Aldo Cervo – Fragmenta
La prima lirica datata: “Negli occhi del cuore”, del 29 ottobre 1996, nata da un’amorosa speranza di luce nella notte della veglia dolorosa, quando in chi resta già precorre – impietosa e angosciante – l’ora del distacco, ci notifica l’estendersi della silloge sull’arco di un decennio. E probabilmente proprio l’ampiezza dei tempi – per così dire – di gestazione espansi su cangianti scenari storico-culturali, come su motivazioni creative evolutive anch’esse, richiama nell’autrice da lontane reminiscenze petrarchesche il titolo di Fragmenta, che suona a preliminare ammissione di disunità. Ma non è così. Come così non fu per l’irresoluto “dolce di Calliope labbro”, in perenne lotta – come sappiamo – tra bisogno di ascèsi e umane tentazioni.
L’unità, o, se si preferisce, l’unitarietà di un’opera letteraria non sono garantite da delimitazioni cronologicamente ristrette, tanto meno da malaugurati contenuti rnonotematici. Se così fosse, i capolavori di ogni tempo, dalla Divina Commedia a I promessi sposi sarebbero dei più frammentari della letteratura italiana. E invece gli elementi strutturali di fondo, attestanti una raggiunta organicità artistica sono da ricercarsi nell’autore, e sono propriamente una conformazione caratteriale stabile; una visione, se non sempre coerente, almeno non estemporanea, della vita; ultimo infine – ma importantissimo – un identificativo registro linguistico.
Ora in Fragmenta tutti e tre gli elementi appena riepilogati sono indiscutibilmente presenti, e visibili. Qui potrebbe ad alcuno sembrare esser d’uopo supportare l’asserito con esempi dal testa Ma la cosa m’indurrebbe a riportare non poche soluzioni poetiche a riprova di quanto m’è parso, nelle medesime, di cogliere, senza tuttavia esaurire il discorso che resterebbe (come è giusto e auspicabile) aperto pur sempre a distinguo e diversificazioni.
La qual cosa m’induce semplicemente a osservare come la poetessa in nessuna pagina della silloge in esame contraddica la sua interiore identità di donna e di intellettuale aperta a un dialogo positivo e solare col mondo in ogni suo aspetto. Ciascuna delle tre sezioni di che si costituisce l’opera testimonia una natura viva, costantemente sintonizzata sulle lunghezze d’onda dei messaggi silenti delle cose. E in tali messaggi, che la Daniele Toffanin coglie e traduce in suoni ed immagini di grande bellezza, è reperibile anche quella che si diceva “visione della vita”; una visione che, per essere saldamente ancorata ai valori della Fede, conferisce all’intero corredo di versi un effetto spiritualmente rigenerante.
Nel merito del registro linguistico, è chiaro che il decennio intercorso dalla prima delle poesie all’ultima non poteva non materializzarsi in un rinnovarsi, in un variare del costrutto sintattico. E qui mi sembra, nel volumetto, essere andato via via maturando nel tempo un impianto linguistico-espressivo sostanzialmente ellittico, alternato tuttavia da fasi dove le contratture si fanno più blande, con conseguente incremento della forma esplicativa, e recupero di stilemi della tradizione.
In ogni caso la Daniele Toffanin esibisce ancora una volta un credito artistico che fin d’ora le fa ipotecare un posto a sedere nel “Vocale Elicona” : la straordinaria dimestichezza che ha con le parole le consente di prenderle, di selezionarle, di assemblarle, e ricavarne effetti fonici, visivi – direi persino olfattivi – fruibili solo da pochi eletti.
Voler fissare la sua poesia in certi momenti di fortissima luminosità, è come pretendere di fissare il sole. Ma questo – si sa – è prerogativa solo delle aquile.