Ciò
reclama uno spiegamento di mezzi espressivi abbondante, a tutto campo, che
coinvolge le sostanze, le qualità e le azioni. Donde il
plurilinguismo, la presenza di neologismi e di arcaismi, la contiguità
di lessico alto e di più basso profilo, le ridondanze, le
iterazioni, le parole composte anche di tre sostantivi, le invenzioni ardite che
rompono tutti gli schemi e i nessi logici del discorso. È
un’opera che musicalmente e pittoricamente si affida alla ricchezza, alla varietà
dei colori e dei toni, più che alla nettezza del disegno
e del segno. Il risultato di tanta libertà e di tanto
azzardo è quello di un innegabile arricchimento
espressivo e di un’invenzione poetica che traccia percorsi inconsueti,
originali, nuovi.
8 aprile 2004
Prefazione a
Dell’amicizia – My red hair
Gerardo Vacana
Anche se il precedente libro della Daniele Toffanin, Per colli e cieli
insieme, mia euganea terra, ha per protagonista un paesaggio con
figure e il presente un’amica scomparsa, cui quel
paesaggio fa da sfondo, c’è tra i due volumi una
sostanziale continuità: l’uno e l’altro ispirati a un
amore per la propria terra così profondo da identificarsi
con essa, la sua civiltà, i suoi abitanti, l’uno e
l’altro animati da una visione positiva, etica, spirituale della vita, con una
particolare tensione a coglierne il “magico arcano”, il sacro, l’invisibile.
Alla coralità del primo libro succede qui la
concentrazione in un personaggio, che l’autrice non nomina, ma rappresenta con
una sineddoche, un connotato fisico che meglio la caratterizza: «la rossa
criniera», presente nel sottotitolo, che di volta in
volta, chiamata ad esprimere lo stato d’animo predominante, diviene frizzante,
radiosa, amorosa, pudica, danzante, incantata, operosa, lucente, euforica, anche
smarrita, snervata, strappata, ma con forte prevalenza dei momenti positivi. Il
nuovo libro è il poema dell’amicizia (giusta il titolo),
la rievocazione a caldo, sull’onda ancora dell’emozione e del dolore, di uno
straordinario personaggio, colto nei suoi momenti piu significativi di docente,
di sposa, di madre, di amica, diversa e sempre identica nel suo carattere tenero
e ardente, profondamente innamorata della vita. È un’amica con cui l’autrice ha vissuto in simbiosi
per trent’anni, condividendone gioie, entusiasmi, speranze, ansie e delusioni,
soprattutto per il rapido degradarsi di un costume e di una civiltà
tra le più umane e raffinate, come la veneta.
Il libro, diviso in due parti: “Il nostro tenero
tempo” e “Il nostro tempo maturo”, composte di cinque
sezioni ciascuna, si annuncia sin dalla Praefatio come lo spartito di una
composizione musicale, dove prevalgono note di gioia e di luce:
«Evocate al bulino del dolore | dire amica di ore
nostre glissate | tra sabbia di clessidra
| note lucenti d’amicizia | […] emerse
| vive per questo mio spartito |
che in ogni rigo di noi insieme |
si sente il suono della gioia, | […] e di chiari
accordi d’acqua | dal mare dei tuoi gesti
| dal profondo tuo inquisire | segni d’un nobile
lavare | che ancora da nitore | ai
tuoi diletti spazi | al tuo sentire di cristallo.»
(p. 11).
Nella prima composizione l’autrice ribadisce il carattere orfico della sua
poesia: «Non è vano andare al luogo delle ombre
| e con loro loquire a cuore aperto, |
e fermento che ritorna | nel cammino della storia
| ardore mai sopito | che dal
silenzio viene | e in noi si fa parolamemoria
| luce […]» (p. 15).
Nella seconda lirica sottolinea fortemente, con la ripetizione del verbo
lavare (tra le parole-chiave del libro), l’anelito dell’amica alla limpidezza,
alla pulizia fisica e morale, già affermato nella
Praefatio e leitmotiv del volume, insieme all’«endemica
sete di vero» (altrove: «ansia del
vero», «ricerca del vero»).
Nella stessa composizione si canta «quel mite angolo
agreste | dimora d’umana cultura»,
dove fiorì «raro il seme
dell’amicizia | nel tempo diramata |
in presenza una nell’altra». E il «bucolico
spazio» della scuola immersa nella campagna euganea, con
un’asina che poggiava il muso sul davanzale della finestra a pian terreno,
«con gli allievi quasi amici | la
mente vivace e chiari disegni». In questo profondo amore
per la campagna, in questo vagheggiare o rimpiangere
un’Arcadia perduta, che sono un patrimonio genetico di ogni scrittore o artista
veneto (si pensi anche a certe sculture di Arturo Martini), si avverte ancora
fruttuosa l’eredità del Nievo, come in ogni figura
fernminile creata da quella letteratura fa capolino qualcosa della Pisana.
Ai giovani la docente «diceva l’urgenza
| d’un vivere insieme cortese |
alla voce di un’etica stella». Umanità,
cortesia, eticità, sono i valori che accomunano docenti,
discenti e contesto sociale, a formare un’armonia, di cui è
elemento attivo anche la natura. Si leggano, a questo proposito, le tre liriche
della Leggenda agordina. «Mai ci fu ora d’amicizia
| uguale tra noi e la natura»,
come in un’esperienza vissuta insieme con ragazzi ed amici, appunto, sulle
Dolomiti agordine. La purificazione di ogni pensiero
preoccupazione costante delle due amiche si realizza a
contatto con l’innocenza delle cose, con la verità dei
primordi (altra grande intuizione del libro), come nella «sfera
d’armonia» che regna su quei monti.
Si torna spesso nel libro sull’intreccio del binomio gentilezza ed etica,
passione (fuoco interiore) e dovere, poesia e sofia, a colorare più
intensamente il «tenero tempo» la
prima, il «tempo maturo» la
seconda. In un’opera caratterizzata da un lirismo nutrito di pensiero e di
eticità, non poteva mancare una sezione dedicata
all’enigma della presenza del male, del «non giusto»
nella vita di ognuno e nel mondo, ed è questa sezione a
chiudere la prima parte del libro.
Nella seconda parte prevalgono, come ambientazione, interni e spazi urbani di
Padova. E analogamente a quanto accade per la campagna, c’è
rimpianto sincero per la scomparsa di antichi costumi e di una certa patavinità,
così cara alle due amiche: «lavava le vecchie
botteghe | vivaci intarsi allora di vita
| battito ora spento di patavinita | accendendo
due tre parole | di melodiosa cadenza |
la con la gente semplice | delle piazze sotto il salone.
| […] lavava vicoli angoli |
spazi d’umbratili silenzi | lastricati d’ogni fattura
| dissacrati con dismisura | la
rossa criniera indignata | all’assenza d’urbano decoro
| d’un tempo troppo arrogante.»
(p. 45).
Senza essere femminista, anzi puntando tutto sul recupero della grazia e
della tenerezza, che sono caratteri insopprimibili della donna, questo libro
è anche un inno all’energia femminile, che in India
chiamano shakti, qui simboleggiata dalle «ali ai
piedi», dal «passo di danza»,
dall’«ebbrezza della danza»
dell’amica. E si sa che la danza consente di esprimere non solo sentimenti ed
emozioni, ma anche spiritualità, accostandoci all’anima
delle cose per cogliere il senso del cosmo. «E lavava
lavava | lavava le mani gentili |
come mattinale catarsi | fugate al lucore le ombre
| per nuova energia alle ore. |
Metteva gli anelli suo vezzo | con rapido tocco al
mantello | alla rossa criniera arresa |
ai suoi calzari i più alati». (p.
53). Anche l’amicizia è intesa come movimento ed energia:
«amicizia-slancio di campana |
ch’esplode di suoni un mattino | e l’eco vive per sempre».
E il rapporto con le cose è inteso come fatto vivo,
attivo, reattivo: «E nell’armonia tra sé
e le cose | rinnovava l’interiore percorso
| nel sogno dei fiori | nell’ansia
del vero | nell’urto con gli eventi |
sempre vestale nel tempio | della parola ardente.» (p.
46).
II libro si chiude nel segno (alto) del Foscolo, già
alluso nel ricordo delle «luminose vendemmie»,
nella vigna dello sposo e al tempo della festosa raccolta; ma soprattutto per la
certezza che «al tepore del ricordo |
Lei mi rivivrà ogni momento
| come in un’infinita primavera |
colore-odore di quei grappoli | pegno-impegno d’amicizia
| profumo benedetto ancora sempre |
che vola alto oltre il vento |
della brughiera d’inverno | e non si sperde.»
(p. 55).
Se tematicamente tra il precedente volume e il presente c’è
affinità, sotto il profilo delle scelte di stile e di
lingua la loro identità è totale.
Anche in Dell’amicizia continua il rifiuto della poesia pura e
dell’ermetismo, che con le loro costrizioni, rinunce, tagli, autocensure, hanno
prodotto tante pagine «cicatricose ed esangui», per dirla
con Quintiliano. Nessun pregiudizio, nell’autrice, ai danni dell’esplicito, del
troppo detto, nessun freno alle espansioni, bensì un
fidente, entusiastico abbandono alla piena degli affetti, ai voli arditi della
fantasia, agli slanci in avanti della speranza e dell’utopia. Ciò
reclama uno spiegamento di mezzi espressivi abbondante, a tutto campo, che
coinvolge le sostanze, le qualità e le azioni. Donde il
plurilinguismo, la presenza di neologismi e di arcaismi, la contiguità
di lessico alto e di più basso profilo, le ridondanze, le
iterazioni, le parole composte anche di tre sostantivi, le invenzioni ardite che
rompono tutti gli schemi e i nessi logici del discorso. È
un’opera che musicalmente e pittoricamente si affida alla ricchezza, alla varietà
dei colori e dei toni, più che alla nettezza del disegno
e del segno. Il risultato di tanta libertà e di tanto
azzardo è quello di un innegabile arricchimento
espressivo e di un’invenzione poetica che traccia percorsi inconsueti,
originali, nuovi.
8 aprile 2004
Prefazione a
Dell’amicizia – My red hair
Gerardo Vacana
Anche se il precedente libro della Daniele Toffanin, Per colli e cieli
insieme, mia euganea terra, ha per protagonista un paesaggio con
figure e il presente un’amica scomparsa, cui quel
paesaggio fa da sfondo, c’è tra i due volumi una
sostanziale continuità: l’uno e l’altro ispirati a un
amore per la propria terra così profondo da identificarsi
con essa, la sua civiltà, i suoi abitanti, l’uno e
l’altro animati da una visione positiva, etica, spirituale della vita, con una
particolare tensione a coglierne il “magico arcano”, il sacro, l’invisibile.
Alla coralità del primo libro succede qui la
concentrazione in un personaggio, che l’autrice non nomina, ma rappresenta con
una sineddoche, un connotato fisico che meglio la caratterizza: «la rossa
criniera», presente nel sottotitolo, che di volta in
volta, chiamata ad esprimere lo stato d’animo predominante, diviene frizzante,
radiosa, amorosa, pudica, danzante, incantata, operosa, lucente, euforica, anche
smarrita, snervata, strappata, ma con forte prevalenza dei momenti positivi. Il
nuovo libro è il poema dell’amicizia (giusta il titolo),
la rievocazione a caldo, sull’onda ancora dell’emozione e del dolore, di uno
straordinario personaggio, colto nei suoi momenti piu significativi di docente,
di sposa, di madre, di amica, diversa e sempre identica nel suo carattere tenero
e ardente, profondamente innamorata della vita. È un’amica con cui l’autrice ha vissuto in simbiosi
per trent’anni, condividendone gioie, entusiasmi, speranze, ansie e delusioni,
soprattutto per il rapido degradarsi di un costume e di una civiltà
tra le più umane e raffinate, come la veneta.
Il libro, diviso in due parti: “Il nostro tenero
tempo” e “Il nostro tempo maturo”, composte di cinque
sezioni ciascuna, si annuncia sin dalla Praefatio come lo spartito di una
composizione musicale, dove prevalgono note di gioia e di luce:
«Evocate al bulino del dolore | dire amica di ore
nostre glissate | tra sabbia di clessidra
| note lucenti d’amicizia | […] emerse
| vive per questo mio spartito |
che in ogni rigo di noi insieme |
si sente il suono della gioia, | […] e di chiari
accordi d’acqua | dal mare dei tuoi gesti
| dal profondo tuo inquisire | segni d’un nobile
lavare | che ancora da nitore | ai
tuoi diletti spazi | al tuo sentire di cristallo.»
(p. 11).
Nella prima composizione l’autrice ribadisce il carattere orfico della sua
poesia: «Non è vano andare al luogo delle ombre
| e con loro loquire a cuore aperto, |
e fermento che ritorna | nel cammino della storia
| ardore mai sopito | che dal
silenzio viene | e in noi si fa parolamemoria
| luce […]» (p. 15).
Nella seconda lirica sottolinea fortemente, con la ripetizione del verbo
lavare (tra le parole-chiave del libro), l’anelito dell’amica alla limpidezza,
alla pulizia fisica e morale, già affermato nella
Praefatio e leitmotiv del volume, insieme all’«endemica
sete di vero» (altrove: «ansia del
vero», «ricerca del vero»).
Nella stessa composizione si canta «quel mite angolo
agreste | dimora d’umana cultura»,
dove fiorì «raro il seme
dell’amicizia | nel tempo diramata |
in presenza una nell’altra». E il «bucolico
spazio» della scuola immersa nella campagna euganea, con
un’asina che poggiava il muso sul davanzale della finestra a pian terreno,
«con gli allievi quasi amici | la
mente vivace e chiari disegni». In questo profondo amore
per la campagna, in questo vagheggiare o rimpiangere
un’Arcadia perduta, che sono un patrimonio genetico di ogni scrittore o artista
veneto (si pensi anche a certe sculture di Arturo Martini), si avverte ancora
fruttuosa l’eredità del Nievo, come in ogni figura
fernminile creata da quella letteratura fa capolino qualcosa della Pisana.
Ai giovani la docente «diceva l’urgenza
| d’un vivere insieme cortese |
alla voce di un’etica stella». Umanità,
cortesia, eticità, sono i valori che accomunano docenti,
discenti e contesto sociale, a formare un’armonia, di cui è
elemento attivo anche la natura. Si leggano, a questo proposito, le tre liriche
della Leggenda agordina. «Mai ci fu ora d’amicizia
| uguale tra noi e la natura»,
come in un’esperienza vissuta insieme con ragazzi ed amici, appunto, sulle
Dolomiti agordine. La purificazione di ogni pensiero
preoccupazione costante delle due amiche si realizza a
contatto con l’innocenza delle cose, con la verità dei
primordi (altra grande intuizione del libro), come nella «sfera
d’armonia» che regna su quei monti.
Si torna spesso nel libro sull’intreccio del binomio gentilezza ed etica,
passione (fuoco interiore) e dovere, poesia e sofia, a colorare più
intensamente il «tenero tempo» la
prima, il «tempo maturo» la
seconda. In un’opera caratterizzata da un lirismo nutrito di pensiero e di
eticità, non poteva mancare una sezione dedicata
all’enigma della presenza del male, del «non giusto»
nella vita di ognuno e nel mondo, ed è questa sezione a
chiudere la prima parte del libro.
Nella seconda parte prevalgono, come ambientazione, interni e spazi urbani di
Padova. E analogamente a quanto accade per la campagna, c’è
rimpianto sincero per la scomparsa di antichi costumi e di una certa patavinità,
così cara alle due amiche: «lavava le vecchie
botteghe | vivaci intarsi allora di vita
| battito ora spento di patavinita | accendendo
due tre parole | di melodiosa cadenza |
la con la gente semplice | delle piazze sotto il salone.
| […] lavava vicoli angoli |
spazi d’umbratili silenzi | lastricati d’ogni fattura
| dissacrati con dismisura | la
rossa criniera indignata | all’assenza d’urbano decoro
| d’un tempo troppo arrogante.»
(p. 45).
Senza essere femminista, anzi puntando tutto sul recupero della grazia e
della tenerezza, che sono caratteri insopprimibili della donna, questo libro
è anche un inno all’energia femminile, che in India
chiamano shakti, qui simboleggiata dalle «ali ai
piedi», dal «passo di danza»,
dall’«ebbrezza della danza»
dell’amica. E si sa che la danza consente di esprimere non solo sentimenti ed
emozioni, ma anche spiritualità, accostandoci all’anima
delle cose per cogliere il senso del cosmo. «E lavava
lavava | lavava le mani gentili |
come mattinale catarsi | fugate al lucore le ombre
| per nuova energia alle ore. |
Metteva gli anelli suo vezzo | con rapido tocco al
mantello | alla rossa criniera arresa |
ai suoi calzari i più alati». (p.
53). Anche l’amicizia è intesa come movimento ed energia:
«amicizia-slancio di campana |
ch’esplode di suoni un mattino | e l’eco vive per sempre».
E il rapporto con le cose è inteso come fatto vivo,
attivo, reattivo: «E nell’armonia tra sé
e le cose | rinnovava l’interiore percorso
| nel sogno dei fiori | nell’ansia
del vero | nell’urto con gli eventi |
sempre vestale nel tempio | della parola ardente.» (p.
46).
II libro si chiude nel segno (alto) del Foscolo, già
alluso nel ricordo delle «luminose vendemmie»,
nella vigna dello sposo e al tempo della festosa raccolta; ma soprattutto per la
certezza che «al tepore del ricordo |
Lei mi rivivrà ogni momento
| come in un’infinita primavera |
colore-odore di quei grappoli | pegno-impegno d’amicizia
| profumo benedetto ancora sempre |
che vola alto oltre il vento |
della brughiera d’inverno | e non si sperde.»
(p. 55).
Se tematicamente tra il precedente volume e il presente c’è
affinità, sotto il profilo delle scelte di stile e di
lingua la loro identità è totale.
Anche in Dell’amicizia continua il rifiuto della poesia pura e
dell’ermetismo, che con le loro costrizioni, rinunce, tagli, autocensure, hanno
prodotto tante pagine «cicatricose ed esangui», per dirla
con Quintiliano. Nessun pregiudizio, nell’autrice, ai danni dell’esplicito, del
troppo detto, nessun freno alle espansioni, bensì un
fidente, entusiastico abbandono alla piena degli affetti, ai voli arditi della
fantasia, agli slanci in avanti della speranza e dell’utopia. Ciò
reclama uno spiegamento di mezzi espressivi abbondante, a tutto campo, che
coinvolge le sostanze, le qualità e le azioni. Donde il
plurilinguismo, la presenza di neologismi e di arcaismi, la contiguità
di lessico alto e di più basso profilo, le ridondanze, le
iterazioni, le parole composte anche di tre sostantivi, le invenzioni ardite che
rompono tutti gli schemi e i nessi logici del discorso. È
un’opera che musicalmente e pittoricamente si affida alla ricchezza, alla varietà
dei colori e dei toni, più che alla nettezza del disegno
e del segno. Il risultato di tanta libertà e di tanto
azzardo è quello di un innegabile arricchimento
espressivo e di un’invenzione poetica che traccia percorsi inconsueti,
originali, nuovi.
8 aprile 2004