Prefazione di Mario Richter a La casa in mezzo al prato

Considerato che molti degli amici oggi qui gentilmente convenuti non hanno ancora potuto prendere visione del libro di Maria Luisa Daniele Toffanin, penso che non sia superfluo leggere intanto la “Presentazione” che recentemente ho avuto l’occasione di redigere sull’opera a cui dedichiamo l’incontro di questo pomeriggio.

Una devastante furia improvvisa di vento e pioggia battente ha di recente sfregiato, nel cuore stesso delle Dolomiti, la nobile valle del torrente Pettorina che porta, per chi sale, da Rocca Pietore a Sottoguda e poi s’inerpica, attraverso la stupefacente gola dei Serrai, fino alla Malga Ciapela, ai piedi della maestosa Marmolada.

Questo drammatico evento naturale, che tanto repentinamente ha sconvolto un intero prediletto paesaggio, per una inopinata coincidenza viene ora a conferire un più pregnante, un più attuale e per molti aspetti lacerante significato alla raccolta poetica che poco tempo prima Maria Luisa Daniele Toffanin aveva approntato con intenti amorosamente rievocativi riunendo una ricca serie di sue liriche, vecchie e nuove, scritte negli anni per tenere in vita l’immagine di quel paesaggio (oggi, ahimè, in gran parte perduto), per riaccendere meditazioni ad esso legate, per non perdere emozioni e speranze, senza con ciò rinunciare alla persistente confortante certezza che ogni cosa “muta solo forma” (In quest’ora insieme).

In questa nuova raccolta la poetessa padovana ripercorre dunque mezzo secolo di lunghi e costanti soggiorni montani: tornano in particolare a vivere le giornate estive e soprattutto quelle primaverili, quando il disgelo ripropone e rinnova l’intera natura, magici tempi pasquali vissuti nella contemplazione e nell’amicizia con singolare partecipazione, con profonda commozione, fra gioie e dolori. È tutta una realtà di naturali e comuni presenze che ritrova vita e splendore nella parola poetica, allargandosi alle più remote vicende storiche di un’eletta terra e alle visioni rasserenanti di altre realtà, di altri cieli. Il mondo circostante, via via osservato nella sua specificità, negli accesi colori di prati fioriti, di case, persone, animali, corsi d’acqua, sentieri, di dense zone boschive e imponenti cime, non rimane mai limitato a una dimensione di tipo impressionistico ma è costantemente trasceso per aprirsi agli orizzonti illimitati che danno senso al vivere, per raggiungere valori soprannaturali di grande respiro e di mistica intensità. Il normale “creativo quotidiano”, il comune “tempo fragile” assurgono all’ “immenso”, al “sempre”, all’”eterno”, termini che appunto ricorrono con sensibile frequenza nelle pagine di questo libro, a cominciare dal “prato immenso” che circonda la “bianca casa” condominiale, per tre generazioni annualmente allietata da rapporti di cordialità e amicizia. Si direbbe che nella Daniele Toffanin sia perennemente attiva e felicemente personalizzata la suggestione dei versi di Leopardi, addirittura quelli gloriosi dell’ Infinito. Ma ciò che per il poeta di Recanati rimane soltanto una “finzione” del pensiero (“…io nel pensier mi fingo”) diventa in lei una realtà oggettiva, forte e presente, comunque percepita con tutto lo stupore che si ha di fronte al mistero. È una trepida e commossa certezza che si rivela nell’ “eterno muoversi del Creato”, nella “bellezza provvida del Creato”. Pur attraversando con pena le tante zone d’ombra che la vita inevitabilmente impone a ogni essere umano, Maria Luisa Daniele tiene fermo lo sguardo verso la luce, verso l’altrove, sapendo trarre dalle cose più umili e apparentemente insignificanti le ragioni segrete della gioia (penso, in particolare, a La danza della gioia). Maria Luisa non perde mai la speranza, perché, al di là di ogni sconvolgente offesa operata dalla Natura, sa che permane vigile in lei, nell’ ”orologio del cuore”, la ricarica di un “risveglio infinito”.

Mi sia adesso consentito leggere e commentare brevemente alcuni componimenti del libro (cinque in tutto) che a una prima lettura hanno più vivamente suscitato il mio interesse. A questo proposito, non vorrei però che si pensasse che sono queste le uniche poesie che valgono. Ce ne sono ovviamente molte altre, credo di poter anche dire tutte. Il fatto è che, nella lettura di un libro, non tutti i momenti sono uguali: a ogni nuova lettura si scoprono aspetti che in precedenti occasioni erano sfuggiti. La mia è dunque soltanto una scelta iniziale, sicuramente provvisoria, sufficiente comunque a mostrare alcune importanti e significative caratteristiche della poesia di Marisa Daniele Toffanin. Chiedo la vostra benevola comprensione per una lettura che non sarà certo particolarmente brillante, se non altro per via della mia voce, che da qualche tempo si trova a essere un po’ insidiata dalla stagione fredda. Ci vorrebbe qui il bravo Federico Pinaffo… Ma per il momento occorre che ci si accontenti di me.

Immagini e suoni agordini

Una parola sola
intrisa dei colori di ghiandaia
graffiata dall’anima sua
inquieta e selvaggia
sonante come voce di ruscello
e renderò la tua bellezza eterna
o Val Pettorina
ove dolce il cuore s’annida.

E tu parete sud
prodigio della Marmolada
di titani sei palestra vibrante di gesta.
A canne di roccia sei organo immenso
per musica primordiale dal verso percepita.
La dilaterò infinita in questa arcaica
basilica-petrosa storia di terra.

Malga Ciapéla, settembre 1997

La Val Pettorina “inquieta e selvaggia”, qui osservata dalla Malga Ciapèla, suscita sentimenti di “bellezza eterna”. Il ritmo si carica, fin dall’inizio” di un andamento solenne e celebrativo, quasi commosso, fino ad allargarsi, nella seconda parte, all’imponente parete sud della Marmolada, palestra di leggendari scalatori e, con le sue “canne di roccia” che la fanno assomigliare a un organo, “musica primordiale”, musica grandiosa che, annuncia l’Autrice, soltanto la poesia, con le

Quasi tu arbusto

a Teresa
E tra i rovi andavi
con calzari di foglie

leggera a catturare
molli rubini.

Sole liquido vivo
succoso tra le tue dita
turgida gloria del verde.

Nell’odore antico
t’inebriavi
quasi tu arbusto

e dipanavi i rovi
della tua storia filando
le ore smemorata

dell’enigma del dopo
accesa ad inventare
rubini turgidi nella tua sera.

Boscoverde, agosto 1998

Qui, nella forza trasfiguratrice della memoria di chi scrive, si riaccende la visione di una persona che ha nome Teresa, un’amica (si direbbe) felicemente impegnata a cercare fra i rovi “molli rubini” (forse lamponi o ribes). La natura montana e boschiva (con le sue foglie, con i suoi rovi, con il suo sole, con il suo verde) si fonde con quella figura umana e femminile osservata nel suo festoso e leggero movimento fino ad apparire anch’essa un arbusto (o quasi). Nelle due strofette conclusive, tutto ciò sembra realizzarsi, alla luce del ricordo, sopra uno sfondo vagamente malinconico. Ma si tratta di uno sfondo il cui aspetto malinconico (forse anche drammatico) appare come cancellato, come reso inoffensivo da una felicità vissuta in un vivo presente riemerso dal passato, una felicità ignara dell’ “enigma del dopo”.

La bellezza di questo testo sta soprattutto, a mio parere, nella compenetrazione delle immagini e dei colori. Così avviene, ad esempio, in quel “sole liquido vivo / succoso fra le tue dita / turgida gloria del verde”, dove il sole si fonde con le bacche turgide dei rovi e con il verde umido del bosco (Se ricordo bene, nella quarta di copertina di Per colli e cieli insieme. Mia euganea terra, Zanzotto chiamava “consustanzialità” questa speciale compenetrazione di immagini e colori). C’è anche da notare che la visione si organizza e si sviluppa intorno alle parole “rovi” e “rubini”, fino a concludersi con un inquieto endecasillabo (“rubini turgidi nella tua sera”). Il rovo è associabile, con le sue spine, ad aspetti negativi, mentre il rubino è una pietra tradizionalmente legata alla felicità.

Pastore di luce

Pensieri a sera addossati al cielo
quasi gregge di nuvole in attesa

sei tu, mio Dio, il pastore di luce
che illumina il respiro della mente
con promesse-proiezioni interiori

di luminosi pascoli
approdi ultimi stazzi sicuri
prima che la tenebra ingoi la speranza

ché in un plumbeo baleno
d’improvviso muta il celeste
pavido si scompiglia il gregge
gravide si colmano le nuvole
naufrago si perde il pensiero.

Larzonei, agosto 2007

La visione è qui, insieme, pastorale e metafisica. Tutto si attua in una felice fusione di aspetti del reale che la comune esperienza tiene normalmente distinti (il gregge è a terra, le nuvole sono in cielo, ecc.). Si parte dai “pensieri” che si possono fare nel momento in cui, osservando il cielo prossimo al tramonto, sono ancora visibili le ultime nuvole. Queste hanno l’aspetto di un gregge a cui gli stessi pensieri si assimilano (un “cielo a pecorelle”, si dice). La situazione pastorale porta a un commosso riconoscimento dell’autore di tutta questa incantata situazione luminosa: “Sei tu, mio Dio, il pastore di luce”. Credo che la maggiore suggestione di questa poesia stia proprio nella così ben riuscita fusione di terra e cielo, di pensieri e gregge, di un reale gregge montano e un gregge celeste, fino a che si rivela il divino pastore. Ma c’è anche la nota drammatica, associata alla rapida scomparsa, col tramonto, del “pastore di luce”. Ecco infatti che sopraggiunge la “tenebra” e, con essa, si dissolvono anche i pensieri-gregge che si sono appena espressi in una estatica confortante riconoscenza da parte dell’osservatore. Ogni cosa naufraga in un cielo ottenebrato, il cui carattere impietoso sembra trarre particolare forza dai tre versi conclusivi, ognuno dei quali si apre con una parola sdrucciola (“pavido”, “gravide”, “naufrago”).

Occhi da vedere

Si ribalta la pietra delle nubi
e, alba svelata dal sepolcro,
esplode la Resurrezione:
azzurro di cieli nuovi, lontani
oltre l’umano, mondo promesso
a consolare lacrime di terra.

E svaporano i boschi intorno
dal sudario delle nevi.

Dammi Cristo occhi da vedere.

Santa Maria Maddalena, Santa Pasqua 2007

Il giorno di Pasqua del 2007 offre, nel suo primo apparire, l’immagine della Resurrezione: è rimossa la “pietra” delle nubi, si rivela l’alba dal “sepolcro” della notte, si dissolve nei boschi il “sudario” della neve. Con l’azzurro, che si fa immagine dell’ “oltre l’umano” e consolazione delle “lacrime di terra”, si annunciano i promessi cieli nuovi. Tutto questo potrebbe essere nient’altro che una bella e poetica illusione. Per capire con pienezza e sicurezza la Resurrezione di Cristo occorre l’umiltà della preghiera, occorrono occhi capaci di vedere con la luce della fede. Determinante è dunque il verso conclusivo, opportunamente isolato in tutta la sua forza supplichevole: “Dammi Cristo occhi da vedere”.

Pensieri nel tempo
a Massimo

Nell’azzurra luce
nella distesa smeraldina
noi siamo sentieri
che salgono insieme
all’innocenza prima
del cielo e della terra
e posano i passi del giorno
nella mente di Dio.

Tenera luce
la tua presenza
come cielo al sole vesperale
posato su bianchi declivi
come la prima orma accesa
sulla neve al mattino pura
come prato di colchici
perlati di rugiada.

Corde di luce
chiudono in cerchi d’oro
noi esili cime di faggi
foglie di antica ruggine
nel canto di cince al sole.

senza tempo

Questi versi ci fanno certo capire che la trama di base è una normale gita a due, un’ascensione per sentieri fra prati e boschi, su distese innevate, illuminate dal sole. Ma anche qui, come in molte altre parti del libro, assistiamo a una suggestiva fusione di uomo e natura. Camminiamo anche noi lettori attraverso la scomposizione, la ricomposizione e la trasfigurazione di una realtà che potrebbe in sé essere banale e che qui, al contrario, ci introduce nel mistero inatteso e profondamente vero della corrispondenza affettiva tra l’uomo e il mondo. È un mistero che, per una segreta via poetica scandita dalle tre strofe guidate dalla luce (“Nell’azzurra luce; “Tenera luce”; Corde di luce”), porta alla luce creatrice della “mente di Dio”.

Adesso, per concludere, lasciatemi dire, in due parole soltanto, che cosa, fin dall’inizio, ha suscitato in me il fascino e l’interesse per la poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin. Nei versi di Marisa ho avvertito, fin da subito e poi sempre, la freschezza come di un’abbondante acqua sorgiva, un’acqua accolta generosamente, entusiasticamente e senza riserve nel suo immediato fluire, lasciata scorrere nel suo felice impeto senza che ne sia interrotto il naturale e libero flusso con dubbi e ripensamenti, magari anche a costo di lasciar passare alcune lievi impurità. I versi, che sono polimetri e apparentemente privi di particolari pretese o ostentazioni metriche di tipo intellettualistico, tendono a rispettare questa realtà viva e spontanea della natura sentita come verità e come dono.