Fragmenta… Presentazione

Presentazione del volume
Fragmenta

Mario Richter
Padova, 22 marzo 2007 – Sala Rossini del Caffè Pedrocchi

Come accostarci
a questo nuovo libro di poesie offerto alla nostra attenzione da Maria Luisa
Daniele Toffanin? Comincerei
proprio dal titolo, che ci propone una parola latina: Fragmenta.
Nonostante il deprecato declino del latino, non mi sembra difficile per nessuno
(e specie per il lettore di un libro di poesie) capirne il significato.

E’ un titolo
che, per quanto riguarda il suo significato, dovrebbe avvertire il lettore circa
le non grandi pretese del libro: la parola Fragmenta annuncia infatti,
con indubbia modestia, non un’opera organica, ma soltanto dei pezzi, dei
frammenti, o magari niente più che degli avanzi, dei rottami, o
anche delle rovine, evidentemente di un oggetto unitario scomparso, di
un’opera compiuta e organica andata appunto in frantumi.

Tuttavia, se
consideriamo la forma di questo titolo, ciò che effettivamente nel suo
significato promette soltanto, come ho detto, quanto resta di un’opera intera
andata in rovina rinvia nello stesso tempo a qualcosa di molto alto e
prestigioso: rinvia nientemeno che al titolo del Canzoniere del Petrarca,
il titolo colto, che è Rerum vulgarium fragmenta.

Se poi apriamo
il libro, il testo liminare che subito incontriamo ha anch’esso un titolo in
latino: Introibo. A nessun lettore
che oggi abbia una certa età può sfuggire che questa parola (un verbo) ci
riporta direttamente, prima ancora che al quarto versetto del salmo 43, alla
formula di apertura della messa nella sua forma tradizionale, formula che
comporta l’esplicito riferimento alla divinità (Introibo ad altare Dei).

Questo
riferimento alla liturgia eucaristica in latino (abbandonata nel 1964, non senza
aspri contrasti, col Concilio Vaticano Secondo) porta con sé, fin dall’inizio,
una certa nota di ricupero, di ritorno al passato, una sottile delicata venatura
di rimpianto, anche se bisogna riconoscere che esiste (o è esistita)
l’espressione laica “fare l’introibo” per dire semplicemente che “si entra in
discorso”.

Dunque, per
queste due iniziali ragioni, il libro della Toffanin ci porta subito su un piano
sicuramente alto, arriverei a dire persino un po’ ardito, voglio dire
compromettente (rischioso), poiché instaura un inevitabile rapporto, in primo
luogo, addirittura con il grande capostipite della poesia lirica occidentale
(Petrarca) e, in secondo luogo, con l’atto liturgico più altamente sacro che
esista nella nostra cultura (la messa). Insomma: si tratta di rispondere in modo
adeguato a poesia e religione nelle loro forme più elevate, nelle
loro manifestazioni più nobili. Poesia e Religione sono, in certo senso, due
archetipi.

Adesso però, di
tutto questo, restano soltanto frammenti. Questi frammenti
tendono a organizzarsi in una sorta di celebrazione, portandoci dal
riconoscimento rassicurante degli Archetipi alla speranza a cui
sono indissolubilmente legate le Attese (Archetipi e Attese
sono le due grandi sezioni che appunto raccolgono – dotandoli di un senso e di
una direzione – i frammenti, anzi i fragmenta). Non credo che la
parola Archetipo sia qui usata dalla Toffanin in qualche sua accezione
tecnica (alla Jung ecc.). Mi pare di capire che la parola voglia soltanto
significare dei modelli costanti, dei punti di riferimento originari e non
modificabili, delle verità che uno si trova dentro, per così dire, dalla
nascita, come degli a priori.

Come si arriva,
nel concreto del testo, a questi archetipi? La domanda ci
porta nel cuore stesso dell’opera poetica della Toffanin. Infatti agli archetipi
si arriva tramite una ricerca di natura squisitamente lirica, quella che appunto
ci propone il libro di cui ci stiamo occupando. Agli archetipi si arriva
attraverso un percorso che ci tiene costantemente in contatto con la vita che
viviamo, con le emozioni che quotidianamente proviamo, con i dolori che
inevitabilmente affliggono i nostri giorni spesso tanto difficili.

Nella Toffanin
il mutevole è osservato nelle sue più varie manifestazioni con vigile, con
amorosa attenzione, ma è ad ogni istante osservato con l’occhio di chi pensa
all’immutabilità degli archetipi. C’è un
sentimento che accompagna il lettore lungo tutto il libro: è, in modo più o meno
evidente, una tormentosa angoscia legata al timore che le cose non abbiano più
alcun senso (il “nonsenso delle cose”, dice l’autrice già da Introibo),
un’angoscia legata al timore che tutto si sia irrimediabilmente deteriorato.
C’è insomma, alla base, un sentimento tragico della vita. Ma questo timore o
questo sentimento tragico comporta anche sempre l’insopprimibile e intima
convinzione che l’attuale nonsenso sia il risultato di una perdita, di
una realtà perduta o deteriorata, di qualcosa che sia però in
qualche modo ricuperabile.

Bene. Per questa
via frammentata e dolorosa la Toffanin si apre la strada maestra per la sua
ricerca, per tentare il ricupero di ciò che permane, di ciò che dà un senso alla
vita (gli archetipi). E’ una ricerca, come ho detto, che non ha nulla di
intellettualistico, nulla di intenzionale, di volontario, di costruito. Al
contrario, essa si attua nella spontaneità, nello slancio del cuore, in una
vitalità sempre rinnovata, e comunque sempre capace di alimentare una liricità
particolarmente felice, quella stessa che già si è potuta apprezzare nelle
precedenti raccolte dell’autrice. Gli archetipi (o
ciò che permane dando senso alla vita) si illuminano via via attraverso la
contemplazione, spesso turbata o commossa, delle cose.

È fondamentale
in primo luogo il sentimento di una benefica primordiale maternità della natura,
il riconoscimento della Madre terra, della sua forza e dei suoi ritmi. Non è possibile
per questo dimenticare un testo che a ma pare di sicura e tesa ispirazione,
quello significativamente intitolato “Materni scorci” (pp. 36-37). Sono le
emozioni suscitate da un limpido tramonto d’ottobre su Padova. Il sole
“indulgente sui colli” dà particolare risalto a quelli che la Toffanin,
cresciuta nella sua diletta Padova, chiama amorosamente “cari materni scorci”,
prima di tutto quelli che danno risalto alle cupole delle basiliche di
Sant’Antonio e di Santa Giustina. E così, attraverso i ricordi, si vanno in lei
ricostituendo, come in un prodigioso puzzle, i frammenti di un’età “trascorsa
percorsa/ pei portici avvolgenti/ per slarghi luminosi/ trasparenti di
miracoli”. Con l’avanzare dell’ora, gli “slarghi luminosi” (che per un attimo
lasciano intravedere, mi sembra, il Prato padovano per eccellenza, quello della
Valle) ci portano alla magnifica contemplazione del “prato della notte”. Ma qui
è necessario che io abbandoni ogni tentativo (sempre indigente) di parafrasi per
ripercorrere le vigorose, le luminose e giuste scansioni di un testo nato da
un’autentica, da una viva commozione:

Opus musivo nel
prato della notte
Terso brillante
di miti archetipi
Dai primordi
riletto dalle genti
Dal limite
dell’umana specula
Per trarre gli
auspici scalzare il destino
Svelare alfine
della madre terra
Quel provvido
moto, vero inquisito.

E’ davvero molto
bello questo intnso sguardo verso il cielo stellato. Molto bello perché è uno
sguardo a cui, in questa poesia, si arriva dopo un progressivo approfondimento e
allargamento e innalzamento dei ricordi, da quelli individuali dell’infanzia, a
quelli comunitari della città nei suoi più eccelsi monumenti per giungere
infine, appunto, a quello di tutta l’umanità fin dalle sue più remote origini, a
quel “prato della notte”, a quel cielo stellato che ha ispirato i grandi miti,
che ha illuminato le filosofie, prima fra tutte la speculazione che ha reso
certo Platone circa la realtà del suo mondo delle idee, immutabile ed eterno,
fonte infinita di consolazione e di speranza.

Qui la Toffanin
ha sicuramente sfidato un luogo quasi comune, perché non c’è dubbio che il cielo
stellato è stato spesso celebrato in grandi testi (specie moderni) di poesia e
di pensiero, da Leopardi, a Nerval, da Rimbaud ad Apollinaire, per nominare
soltanto alcuni fra i maggiori. Ma la Toffanin ha saputo felicemente staccarsi
dalla imperiosa suggestione di quei modelli famosi. E’ rimasta se stessa. E’
riuscita a darci una visione generale che nasce dalla nostra città, dalla sua
realtà vissuta negli anni, dalla sua specificità. Insomma ha percorso col suo
ritmo una strada sua, fatta (a me pare) di emozioni autentiche, non letterarie.

La madre terra
ispira molti altri testi del libro. Naturalmente non è possibile che io li
ripercorra adesso. Almeno uno, però, lo voglio segnalare. E’ quello intitolato
(come la sezione che lo comprende) “In stanze della vita” (p. 39):

E’ fiorito tutto
improvviso
il prato del
Toro…

Può darsi che
l’attacco debba qualcosa a Valeri. Ma subito la Toffanin prende con decisione la
sua strada e ci dà la gioia di toccare quasi con mano la meraviglia del mondo
che fiorisce e che si allarga ai misteri del Cielo.

Prima di finire,
lasciatemi ancora leggere una breve poesia che si trova nella conclusiva sezione
Attese. E’ quella intitolata “Io petalo piuma fiore” (p. 112). Con questi
versi facciamo ritorno a quanto all’inizio si è potuto dire considerando il
titolo del libro.

Qui la natura è
osservata nel suo momento di distruzione, di morte. L’unità e l’armonia dello
splendore primaverile con le sue promesse estive si sono ridotte ad essere
soltanto immagine di una realtà distrutta, smembrata, fatta appunto di resti, di
frammenti sparsi nei luoghi più casuali e incongrui (dentro a un coccio
restano soltanto “schegge di pruno” e “farfalle di pesco”; dall’albero il vento
fa scendere, come neve, soltanto le piume di un uccello scomparso). Tutto ciò è
interiorizzato, divenendo figura dell’anima e concretandosi nel lamento di un
distico a rima facile e baciata:

Io petalo piuma
fiore
Ora in turbine
pazzo di dolore.

Ma la poesia non
finisce qui, non si spegne, non si esaurisce nella rassegnazione. Si apre, nella
sua conclusione, in parole di attesa, di speranza. Tutto si risolve
nell’intensità di una domanda che non sopprime l‘angoscia, ma si affaccia anche
su un orizzonte che lascia intravedere un ritorno o magari una forma di
resurrezione. Eccoci di fronte a qualcosa che potrebbe essere una preghiera,
perché la domanda è rivolta a un “tu” ed è implorante (“Dimmi, ti prego”):

Dimmi, ti prego,
nel tepore
segreto
si potrà
preparare ancora
nido di nuova
gioia?

Di
fronte ai beni perduti, di fronte al dolore che inevitabilmente accompagna il
passare inesorabile del tempo, la speranza è certamente messa a dura prova. Ma
la natura ci fa continuamente conoscere una forma di rinascita. Di qui il
pensiero della Toffanin può trarre dalle piume (che sembrano neve) di una
vita distrutta (quella dell’uccellino) un grande motivo di speranza, la speranza
di un “nido di nuova gioia”, di una nuova primavera.

Presentazione del volume
Fragmenta

Mario Richter
Padova, 22 marzo 2007 – Sala Rossini del Caffè Pedrocchi

Come accostarci
a questo nuovo libro di poesie offerto alla nostra attenzione da Maria Luisa
Daniele Toffanin? Comincerei
proprio dal titolo, che ci propone una parola latina: Fragmenta.
Nonostante il deprecato declino del latino, non mi sembra difficile per nessuno
(e specie per il lettore di un libro di poesie) capirne il significato.

E’ un titolo
che, per quanto riguarda il suo significato, dovrebbe avvertire il lettore circa
le non grandi pretese del libro: la parola Fragmenta annuncia infatti,
con indubbia modestia, non un’opera organica, ma soltanto dei pezzi, dei
frammenti, o magari niente più che degli avanzi, dei rottami, o
anche delle rovine, evidentemente di un oggetto unitario scomparso, di
un’opera compiuta e organica andata appunto in frantumi.

Tuttavia, se
consideriamo la forma di questo titolo, ciò che effettivamente nel suo
significato promette soltanto, come ho detto, quanto resta di un’opera intera
andata in rovina rinvia nello stesso tempo a qualcosa di molto alto e
prestigioso: rinvia nientemeno che al titolo del Canzoniere del Petrarca,
il titolo colto, che è Rerum vulgarium fragmenta.

Se poi apriamo
il libro, il testo liminare che subito incontriamo ha anch’esso un titolo in
latino: Introibo. A nessun lettore
che oggi abbia una certa età può sfuggire che questa parola (un verbo) ci
riporta direttamente, prima ancora che al quarto versetto del salmo 43, alla
formula di apertura della messa nella sua forma tradizionale, formula che
comporta l’esplicito riferimento alla divinità (Introibo ad altare Dei).

Questo
riferimento alla liturgia eucaristica in latino (abbandonata nel 1964, non senza
aspri contrasti, col Concilio Vaticano Secondo) porta con sé, fin dall’inizio,
una certa nota di ricupero, di ritorno al passato, una sottile delicata venatura
di rimpianto, anche se bisogna riconoscere che esiste (o è esistita)
l’espressione laica “fare l’introibo” per dire semplicemente che “si entra in
discorso”.

Dunque, per
queste due iniziali ragioni, il libro della Toffanin ci porta subito su un piano
sicuramente alto, arriverei a dire persino un po’ ardito, voglio dire
compromettente (rischioso), poiché instaura un inevitabile rapporto, in primo
luogo, addirittura con il grande capostipite della poesia lirica occidentale
(Petrarca) e, in secondo luogo, con l’atto liturgico più altamente sacro che
esista nella nostra cultura (la messa). Insomma: si tratta di rispondere in modo
adeguato a poesia e religione nelle loro forme più elevate, nelle
loro manifestazioni più nobili. Poesia e Religione sono, in certo senso, due
archetipi.

Adesso però, di
tutto questo, restano soltanto frammenti. Questi frammenti
tendono a organizzarsi in una sorta di celebrazione, portandoci dal
riconoscimento rassicurante degli Archetipi alla speranza a cui
sono indissolubilmente legate le Attese (Archetipi e Attese
sono le due grandi sezioni che appunto raccolgono – dotandoli di un senso e di
una direzione – i frammenti, anzi i fragmenta). Non credo che la
parola Archetipo sia qui usata dalla Toffanin in qualche sua accezione
tecnica (alla Jung ecc.). Mi pare di capire che la parola voglia soltanto
significare dei modelli costanti, dei punti di riferimento originari e non
modificabili, delle verità che uno si trova dentro, per così dire, dalla
nascita, come degli a priori.

Come si arriva,
nel concreto del testo, a questi archetipi? La domanda ci
porta nel cuore stesso dell’opera poetica della Toffanin. Infatti agli archetipi
si arriva tramite una ricerca di natura squisitamente lirica, quella che appunto
ci propone il libro di cui ci stiamo occupando. Agli archetipi si arriva
attraverso un percorso che ci tiene costantemente in contatto con la vita che
viviamo, con le emozioni che quotidianamente proviamo, con i dolori che
inevitabilmente affliggono i nostri giorni spesso tanto difficili.

Nella Toffanin
il mutevole è osservato nelle sue più varie manifestazioni con vigile, con
amorosa attenzione, ma è ad ogni istante osservato con l’occhio di chi pensa
all’immutabilità degli archetipi. C’è un
sentimento che accompagna il lettore lungo tutto il libro: è, in modo più o meno
evidente, una tormentosa angoscia legata al timore che le cose non abbiano più
alcun senso (il “nonsenso delle cose”, dice l’autrice già da Introibo),
un’angoscia legata al timore che tutto si sia irrimediabilmente deteriorato.
C’è insomma, alla base, un sentimento tragico della vita. Ma questo timore o
questo sentimento tragico comporta anche sempre l’insopprimibile e intima
convinzione che l’attuale nonsenso sia il risultato di una perdita, di
una realtà perduta o deteriorata, di qualcosa che sia però in
qualche modo ricuperabile.

Bene. Per questa
via frammentata e dolorosa la Toffanin si apre la strada maestra per la sua
ricerca, per tentare il ricupero di ciò che permane, di ciò che dà un senso alla
vita (gli archetipi). E’ una ricerca, come ho detto, che non ha nulla di
intellettualistico, nulla di intenzionale, di volontario, di costruito. Al
contrario, essa si attua nella spontaneità, nello slancio del cuore, in una
vitalità sempre rinnovata, e comunque sempre capace di alimentare una liricità
particolarmente felice, quella stessa che già si è potuta apprezzare nelle
precedenti raccolte dell’autrice. Gli archetipi (o
ciò che permane dando senso alla vita) si illuminano via via attraverso la
contemplazione, spesso turbata o commossa, delle cose.

È fondamentale
in primo luogo il sentimento di una benefica primordiale maternità della natura,
il riconoscimento della Madre terra, della sua forza e dei suoi ritmi. Non è possibile
per questo dimenticare un testo che a ma pare di sicura e tesa ispirazione,
quello significativamente intitolato “Materni scorci” (pp. 36-37). Sono le
emozioni suscitate da un limpido tramonto d’ottobre su Padova. Il sole
“indulgente sui colli” dà particolare risalto a quelli che la Toffanin,
cresciuta nella sua diletta Padova, chiama amorosamente “cari materni scorci”,
prima di tutto quelli che danno risalto alle cupole delle basiliche di
Sant’Antonio e di Santa Giustina. E così, attraverso i ricordi, si vanno in lei
ricostituendo, come in un prodigioso puzzle, i frammenti di un’età “trascorsa
percorsa/ pei portici avvolgenti/ per slarghi luminosi/ trasparenti di
miracoli”. Con l’avanzare dell’ora, gli “slarghi luminosi” (che per un attimo
lasciano intravedere, mi sembra, il Prato padovano per eccellenza, quello della
Valle) ci portano alla magnifica contemplazione del “prato della notte”. Ma qui
è necessario che io abbandoni ogni tentativo (sempre indigente) di parafrasi per
ripercorrere le vigorose, le luminose e giuste scansioni di un testo nato da
un’autentica, da una viva commozione:

Opus musivo nel
prato della notte
Terso brillante
di miti archetipi
Dai primordi
riletto dalle genti
Dal limite
dell’umana specula
Per trarre gli
auspici scalzare il destino
Svelare alfine
della madre terra
Quel provvido
moto, vero inquisito.

E’ davvero molto
bello questo intnso sguardo verso il cielo stellato. Molto bello perché è uno
sguardo a cui, in questa poesia, si arriva dopo un progressivo approfondimento e
allargamento e innalzamento dei ricordi, da quelli individuali dell’infanzia, a
quelli comunitari della città nei suoi più eccelsi monumenti per giungere
infine, appunto, a quello di tutta l’umanità fin dalle sue più remote origini, a
quel “prato della notte”, a quel cielo stellato che ha ispirato i grandi miti,
che ha illuminato le filosofie, prima fra tutte la speculazione che ha reso
certo Platone circa la realtà del suo mondo delle idee, immutabile ed eterno,
fonte infinita di consolazione e di speranza.

Qui la Toffanin
ha sicuramente sfidato un luogo quasi comune, perché non c’è dubbio che il cielo
stellato è stato spesso celebrato in grandi testi (specie moderni) di poesia e
di pensiero, da Leopardi, a Nerval, da Rimbaud ad Apollinaire, per nominare
soltanto alcuni fra i maggiori. Ma la Toffanin ha saputo felicemente staccarsi
dalla imperiosa suggestione di quei modelli famosi. E’ rimasta se stessa. E’
riuscita a darci una visione generale che nasce dalla nostra città, dalla sua
realtà vissuta negli anni, dalla sua specificità. Insomma ha percorso col suo
ritmo una strada sua, fatta (a me pare) di emozioni autentiche, non letterarie.

La madre terra
ispira molti altri testi del libro. Naturalmente non è possibile che io li
ripercorra adesso. Almeno uno, però, lo voglio segnalare. E’ quello intitolato
(come la sezione che lo comprende) “In stanze della vita” (p. 39):

E’ fiorito tutto
improvviso
il prato del
Toro…

Può darsi che
l’attacco debba qualcosa a Valeri. Ma subito la Toffanin prende con decisione la
sua strada e ci dà la gioia di toccare quasi con mano la meraviglia del mondo
che fiorisce e che si allarga ai misteri del Cielo.

Prima di finire,
lasciatemi ancora leggere una breve poesia che si trova nella conclusiva sezione
Attese. E’ quella intitolata “Io petalo piuma fiore” (p. 112). Con questi
versi facciamo ritorno a quanto all’inizio si è potuto dire considerando il
titolo del libro.

Qui la natura è
osservata nel suo momento di distruzione, di morte. L’unità e l’armonia dello
splendore primaverile con le sue promesse estive si sono ridotte ad essere
soltanto immagine di una realtà distrutta, smembrata, fatta appunto di resti, di
frammenti sparsi nei luoghi più casuali e incongrui (dentro a un coccio
restano soltanto “schegge di pruno” e “farfalle di pesco”; dall’albero il vento
fa scendere, come neve, soltanto le piume di un uccello scomparso). Tutto ciò è
interiorizzato, divenendo figura dell’anima e concretandosi nel lamento di un
distico a rima facile e baciata:

Io petalo piuma
fiore
Ora in turbine
pazzo di dolore.

Ma la poesia non
finisce qui, non si spegne, non si esaurisce nella rassegnazione. Si apre, nella
sua conclusione, in parole di attesa, di speranza. Tutto si risolve
nell’intensità di una domanda che non sopprime l‘angoscia, ma si affaccia anche
su un orizzonte che lascia intravedere un ritorno o magari una forma di
resurrezione. Eccoci di fronte a qualcosa che potrebbe essere una preghiera,
perché la domanda è rivolta a un “tu” ed è implorante (“Dimmi, ti prego”):

Dimmi, ti prego,
nel tepore
segreto
si potrà
preparare ancora
nido di nuova
gioia?

Di
fronte ai beni perduti, di fronte al dolore che inevitabilmente accompagna il
passare inesorabile del tempo, la speranza è certamente messa a dura prova. Ma
la natura ci fa continuamente conoscere una forma di rinascita. Di qui il
pensiero della Toffanin può trarre dalle piume (che sembrano neve) di una
vita distrutta (quella dell’uccellino) un grande motivo di speranza, la speranza
di un “nido di nuova gioia”, di una nuova primavera.