Giovanni Lugaresi – Prefazione a Una Padova altra
C’è ancora una “vecchia Padova”? Diciamo, non per i luoghi, ambienti, caratteristici scorci, che non scadano nel banale, nell’oleografico?
C’era, sicuramente, nei primi anni Settanta, così travagliati, così tormentati e drammatici, quando chi scrive arrivò nella “città del Santo”, come ancora veniva da tanti chiamata. Tempi duri, pericolosi, e non tien conto spiegarne il perché: è tutto nelle cronache, nella storia.
Eppure, in quei tempi, ugualmente, si avvertiva ancora vibrare le corde di uno stato d’animo, di un’atmosfera, di un sentimento, che non era retorico definire patavinitas. La Padova della storia e della tradizione, dei grandi maestri e dei dilettanti, che però eran personaggi colti, originali, estroversi. Basti pensare a un Agostino Contarello, volendo tralasciare il dotto ambiente accademico nel quale pure spiccavano personalità come un Enrico Opocher, un Marino Gentile, un Lucatello, un Flores d’Arcais, un Colombo, un Moschetti, un Ferro, un antichista come Franco Sartori, e via elencando, mentre fino a qualche decennio prima, era stata la volta dei Valgimigli, Ferrabino, Marchesi, Valeri, Fiocco, Traina, Branca…
Lasciamo stare, perché il rischio dei ricordi comporta si possa passare da un sentimento virile ad un sentimentalismo avvilente…
Diciamo piuttosto che in questo quadro di storia e di memorie, di presenze attive e di operosità intellettuale, la Libreria Draghi appariva ancora uno dei centri propulsivi di studio e di incontro, di ricerca e di dibattito. Una storia, anche quella della antica libreria della quale era diventata proprietaria la famiglia Randi, ricca di humus culturale e umano. Certo non vantava i fastigi del Bo e del Santo, non gli ottocenteschi retaggi patriottici e accademici, ma era pur sempre, quel che era stata: la Libreria Draghi, caspita!
Ardigò, Bonatelli, i Maestri dell’università, gli intellettuali, narratori, poeti come Marino Moretti, Giuseppe Longo, saggisti, di passaggio a Padova, lì non potevano non fare tappa. A conversare con Giuseppe Randi, il figlio Pietro, il tuttofare Adriano, se non con la Lea, invisibile… onnipresente nei meandri della libreria. Già, la Lea, morta centenaria pochi anni fa, dopo una vita dedicata alla Draghi-Randi, una vita trascorsa nella Draghi-Randi.
Che è scomparsa, come ognun sa. Infertole un colpo durissimo nel 2005, non è passata a miglior vita pochi mesi fa. Essendo incominciata a morire, allora, aggiungiamo soltanto che è passata… e basta. Parce sepulto.
E se prima aveva chiuso i battenti la storica sede, con la storica insegna su via Cavour, per ritirarsi (una sorta di “ridotta”) negli spazi di Galleria Santa Lucia, preludio ad una definitiva chiusura, adesso è rimasto soltanto lui.
Sì, Pietro Randi, 87 anni, nato in libreria, nella cui temperie era cresciuto, respirando di quell’aria che sapeva di storia e di memorie, di parole e di carta stampata, di nuvole di fumo di pipa (ah, quando c’era Manara!), e di voci altisonanti, quelle inconfondibili di Giuseppe Toffanin storico dell’Umanesimo e del filosofo Marino Gentile.
Pietro Randi si è ritirato all’ultimo piano dell’edificio attaccato alla “fu Libreria Draghi” portando seco i “penati”: ritratti di maestri, antiche poltrone, antichi tavolini, scrivanie che hanno una storia. Che potrebbero, potendo parlare, raccontare varie cose: di uomini e di eventi.
Pietro trascorre lunghe ore a vedere, consultare, riordinare, testi e manoscritti, libri e lettere, che un giorno andranno (immaginiamo) ad arricchire gli spazi del Bo.
Ma intanto Pietro è una memoria storica vivente e questo tipo di personalità debbono essere interrogate, con loro bisogno interloquire, perché hanno molto da raccontare, da tramandare. Retaggi che non sono materiali, potenza, ricchezza, bensì preziosi pezzi di intelligenza, conoscenza, di memoria, appunto.
Non sappiamo se Pietro Randi lascerà, il giorno in cui il buon Dio lo chiamerà nel mondo dei più, un diario, un memoriale. Nel frattempo, si è lasciato intervistare. Lo ha convinto in tal senso una poetessa padovana da lui stimata, e che non si limita a pubblicar versi, ma è immersa nella vita
civile, sociale, di questa vecchia Padova: Maria Luisa Daniele Toffanin.
Fosse stato vivo Giuseppe Toffanin jr., questo testo lo avremmo letto, magari in più puntate su “Padova e la sua provincia”, rivista mensile legata anch’essa alla sensibilità di un benemerito vecchio padovano, il commendator Leonildo Mainardi. Ma dove è la benemerita rivista d’antan? Nelle biblioteche, raccolta per annate.
Maria Luisa ha pensato allora a questa plaquette, elegante, come lei, e in sintonia peraltro con l’eleganza (di modi, di stile) di una famiglia che con Pietro, librariamente parlando, finirà, la famiglia Randi.