Rossano Onano – La grande storia in minute lettere
La grande storia in minute lettere
L’amore di una famiglia nel buio della guerra
Maria Luisa Daniele Toffanin, padovana, è persona di nome nella piccola grande parrocchia della poesia. È coniugata con Massimo Toffanin, puntiglioso e affabile ricercatore di storia contemporanea. Lavorando a quattro mani, i due coniugi licenziano per la Valentina Edtrice (2017) un libro che è preziosa testimonianza di storia nazionale e familiare, ricostruita attraverso un carteggio quasi intatto, dal ’35 al ’45, fra due personaggi della buona borghesia padovana. I due personaggi sono Gino e Natalia (Lia), che corrispondono fra loro nel periodo travagliato che va dalla matura età fascista alla fine della guerra, attraverso lettere sofferte e ristrette al massimo, anche per il controllo della censura. Gino e Lia sanno come vanno le cose, capiscono bene ciò che è possibile scrivere, e ciò che è opportuno tacere.
La foto d’archivio, posta in copertina del libro, rappresenta Gino, in divisa da ufficiale (57° reggimento di fanteria) e Lia sottobraccio, a passeggio per le vie padovane. Ero invidiata,confessa per lettera la donna al marito lontano. Nella foto, il viso di Lia è radioso, Gino ha passo militare inappuntabile e la guarda intenerito. Memoria personale: negli anno ’70 ero militare, in un reggimento composto per lo più da friulani (furlani, dicevano loro) quando era in voga fra loro un motto che diceva. “chi non è buono per il re, non è buono per la regina”. Essere militari era motivo di fierezza. E infatti, ricordo quella di mia madre, come Lia molto fiera al braccio di mio padre, anche lui in divisa militare, a passeggio per le vie di Mogadiscio.
La grande storia in minute lettere, scritta da Maria Luisa e Massimo, si avvale dell’introduzi0one di Francesco Iori. Il quale, trattandosi appunto di storia, non può fare a meno di citarne il suo massimo cantore, Erodoto, nella sua espressione riflessiva: Non esiste uomo folle al punto da preferire la guerra alla pace. In pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono invece i padri a seppellire i figli. Aggiungo di mio che Tirteo, ugualmente immortale, era di diverso parere: considerava felice chi muore in battaglia, dal momento che muore giovane chi è caro agli Dei. Gli antichi Greci erano formidabili, sapevano già dire tutto e il contrario di tutto. Fatto è che, nel corso dei 2500 anni successivi ad Erodoto, sono molti i padri che hanno continuato e continuano a seppellire i figli. Forse ha ragione Montale: la storia non è maestra di nulla, perché l’uomo nei secoli continua a commettere i medesimi errori.
L’uomo del resto si rapporta alla storia ufficiale, per giunta solitamente scritta dai vincitori, attraverso documenti accampati da chi non ha conosciuto dal vivo la guerra. I coniugi Toffanin sono fra coloro che scelgono la strada opposta, raccontano la guerra attraverso la corrispondenza privata, circa 600 lettere, intervenuta fra due coniugi che non hanno studiato la storia ma l’hanno “vissuta”, con tutte la lacerazioni affettive che la guerra comporta.
Lia è figlia di Sebastiano Schiavon (lo “strapassasiori”), fondatore del Sindacato Veneto dei Lavoratori della terra, che contende alle leghe rosse l’egemonia del mondo contadino. Ha come zio dalla parte materna Cesare Crescente, che sarà sindaco di Padova dal ’47 al ’70. Si tratta di una famiglia che ha titoli civili da esporre; Gino a sua volta è culturato e intraprendente, però insomma capisce di dover impostare il corteggiamento a Lia secondo le regole di una estrema cortesia formale. Nella sua prima cartolina postale (1935) si rivolge a Lia dandole ancora del lei,per giunta scusandosi per suoi eventuali errori grammaticali. Narcisismo al contrario, captatio benevolentiae: Lia infatti è maestra, ma Gino non è da meno. E’ aspirante maestro, ufficiale di complemento, segretario politico del PNF. Si dimette da segretario nel febbraio ’40, per abbracciare la carriera militare.
Nel marzo ’40 scrive a Lia, ragguagliando la fidanzata intorno all’esercitazione militare appena condotta in un paese marchigiano: Sono incominciati i tiri alle tre e sono continuati sempre sotto il diluvio fino alle quattro e trenta. Negli ultimi colpi del famoso mortaio da 81, che Nino tanto decantava, tre bombe a grande potenziale, anziché essere spinte lontano, sono cadute a venti metri, forse meno, dalle bocche da fuoco… Le tre bombe, forse per volere di Dio, non sono esplose…Ovvero: i colpi non partono e, se partono, non esplodono. Perfetta premonizione sull’efficienza dell’Esercito Italiano nel corso della guerra prossima ventura. La quale è proclamata dal Duce a partire dall’11 giugno del ’40, con le prime bombe aeree sganciate su Malta. (La guida maltese, una combattiva ragazza dalla chioma scura, ricordava ancora la faccenda a noi turisti italiani, solo due anni fa, guardandoci con molta riprovazione). C’è da dire che il bombardamento di Malta fu imposto dai Tedeschi, contro il volere di Mussolini che avrebbe voluto invadere direttamente l’isola. Malta bombardata continuerà ad essere base navale inglese, operativa per tutto il corso della guerra. Niente di male ammettere che, nella circostanza, il nostro avesse ragione.
Nel febbraio del ’41 Gino è mobilitato per la guerra. Dagli scambi epistolari sappiamo di qualche screzio intervenuto fra i due fidanzati circa la data del matrimonio. Gino avrebbe dilazionato, si capisce benissimo: l’uomo mette in conto la prossima partenza per la guerra. Lia è invece determinata. Ci viene in soccorso l’etologia: ciascuna femmina d’animale è più feroce del maschio nella difesa del proprio nido. La femmina d’uomo, più evoluta, non fa differenza fra nido oggettivamente posseduto e nido solo idealmente progettato: la donna combatte comunque. Solitamente vince: il matrimonio è celebrato il 2 giugno 1941. Nel 1942 nasce la primogenita, Marisa. Il 27 gennaio 1943 Gino parte da Mestre in tradotta per la Grecia, come soldato di un esercito occupante.
In Grecia, Gino è occupato all’interno di un battaglione, diciamo così, “amministrativo”, insieme a commilitoni di bell’ingegno. Suo compagno di stanza è il filosofo Enzo Paci (1911-1969), esistenzialista. Gino scrive alla moglie impiegando una certa dose di ironia: Resterò in stanza con Paci che mi parlerà dei vari problemi esistenziali degli antichi filosofi… Anche: Devo dirti che sto benissimo e che non faccio quasi nulla da mattina a sera… Mi ricordo, infatti: a Novi Ligure, in caserma, dopo l’alzabandiera e le monotone operazioni di pulizia in camerata, la lunga attesa del giorno dopo, per il nuovo alzabandiera e le nuove operazioni di pulizia. La noia, considero ora, era normativa: addestrava il giovane all’attesa, all’obbedienza, al rispetto delle minime consegne imposte dalla vita. Qualità in larga misura assenti, nella precipitosa cultura odierna.
La corrispondenza fra i due coniugi procede per lettere inviate a giorni quasi alterni. Tutto sommato le poste, in pieno travaglio di guerra, sembra funzionassero meglio di quanto funzionino oggigiorno.
Fino a quando, nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio fascista approva l’Ordine del Giorno Grandi, che impone a Mussolini il ripristino “di tutte le funzioni statali” e invita il Duce a restituire il comando delle forze armate al Re. Nelle ore successive, il Re Vittorio Emanuele III fa arrestare il Duce al termine di un colloquio intervenuto a Villa Savoia. In tarda serata la Radio interruppe le trasmissioni per diffondere il seguente comunicato: Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato, il Cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Gino, dalla Grecia, fatica a rendersi conto di quanto è avvenuto. Scrive infatti a Lia (26 luglio): …i provvedimenti che sono stati presi nella nostra Patria miglioreranno senza dubbio le sue sorti… Gli avvenimenti incalzano. L’8 settembre Badoglio, via radio, annuncia l’armistizio: …conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.
Neppure Lia, nel frattempo sfollata da Padova, ha precisa cognizione di quanto è successo. Il 9 settembre scrive a Gino, in Grecia, confessando di sperare in una prossima licenza in patria del marito. Gino risponde dopo 2 mesi, da detenuto nel lager di Beniaminov in Polonia. Il 10 settembre ’43 la Guardia Costiera di Atene, dove opera Gino Daniele, ha consegnato le armi ai tedeschi. Poca roba: n° 2 mitra cal. 8, n° 3 fucil-mitra, 339 bombe a mano, munizioni.
Da Atene parte una condotta con 550 ufficiali, convinti di fare rientro in Italia. A Linz un reparto germanico circonda il treno, e dirotta gli ufficiali italiani al campo di concentramento di Beniaminov. Da lì in poi la corrispondenza fra i due coniugi è frammentaria. Non tutte le lettere sono state conservate. Gino, 11 novembre: Ho l’animo molto abbattuto oggi: per la prima volta da quando sono prigioniero ho pianto. La stessa lettera termina: …la via da seguire ormai l’ho scelta: fedeltà al giuramento una volta dato. A questo punto, Maria Luisa e Massimo Toffanin danno prova di affrontare la storia coniugando gli avvenimenti al vissuto soggettivo dei loro personaggi. Una cosa è la storia scritta, altra cosa è la storia vissuta. Il 12 settembre ’43 Mussolini al Gran Sasso è liberato dai tedeschi, e istituisce la Repubblica Sociale di Salò. I soldati italiani si trovano, tutti, nella situazione senza via d’uscita che la psichiatria chiama di “doppio legame”. (paradigma: la mamma al figlio: esci, e divertiti; non importa se io soffro. Se il figlio esce, fa soffrire la mamma. Se non esce, disobbedisce. Qualunque decisione il figlio prenda, sbaglia). I militari italiani hanno giurato fedeltà al re, quindi sono “badogliani”, ovvero tradiscono gli alleati tedeschi. I militari italiani che restano fedeli all’alleanza con i tedeschi tradiscono il re. Qualunque decisione prendesse un militare militare italiano nel ’43, per l’una o per l’altra parte era costretto a tradire.
Gino Daniele è perfettamente consapevole del conflitto; tradire per tradire, sceglie di mantenere l’onore, e comunica a Lia di restare “badogliano”. Gino combatte per l’onore personale, e per la Patria. Lia, intelligenza e cuore femminile, combatte per la famiglia. Scrive a Gino: Senti, Gino mio, potresti anche tu venire in Italia? Come dire: e se tu smettessi di fare il badogliano? Gino, che ad Atene sembra aver trascorso la guerra senza sparare un colpo di fucile, mostra la sua tempra di combattente restando fedele al giuramento da lui stesso scritto e conservato per se stesso, a matita su un pezzo di carta, l’11 novembre ’43, appena tradotto in Polonia come Internato Militare Italiano (IMI): resta badogliano, rifiutando l’adesione alla RSI che avrebbe permesso il suo rientro in Italia. Sarà trasferito dal campo polacco successivamente a Sandbostel in Bassa Sassonia e a Wietzndorf nei pressi di Amburgo, campo riservato ai soli prigionieri italiani, inquadrati con lo “status” di lavoratori autonomi per l’accordo in questo senso intervenuto fra Hitler e Mussolini. Come tali, la Croce Rossa non può occuparsi di loro come invece si occupa dei normali prigionieri di guerra. Di fatto, la loro condizione è peggiorativa.
Nell’inverno, con il gelo comincia il razionamento del cibo. Gli internati italiani cominciano a mangiare topi e grossi ratti. Connessione mnesica personale: ho conosciuto, a Reggio Emilia, uno di questi internati. Raccontava appunto di avere trascorso ore con indice e pollice a capanna sopra una tana di topo, in silenzio. Quando la bestiola cacciava fuori la testa, indice e pollice si chiudevano, a catturazione della preda.
La corrispondenza fra Gino e Lia diventa sempre più rada. Fino a quando, il 16 aprile 1945 alle ore 17,31, il maggior inglese Cooley apre il cancello del campo di Wiltzedorf, dopo aver vinto le ultime resistenze tedesche. L’esito della guerra è ormai segnato. “Quando torneremo in patria?” , chiedono i militari italiani. “Presto, tra alcuni giorni”, risponde il maggiore Cooley, cuore di soldato. Il cuore dei burocrati è differente: le alte sfere britanniche faticano a comprendere il problema degli IMI, “lavoratori autonomi”, ovvero in certo modo collaborazionisti dei tedeschi. L’1 di luglio il Tenente Colonnello Pietro Testa, a nome di tutti i militari italiani, scrive una lettera personale al Generale comandante del 30° Corpo d’Armata britannico. La lettera è riportata dai Toffanin, e merita da sola la lettura del libro. Pietro Testa ricorda al Generale il sacrificio dei soldati italiani a Ragusa, Spalato e Cefalonia. Cita un articolo tratto dalla stessa stampa inglese, 26 aprile: …Il Ministro della Guerra ha preso debitamente atto delle dichiarazioni dei prigionieri inglesi che, senza l’aiuto della Croce Rossa, essi non avrebbero potuto tenere assieme corpo ed anima… Testa puntualizza: …E gli italiani hanno potuto tenere insieme anima e corpo senza nessun aiuto della Croce Rossa, senza nessun incitamento se non quello della propria fede… Una lettera da soldato a soldato. Il Generale inglese di Corpo d’Armata smuove le acque: il 17 luglio parte per l’Italia una prima tradotta con 100 posti riservati per gli internati di Wiltzedorf.
Lia, da Padova, affida a un autista della Croce Rossa diretto in Germania una lettera per Gino: …Troverai tutto come hai lasciato…La lettera non sarà mai recapitata. E’ invece recapitata a Lia la lettera che Gino ha affidato a un compagno di campo, datata 9 agosto: Miei carissimi, posso ormai contare i giorni che ancora mi separano da voi, poiché da oggi hanno incominciato le partenze regolari di 700 militari al giorno che vengono sorteggiati dalla massa di 7000 presenti al campo. Io spero, se la sorte non mi sarà davvero sfavorevole, di lasciare questo luogo che mi ricorda tante sofferenze la prossima settimana…Il sorteggio non sarà favorevole a Gino, che soltanto il 3 settembre ’45, a mezzo ferrovia fino a Pescantina, e corriera da Pescantina a Padova, potrà riabbracciare Lia e la piccola Marisa. La sua guerra è durata 33 mesi.
Scorre nuovamente la vita e, con la vita, le zeppe burocratiche che a lei sono connesse. Gino deve presentarsi al Distretto militare di Padova, semplicemente per avvertire: sono tornato. Sbroglia le pratiche per ottenere, come ottiene, la liquidazione delle competenze spettanti ai prigionieri di guerra del Regio Esercito. Deve, inoltre, presentare al Distretto la relazione scritta dell’attività svolta per il periodo che va dall’8 settembre 1943 al 3 settembre 1945. La relazione è scritta con la virile sobrietà del soldato: (Gino)…fa presente che durante tutto il periodo della prigionia ha resistito ad ogni forma di esortazione e di minaccia intesa ad ottenere la sua adesione alla Ss Tedesche, alla Repubblica Sociale Italiana ed al lavoro, che giunto sul luogo del lavoro, con altri compagni, si rifiutava di lavorare obbligando la polizia criminale tedesca ad intervenire, che ha sempre rifiutato ogni pagamento da parte delle autorità tedesche del campo e di quelle del luogo di lavoro. Il mantenimento della famiglia è stato possibile soltanto grazie al pagamento da parte del Distretto militare di Padova della metà dello stipendio che il sottoscritto godeva sotto le armi…Gino ha salvato ciò che doveva salvare: la sua dignità di soldato e di uomo. Anche Lia (Troverai tutto come hai lasciato) ha salvato ciò che doveva: la famiglia, la casa, gli affetti.
Maria Luisa Daniele e Massimo Toffanin conducono un testo di mirabile architettura narrativa, alternando oggettività documentale e fluente partecipazione empatica, mai debordante nel patetismo.
Mi chiedo perché, al termine della lettura, io sia stato raggiunto da una specie di appagante atarassia, quasi una salutare condizione di quiete. Poi capisco: da una parte c’è la brutalità della guerra, bestia gettata nella storia dalle colleriche istituzioni dell’uomo; dall’altra, ci sono Gino e Lia tessitori di pace, Enzo Paci che parla di filosofia in Campo d’internamento, Pietro Testa che intercede per i propri uomini tenendo la testa alta, e il maggiore Cooley e tutti i soldati italiani tedeschi inglesi e tutta la travagliata popolazione greca sottomessa. Singolarmente presi, tutti gli uomini attraversano la guerra con atti di personale coraggio o carità, quando si può si corre a soccorso e si soccorre come si può, mai una parola rancorosa degli uni contro gli altri. L’uomo è sempre migliore delle istituzioni che lui stesso propone. Rousseau, se non sbaglio.
Il che sarebbe consolante. Peccato che Voltaire, perfido e lucidissimo, pensasse diversamente.