Stefano Valentini – Prefazione ad Appunti di mare

Il nuovo libro di Maria Luisa Daniele Toffanin riunisce due differenti sillogi: l’una apparsa già nel 2000 e l’altra, pur composta nel medesimo periodo, a lungo rimasta inedita. E’ stata infatti pubblicata soltanto nel 2011 da Silvana Serafin in Appendice a Pensieri nomadi, l’importante repertorio antologico e critico dedicato all’insieme dell’opera dell’autrice padovana (Edizioni StudioLT2 di Venezia, nella collana “Nuove prospettive americane” diretta dalla stessa Serafin e da Daniela Ciani Forza). Entrambe le sillogi prendono spunto da un viaggio siciliano, il primo a Tindari e il secondo a Lampedusa, dove l’occasione vacanziera – intesa come allontanamento dalle incombenze quotidiane – diviene spunto irresistibile, e quasi ineludibile, per un percorso che delinea numerosi cammini interiori.

Tindari è lo scenario di un soggiorno estivo in uno dei luoghi più mitici non solo dell’isola ma dell’intera nazione, cantato con accenti dove perfettamente collimano lo stupore metafisico e l’emozione rapita dalla bellezza. Questa è una poesia dove la luce, il buio, gli elementi del paesaggio sono trasfigurati, sollecitando contemporaneamente – nell’autrice come nel lettore – il duplice imperio del sentimento e del pensiero: un felice connubio che suscitò l’attenzione di un grandissimo come Andrea Zanzotto, che sempre stimò la poesia dell’autrice e di cui lei, nel proprio approccio al paesaggio, può sicuramente dirsi epigona e continuatrice. “Muta il vento forme d’acqua / e le oscilla nel celeste / con più chiare corde d’aria. / Rumori inventa e colori / di trasparente luce / e odori da un magico profondo. // Marina è di giorno terso / anche nell’anima mia / smossa da una parola sua / da un gesto che mi suonò / dentro come un maroso”. Le immagini raggiungono una purezza classica, l’eterno si riverbera nell’istante, il tempo sospende la sua corsa. Risulta impossibile non tentare di vedere, con gli occhi della mente, quel che l’autrice sta evocando, ma è una visione nel quale gioca un ruolo primario l’intelligenza: il paesaggio, millenario, si fonde con la coscienza dell’osservatore, la bellezza si congela nella fissità immobile dell’attimo. Sembra di trovarsi sull’orlo d’una apocalisse mistica, incantesimo cosmico che libera dalla caducità e dalla schiavitù: ma questo non accade e, subito, riaffiora la materia sensibile, la serenità della quiete e della pace sconfitte e contraddette nella Storia. “Terra di fauni buoni e pacati armenti / di massi sapienti di ere e di genti / terra da millenni viva / terra di affanni e di fatiche immani // … // Cieli ove Dio sogna nidi di gioia”. Una gioia, è opportuno esplicitarlo, che rappresenta una delle idee-tema fondanti nella poetica dell’autrice, prospettiva-proposta paradigmatica della sua visione del mondo e d’ogni possibile armonia.

Ricco e articolato anche il frutto del secondo viaggio, compiuto in un ambiente ancora più distante rispetto a Tindari: non propaggine della grande isola ma isola a propria volta, microcosmo che si fa paradigma del cosmo ancestrale. “Da traghetto a traghetto” racchiude i giorni intercorsi tra i due tragitti, appunto, dell’arrivo e della partenza. Ma se oggi il traghetto altro non è che un mezzo di trasporto, è difficile – almeno per chi ami la letteratura – liberarsi totalmente delle sue suggestioni mitiche e simboliche, essendo in più culture legato alla figura del “traghettatore” il transito tra realtà e dimensioni differenti, fisiche e ultraterrene. Un itinerario tra due sponde spalancate su un territorio in cui il proprio destino appare in certo modo sospeso, secondo una direzione obbligata da un porto ad un altro e dove mancano le distrazioni, le deviazioni e le soste altrimenti concesse in un cammino terrestre. Tra le due rive vi è un punto mediano in cui entrambe appaiono parimenti distanti e, intorno, unicamente l’acqua con la sua placida monotonia: la profondità, sotto la chiglia, è invisibile anche se, qualora prosciugata, apparirebbe terrificante quanto un orrido o un abisso.

Il viaggio, elemento oltremodo decisivo in tutta la bibliografia di Maria Luisa Daniele Toffanin, è sempre la stratificazione e la concrezione di note reali e simboli allegorici: tra il cielo e lo sprofondo c’è una terra e la nave, “trebbiatrice” che “macina il mare”, vi si dirige sicura. La traversata è notturna, ma è una notte di luce, come di molta luce sarà trapunto l’intero libro: la volta celeste appare, grazie ai riflessi marini, un “liquido falò” che già accosta, alla leggerezza della pausa di vacanza, una pensosità non angosciosa ma insistente, consapevole che “così si brucia il nostro breve tempo”. Tutto il libro è, diremmo, consacrato al mistero che pone a confronto la brevità del nostro destino e la vastità del cosmo, in un andirivieni di pensieri evocati “per dilatarli nell’immenso / allentarli nell’eterno”. Il tempo, osserva l’autrice, “frantuma il mare e insieme la vita”, ma in realtà il mare subito si ricompone e la nostra esistenza, invece, procede verso l’ineluttabile dispersione e conclusione. Trovare un significato la cui portata sia di antidoto alla caducità, così evidente e persino stridente se contrapposta alla maestà del creato, è dunque la prima aspirazione di chiunque non voglia sottrarsi a tale imperiosa evidenza.

La navigazione notturna è intrisa di pace, innocenza, immersione nell’infinito, ma è soprattutto antefatto e preludio alla luce del giorno: in essa l’autrice percepisce “il senso della gioia / d’essere insieme antichi e nuovi”, l’emozione di percepirsi come “guizzi di sereno nell’immenso” in grado di segnare di sé “il mistero del dopo”, dominando il tempo anziché risultarne vittime. Approdati, intensa è la meraviglia per la vita operosa e serena dell’isola, un “incantesimo d’acqua” che lega gli abitanti al loro suolo aspro e le cui terre di confine sembrano un rassegnato esilio. Qui “l’uomo ha parole e moti lenti”, qui “il tempo galleggia / s’allenta riposa sulla terra” e la frenesia, che domina le nostre giornate, non ha più alcuna ragion d’essere. Tutto è luce e cielo, tutto instilla uno stupore originario, memore dei primordi del genere umano e dello stesso pianeta. La creazione trovò nel mare il suo primo habitat, il nutrimento primordiale, e nella fusione con gli altri elementi – la terra, il fuoco, l’aria – il caos primigenio si è forgiato in bellezza ora scabra e vigorosa, ora lussureggiante e delicata. Così com’è appunto Lampedusa, arsa e accogliente e petrosa e fertile con i suoi “arpeggi di verde che il vento disegna”, incandescente e fresca, selvaggia e armoniosa. “Colloquio senza fine con l’immenso” sono le voci dei suoi innumerevoli uccelli, un colloquio che in fondo è l’isola stessa: prospettiva fisica e metafisica, orizzonte naturale e spirituale si fondono in un tutto inscindibile nel quale paesaggio e allegoria, sguardo e meditazione non possono scindersi. Ogni cosa diviene pentagramma, come fu per il “poeta musicante” Domenico Modugno. Le parole sono faville di memoria, gli approdi e gli attracchi si succedono tra “nostalgia di terraferma” e sirene che chiamano all’avventura, tra arrivi e partenze sul molo. Ma oggi ci sono anche, triste novità di anni più recenti, altri uomini che qui vengono sbarcati da “caronti e caini”, per trovarvi nuove speranze o solo un’anonima sepoltura, e così l’isola “gioiosa per la sua natura bambina” conosce anche l’altrui dolore, quello dei migranti disperati. Gli abitanti, per i quali le barche sono case e il mare stesso “è Casa dilatata nell’immenso”, vivono in un tempo dove risultano “uguali il prima il dopo”: come possiamo allora noi, turisti di passaggio, comprendere le loro radici d’acqua e di vento? Eppure c’è spazio, in questi incontri spesso muti, per incarnazioni o epifanie di “care sembianze / in strane convergenze vegetali animali / segni-orma di altri miei affetti svaniti / annuncio di amorosa presenza”. L’isola è ricca di piccoli miracoli e prodigi, in una fissità dove “l’anima del tempo” è “presente senza confini / mistero nel continuo fluire” e “incerti sempre” sono “l’andare e il venire”. L’osservazione si fa meditazione e conoscenza, immersi “nella verità sensitiva della natura” che dimostra e rende tangibile, una volta di più, “la premura” paterna e affettuosa del Creatore nei confronti nostri e d’ogni sua creatura. Il paesaggio e il pensiero, in questo cammino che prevede (ma non anela) un ritorno, sono viatici verso quell’eternità che qui sembra palesarsi ovunque.

L’attesa, vissuta e scandita secondo i ritmi e i cicli naturali, è tutt’altro rispetto alla smania e all’ansia dei nostri impegni quotidiani, cadenzati da un tempo artificiale con cui intessiamo ore dimentiche di qualsiasi genuinità. L’anima e il pensiero, sull’isola, non possono che interrogarsi, lasciando emergere quesiti che riguardano l’essenza medesima del nostro esistere. L’“ago del sentire”, la “giusta misura delle cose”, le “pasture di Cielo” possono indicare la via per quella sapienza che unica può permetterci di recuperare “risposte di luce” grazie anche alla poesia, “minuta crisalide” e “interiore rifugio” che alimenta, “nel silenzio-mistero delle cose”, germogli di sentimento e consapevolezza. Disponendo di un’adeguata bussola, sostituendo la meridiana del sole al dominio degli orologi e delle agende, si può navigare senza temere le tempeste, in una “avventura unica” nella quale “di noi sia traccia solo su rotte d’Amore”.

Vincere la paura del tempo significa anche riscoprire il valore profondo d’ogni singolo istante, per assaporarne la pienezza come antidoto alla sua apparente fugacità, Una lirica tra le più estese del libro contiene, nel suo titolo, quasi un programma: “La quiete del pensiero in una cala d’amore”. L’intreccio tra queste due dimensioni, quella conoscitiva e quella etico-affettiva, si specchia nella figura dell’”uomo dell’isola” e della sua pacata saggezza che non cerca risposte nella natura, ma semplicemente s’affida alle sue stagioni e manifestazioni. Per parte sua, così l’autrice può dire dell’amore: “Mi chiami se l’onda incalza / il vento disancora e disorienta la vela / tu, mio scoglio, con ferme radici / mi ormeggi per rotte di vita nuova”. Un amore che indaga il mistero, percorre le ere, profuma di “essenze-memorie” e si trasfonde in “terse sillabe dolcemente dischiuse”, per l’appunto quelle della poesia. La quale, lo diciamo per inciso, non trova alcuna limitazione nella novità formale del libro, ovvero nell’interpolazione tra i versi di brani dal carattere riflessivo ed esplicativo: un diario dell’anima, e del pensiero, le cui lucide annotazioni benissimo si affiancano a quella ricchezza inventiva e lessicale che caratterizza, non solo in questo libro, tutta la produzione lirica dell’autrice.

L’epilogo, il secondo traghetto, ha la luce del vespero, del crepuscolo “preziosa reliquia intima di eventi rari”. Sublimazione dell’immanenza nella trascendenza, trova nei “canti” e nei “voli” la propria epifania tangibile, basilare certezza che vince ogni dubbio: la musica della sera è quella del Creato, delicata e potente, immortale sin dall’“infanzia del mondo”. “Colma l’infinito e sazia il pensiero” lo spettacolo di quelle ali “sospese nel sospiro della sera”, in un andare dissimile da qualsiasi altro e nel quale si esprime “una coscienza arcana di appartenenza” che a tutto restituisce un senso, “una risposta ricomposta in un progetto di luce infinito”. Mentre si avvicina il momento della partenza, si compiono dunque la metamorfosi e la trasfigurazione: acqua e aria e fuoco e terra non sono più elementi esteriori, ma fondamenta interiori dell’essere e della poesia “sorgive all’anima per parole nuove”. Tutto si specchia nel mare non meno che nel ricordo, “per rileggere uguale il mondo / dall’alba della terra”. La risposta alla caducità è nella sua sostanziale apparenza, cosicché il viaggio – carico di suggestioni e sfumature – si chiude con la sua antitesi, la rivelazione del “canto perenne della vita”, dei valori eterni che non cambiano né transitano, ma perdurano immoti. Se esiste una risposta è qui, nell’eternità che si rivela, nell’amore che tutto governa, nella poesia che sillaba dopo sillaba esplora e condivide la verità. La piccola epopea “da traghetto a traghetto”, dall’una all’altra riva e ritorno, si conclude quindi senza alcun reale congedo, ma dolcemente sfumata nei viaggi, negli stupori, negli incontri, nei tempi che verranno: quali che siano e saranno, le bussole sono pronte.