Prefazione a Diario Pandemico al Vento dei Fiori di Stefano Valentini

Ciò che è accaduto nel 2020 e nei due anni successivi, dapprima con la chiusura e sospensione generalizzata di quasi ogni attività e, in seguito, attraverso le limitazioni sanitarie e i provvedimenti di precauzione, è qualcosa che nessuno aveva né avrebbe immaginato: un sovvertimento, segnato da disagi pratici e da un’inquietudine perdurante e pervasiva, d’ogni abitudine e certezza, che ha toccato letteralmente tutti, adulti e anziani, giovani e giovanissimi. Un “tempo sospeso” nel quale ogni appetito vitale è stato soffocato, ogni aspirazione congelata in attesa di una ritrovata libertà che nei momenti più duri è sembrata un traguardo irraggiungibile e che, tuttora e chissà per quanto, patisce conseguenze psicologiche ed emotive. Come un respiro interrotto a metà, come fosse divenuto impossibile riempire d’aria i polmoni anche quando le cose sono, poco a poco, tornate “normali”: normali, ma non del tutto uguali a prima. Per moltissimi è stato tempo di tragedia, segnato dalla contabilità quotidiana delle vittime, ma anche chi ha superato indenne la minaccia fisica del virus non potrà mai dimenticare quanto accaduto e le immagini, le sensazioni, le paure di quei giorni.

Sin dall’inizio, quando niente era certo oltre al fatto di trovarsi di fronte ad un nemico sconosciuto, qualcosa senza precedenti nella nostra epoca, si volle appellarsi ad una speranza, ripetuta come un mantra consolatorio: “tutto andrà bene”, ne usciremo e saremo migliori. Ciascuno può valutare e opinare se sia stato, o meno, davvero così. Ma, per provarci o riuscirci, ciascuno ha comunque dovuto attingere, da solo o con altri, a risorse personali, interiori e sociali che permettessero di conservare un orientamento, un equilibrio, una consapevolezza, mentre tutto sembrava avverare i peggiori timori.

Si trova precisamente qui il senso di un libro come questo. Inizialmente, quando l’autrice mi accennò al suo progetto, ho avuto la stessa istintiva perplessità che avrebbe avuto chiunque: se fosse il caso di tornare a parlare di un argomento, e un periodo, che tutti (nessuno escluso) desideriamo lasciarci alle spalle e, per quanto possibile, dimenticare. Non nutrivo dubbi sulla qualità, in sé, della parte poetica: la bibliografia dell’autrice, da venticinque anni a questa parte, testimonia l’indiscutibile pregio e talento della sua arte espressiva, che si ritrovano intatti anche nei versi scritti nel periodo oscuro della pandemia. Ma il resto, i raccordi per così dire diaristici? Non sono, come in altre sue opere, prose liriche bensì cronache, ricche sì di sensibili considerazioni e stimolanti articolazioni, ma anche minuziosi e precisi resoconti della cruda realtà che si manifestava giorno per giorno, come dimostrano le inevitabili reiterazioni: ora derivanti dalla volontà di rafforzarne e ribadirne i concetti, ora dovute al fatto che i capitoli non si aggregano in forma esclusivamente lineare e cronologica ma anche tematica e, quindi, sono esposti a riprese e ripetizioni. Non mirano, pertanto, a trasfigurare letterariamente ciò che è accaduto, men che meno ad abbellirlo, ma a rievocarlo senza sconti verso sé e verso chi legge.

Certamente tali pagine rispondono ad un’esigenza anche individuale, quella di “mettere ordine” in un periodo confuso nel quale si procedeva letteralmente giorno per giorno e ora dopo ora, aggrappati ad uno stillicidio di notizie che raramente confortavano: una strategia cui tutti, ciascuno secondo le proprie possibilità, abbiamo dovuto ricorrere per dare un significato a ciò che accadeva e che, nell’immediatezza dei giorni, sembrava non avere termine né senso. Questa necessità di riepilogo, di riordino, di ricerca di un disegno “a posteriori” spiega la quantità di ricordi e aneddoti inseriti nella narrazione, di ordine non soltanto collettivo ma anche personale. I quali, tuttavia, non hanno nulla di capriccioso, sono invece tessere di un mosaico esistenziale che nella quotidianità doveva trovare appigli e riferimenti (si veda il capitolo forse più originale, quello sulle camicie) e che li ha reperiti, essenzialmente, in quattro direzioni e dimensioni. Nella poesia, innanzitutto, di cui diremo meglio più avanti, che è da sempre compagna assidua delle ore dell’autrice e ha reso fruttuose anche stagioni così controverse e cupe. Nella memoria, derivante da una vita ben spesa e ben vissuta, ad iniziare dal rapporto con la propria famiglia d’origine, con il padre e la madre le cui figure e il cui ricordo affiorano nei vari capitoli come radice indissolubile e fondativa di un approccio etico all’esistenza.

Poi, ed è la terza direzione, nello strettissimo e fecondo legame con la natura: quella dei luoghi amati come il mare o la montagna, ripensati nei giorni in cui erano interdetti e poi rivissuti quando si è potuto tornare a frequentarli, ma anche quella ancora più intima e raccolta, dal circostante territorio euganeo fino al proprio giardino, inesauribile fonte di continua meraviglia. Una natura che appare centrale sin dal titolo, con l’esplicita invocazione-benedizione del “vento dei fiori”, e che nelle sue perenni rifioriture e meraviglie è segno e prodigio tangibile di un Oltre, sempre evocato con fede salda e matura, e al tempo stesso suggerimento di un vivere altro: stilema, questo, molto caro all’autrice, per indicare ora valori appartenuti a tempi passati, ora le opportunità per riscoprirli – nonostante molto sembri avversarli – nel qui e adesso.

Ma ad emergere, pagina dopo pagina, come tessuto connettivo dell’intero discorso, è la dimensione della comunità, resa esplicita da una parola – insieme – che appare insistentemente quale benefico e beneaugurante mantra, cardine e pietra angolare, motivazione prima e vigorosa di quel desiderio di “uscirne migliori”. Un essere insieme nonostante la lontananza, le limitazioni, gli spazi obbligati, le restrizioni: dialogare, pensare, riflettere, progettare, soffrire, gioire insieme. Insieme a familiari, ad amici (quanti, quanti ne vengono ricordati e nominati, tra chi c’è ancora e chi non è più, facendo così di questo libro anche un autentico inno all’amicizia), a chi è parte amata del nostro cammino, presente o passato, in vista del futuro. È questa la vera risorsa che permea quest’opera particolarissima, differente da qualsiasi altra che la pandemia abbia ispirato; è questa la tempra, morale e umana, sulla quale tutto si è retto e si regge, testimonianza che diviene esempio di come si possa sopravvivere ad un’avversità indecifrabile. La pandemia è stata una traversata nel deserto, spogliati delle nostre sicurezze, dei nostri desideri, delle nostre abitudini: lo è stata tanto per gli adulti quanto per i giovani e i giovanissimi, deprivati della socialità rappresentata dai momenti di svago quanto, e soprattutto, da quelli scolastici, malamente sostituiti dalla didattica a distanza. Ragion per cui proprio la scuola è un altro tema che occupa ampio spazio nelle considerazioni dell’autrice: la quale è stata insegnante, coltiva tuttora molte amicizie, conoscenze e attività nell’ambiente ed è nonna di due giovani studenti che, in quanto tali, hanno dovuto a loro volta destreggiarsi nella situazione, con il supporto dei genitori e appunto dei nonni.

La poesia, così copiosa e compagna nei giorni e nelle ore, si manifesta come la più preziosa delle risorse. Ma non è soltanto espressione e sollievo personale, soliloquio intimo, registro di eventi (esteriori e interiori), trasfigurazione dello sgomento in forme di bellezza e stupore: è tutto questo ma, anche e soprattutto, occasione e motivo di dialogo e incontro. Con amici, conoscenti, con chi è prossimo e chi è invece lontano, nello spazio o nel tempo; un parlarsi concreto tra sodali oppure ideale, con figure che divengono baluardi di riferimento. Rilievo particolare assume il colloquio con gli amatissimi nipoti, Giulia e Alessandro, la cui presenza è uno dei temi-cardine dell’intero diario: nipoti che rappresentano la primissima gioventù alle prese con una situazione per loro quasi incomprensibile e lo stravolgimento di tutte le abitudini, dalla frequenza scolastica al ritrovo con i coetanei, fino alle più normali occupazioni quotidiane.

L’autrice, più volte, ribadisce di sentirsi una privilegiata, in virtù di ciò cui ha potuto fare appello per affrontare il periodo terribile: i valori dell’amicizia, della memoria, della fede, dell’intelletto, della scrittura, dell’amore per la natura. Persino disporre di un semplice giardino, con le sue meraviglie fiorite e fiorenti, è una benedizione salvifica, a fronte dei moltissimi invece costretti, per le disposizioni normative, entro le quattro mura dei propri appartamenti. Di tutto questo Maria Luisa Daniele Toffanin si mostra non soltanto consapevole, ma profondamente grata, e proprio tale sentimento di gratitudine è un ulteriore motivo che permea prosa e versi. A ribadire che persino nelle circostanze peggiori, nelle più controverse, la vita può donarci occasioni di bene e di bello: sta a noi saperle cogliere e apprezzare, valorizzarle, trasformarle appunto in risorse mettendo in gioco le nostre abilità, attitudini ed esperienze.

Il diario, in realtà, rimane aperto: gli ultimi capitoli sono costretti a confrontarsi con un presente nel quale, alla pandemia (non scomparsa, ma si spera domata), si è sostituito lo strazio della guerra ai confini d’Europa, “inutile strage” un secolo addietro come oggi. Una situazione davanti alla quale, purtroppo, ciascuno di noi si scopre impotente, più ancora che a fronte della stessa pandemia quando, nel proprio piccolo, era almeno possibile adottare comportamenti utili a fronteggiarla: una strategia sicura per arrivare alla pace invece non c’è, se non appellandosi – individualmente, idealmente – alle risorse di cui abbiamo detto. Tra le quali, non sarà inutile ribadirlo, quella di scoprirsi ed essere insieme, ciascuno come può, rimane la più valida, quantomeno per conservare il bene più prezioso: la nostra umanità.

Ma è la poesia, come detto e com’è naturale, a rivelarsi la prima tra tutte le risorse: non tuttavia tale soltanto per sé, ad individuale rifugio, ma anch’essa come ragione e opportunità di dialogo e colloquio. Una poesia che, tra canto lirico pieno e lucidità di analisi (e, quando necessario, cronaca), non soggiace al generico e scaramantico ottimismo dell’“andrà tutto bene”, ma esprime una fiducia basata su valori solidi e certi, in grado di mediare “tra affanni e prodigi”, di delineare gioia e armonia nonostante l’attesa “scesa a quota minima” e il morbo “usurpatore” che attenta anche alla psiche, con “gli affetti rateizzati i gesti assediati”, le “cose di ogni giorno d’improvviso smarrite”, le persone “memorie di vita-saggezza” ridotte a tragiche statistiche.

Si respira una profonda pietas non solo per le vittime ma, in generale, per la condizione di tutti, che induce a riscoprire il valore delle gioie autentiche e minute. La “brezza della preghiera” è sia appiglio di fede, sia una nuova lettura della realtà, stagliata in una luce terrena e ultraterrena ad un tempo. Il poeta, persino involontariamente (“mi canta però dentro sempre / il canto di un cantore misterioso”), è “custode di memorie profeta sempre”, giuntura tra passato e futuro che incardina il presente in un orizzonte nel quale “c’è sempre una parola nuova / che s’agita nell’intimo con frenesia / attende di diventare nota di un altro canto / di farsi per noi conforto-colloquio”. Anche tra le diverse generazioni, messe alla prova come mai in precedenza: “Noi foglie d’autunno, poeta, in questa trincea virale / dobbiamo divenire chiome le più frondute / le più ampie per dare a voi giovani nipoti / ai vostri padri sfiduciati rifugio fiducioso conforto”. E, allargando l’orizzonte, anche nel confronto con le tracce delle umane vicende, con le “risorse immense / scaturite dalla storia sortite come aquile nei cieli sempre / dopo ogni inattesa vampira calamità”. Una poesia, pertanto, che chiama a raccolta – per farne tesoro – ogni possibile esperienza, personale e storica, individuale e collettiva. Decisivo, poi, il richiamo all’infanzia propria e a quella futura, con ogni nascita in virtù della quale “non può morire il mondo”.

“In un vortice oscuro mistero / raccolgo ovunque l’umile bellezza”, afferma l’autrice, poiché “urge sempre la forza dello spirito”: “siamo in un infinito fluire / minuto laboratorio di invenzioni e sapienza / siamo quello che costruiamo / con le nostre mani, coi nostri pensieri”. Un atteggiamento, quindi, non passivo bensì attivo, partecipe, combattivo e risoluto, nel quale tempo eterno e tempo quotidiano s’intrecciano e sovrappongono: “oltre la nostra immanenza / s’aprono orizzonti infiniti che il pensiero / travalica per risposte al globale patire”.

La fantasia, con le sue ali che sollevano ad una “libertà virtuale”, non è ragione di fuga o isolamento: piuttosto una “reciproca reinvenzione” nella quale “la bellezza pura si rivela / in amalgama di Buono-Bello / etica stella per il nostro vivere insieme. / Così la natura il Vero ci svela / in forme altre altre / di divina architettura”. Ed è appunto la natura, sin dal titolo del libro che evoca “il vento dei fiori”, la protagonista assoluta di questa poesia. Una natura fertile e copiosa, policroma e variegata, paradigma di continua rinascita. Il dono-privilegio di un giardino (anzi, di un “cielo-giardino”) è, di per sé, condizione salvifica, “trincea” di resistenza e difesa, “splendida congiunzione di colori-vita / segno dell’amore-concordia che percorre / da sempre l’universo, nostra fede ancora”. Un osservatorio-scrigno di “beati pensieri sicuri” nel quale bastano gli “annunci di buono” di un piccolo nido o della “gioia-rinascita di ogni gemma” per provare “fede nel dopo”, la “certezza salvifica del bello”: “mi basta il poco”, dichiara l’autrice, ma un poco che è “specchio divino” e, pertanto, è in realtà tutto. Anima vegetale, armonia vegetale, terapia vegetale, amicizia vegetale, “vegetale premura, / fremito d’amore che percorre il Creato / fino a carezzare il cielo”: è “il buono che passa da un giardino all’altro”, i “riti del creato ripetuti così inesausti” nei quali “ogni fiore la sua ombra, la sua luce / ogni pianta un colore per la sua fioritura”, in una “convivenza armoniosa-alleanza / fra specie diverse” che è paradigma di un’armonia superiore e globale, la “provvida cornice” di un “prodigio d’appartenenza” ad una natura “gloriosa” nella sua “etica estetica fusione”.

Il confronto con la natura instaura e nutre un “colloquio infinito” con il Creato, “segno dell’amore-concordia che percorre / da sempre l’universo, nostra fede ancora”, nonostante il dolore “segno indelebile nella storia eterna”. Ne deriva una “bellezza d’armonia-dolore insieme” in grado di fronteggiare “un progresso bugiardo / che non sappiamo più ricondurre / nel suo scranno etico”, imprigionati in questa “arrogante / presunta civiltà-matrigna” (a differenza di Leopardi, in Maria Luisa Daniele Toffanin non è la natura ad essere matrigna, ma la realtà distorta che veneriamo appunto come progresso). Così, “una farfalla bianca leggera / richiama innocenza nel virgineo volo / verso nuovi inattesi approdi” e “altre sinergie si incontrano / nell’umana opera creativa / inesausta nei suoi sogni puri”. La poesia, la purezza dello sguardo, la creatività (non come semplice scrittura, ma come attitudine dell’anima) divengono viatico per cogliere la “minuta eternità che si fa canto iterato”, attraverso “parole che mi colmano d’immenso sereno”.

Oltre al giardino, “floreale fervore del creato”, gli altri luoghi-specchi d’infinito sono quelli montani e marini, soggetti di un lungo capitolo arioso e splendente, tra la “quota elevata di stupore” delle vette e l’allegoria delle rive: “nel silenzio interiore / è pace là ove danza e musica / si fondono nell’indicibile assonanza / del moto del suono dell’onda / carezza sul corpo e l’anima”, mentre “l’attimo dell’onda leggera sul piede / è l’umano nostro limite / l’umano nostro infinito”.

Tutto appare intriso d’un sentimento di “attesa viva nel dopo”, elemento peraltro decisivo nell’intera opera dell’autrice (non solo quindi in questo libro). Un’attesa-stupore-meraviglia, una “vocazione alla vita” di fronte al “procedere del Creato”, al continuo manifestarsi e rinnovarsi, sicché “dove sembra la fine improvvisa della strada / là può sorgere un nuovo inatteso cammino”, in una “reciproca premura / all’armonioso insieme” che è “comunione del medesimo pane-fiore di vita”: “noi foglie d’oro fragili / nella brezza celeste a fare humus di terra / tutte nell’armonioso divino progetto”.

Tutto si proietta nell’eternità, “dalla Parola vinto s’arresta / il Tempo e si condensa nel silenzio”. è la sublime sospensione dell’istante, la possibilità di accedere ad una realtà altra e oltre rappresa in “un attimo / di puro stupore e meraviglia / un attimo d’eterno apparso scomparso / fissato entro la cornice dell’umano tempo, raccolta / di impensabili istanti indicibili”, varco ad indicare “una nuova libertà / a misura dell’umano limite / ma gloriosa nel grembo / dell’eterna bellezza”, nella quale le “antiche Parole” divengono “risposte di vita nuova”. Sono le parole “di chi ascolta in sé il Creato / che ovunque parla dentro e fuori di noi”, le “storie di semi di linfa / di foglie bocci / nel diramare di forti radici”.

Il discorso-cammino iniziato nella costrizione del lockdown, così, approda a rivelazioni vertiginose e abbaglianti, dal fulgore quasi dantesco: “forza vitale che percorre sottesa / e l’intimo spazio e il creato tutto intorno / fino all’ultima stella mutata in luce / guida conforto faro per sentieri-ponti-approdi / d’amicizia e nuova alleanza”, “rossi grani d’amore in un nuovo rosario fiorito / recitato con occhi di cielo e mani di foglie / tuttinsieme nell’umile gloria del creato”, “nel vento dei fiori / il respiro-risposta ai nostri quesiti. / Nella parola-luogo dell’anima / è prodigio d’incontro d’insieme / uguali diversi della stessa umana sostanza”.