Pierangiolo Fabrini – Introduzione a Segreti casentini ed oltre a primavera

La silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin trae ispirazione dal paesaggio del Casentino, una vallata dell’aretino in cui scor­re la prima parte del fiume Arno. Il Casentino è una terra anti­ca dal fascino inconfondibile, ancor oggi molto bella con i suoi borghi medievali, quelli più grandi e noti del fondovalle come Poppi, Bibbiena, Pratovecchio, Stia, e quelli montani, piccoli e quasi sconosciuti, con le sue suggestive pievi romaniche, con i suoi luoghi altamente spirituali immersi nelle splendide foreste, come Camaldoli e La Verna, e con la sua natura incontaminata.

Il Casentino ha certamente una storia molto antica e per certi aspetti misteriosa: era abitato sin dalla più lontana preistoria e nel periodo etrusco vi sorsero molti siti e importanti luoghi di culto quali il “Lago degli idoli” sul monte Falterona, in cui sono state recuperate nel tempo migliaia di statuette votive e suppellettili di culto; la pieve di Socana fu edificata sulle rovine di un tempio romano a sua volta edificato sulle rovine di un tempio etrusco, del quale si conserva un’ara del V sec. di grandi dimensioni. Nel Medioevo ebbe particolare risalto per le vicende legate al centro Italia e all’espansione fiorentina; e forse il fatto storico e lettera­rio che l’ha reso più famoso è la battaglia di Campaldino, che si combatté fra i Guelfi, prevalentemente fiorentini, e i Ghibellini, prevalentemente aretini, l’11 giugno 1289. La vittoria dei Guel­fi, dovuta soprattutto al ruolo di Corso Donati e alla decisione, da parte dei Guelfi, di muovere contro Arezzo non passando per il Valdarno ma valicando il passo in prossimità dell’attuale Consuma per procedere verso Arezzo passando dal Casentino, comportò la progressiva egemonia di Firenze sulla Toscana. La tradizione popolare avvolse questi eventi di un alone romantico e leggendario, alimentando fantasie di miti e di inquieti fantasmi. Dante Alighieri, che – secondo gli antichi biografi – avrebbe par­tecipato alla battaglia militando fra i feditori di Vieri dei Cerchi, dette il suo contributo riportando parte della sua esperienza nel­la Divina Commedia.

La silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin si compone di di­ciassette liriche dense e pregnanti, eppure leggere e quasi eva­nescenti: in pochi tratti sa disegnare un quadro che si allarga ben oltre i confini del paesaggio, sostenuto dalla leggerezza dei colori, dei suoni, delle fragranze, comunicati e suggeriti con un lessico sempre suggestivo e allusivo e con una ricchezza di ca­pacità espressiva originale ed efficace; il linguaggio dispone di una straordinaria varietà di figure e di traslati (quali metafore, sinestesie, metonimie, ossimori, anastrofi, assonanze, anafore) che conferiscono immediatezza comunicativa ai suoi versi di raf­finata fattura, senza mai indulgere in ornamenti leziosi e super­flui. I versi si snodano con un fluire ritmico armonioso, che crea melodiche sonorità e che accompagna e commenta lo sgorgare delle immagini che emanano con naturalezza dalla sua tavoloz­za. L’autrice ci guida in questo paesaggio naturale dal fascino inconfondibile immerso in un’atmosfera di mistero e di magia, che ci parla attraverso un sequenza ininterrotta di luci e ombre, di colori, di armonie, di profumi, che, spesso mescolandosi e in­tersecandosi tra loro, penetrano nell’anima invadendola tutta.

Le liriche che compongono la silloge rappresentano quasi le tappe di un itinerario interiore, che percorriamo accompagnati dalla poetessa nel procedere del cammino attraverso la vallata.

La metafora del viaggio attraverso il Casentino disegna un percorso contrassegnato da quadri situazionali in cui si crea una sorta di progressiva trasformazione a seguito di una interazione misteriosa tra la poetessa e la natura, che diviene una simbiosi in continua evoluzione.

L’autrice inizia ponendo il quesito (la prima poesia è intitola­ta, appunto, Quesito), da cui ha origine la ricerca che da sempre assorbe tutte le sue energie, per concludersi, alfine, con la Rispo­sta (il titolo dell’ultima lirica) a cui l’ha condotta il suo incessante approfondimento.

Se percorriamo le tappe di questo cammino che si snoda at­traverso l’ambiente naturale, liberandosi progressivamente delle scorie materiali per attingere ad una dimensione eterea e rarefat­ta che è il preludio del divino, incontriamo tutti gli elementi che secondo l’autrice possono condurre alle risposte che andiamo cercando, e in particolare quella che è la chiave di tutto, cioè «il mistero del vivere».

Secondo la Daniele Toffanin è possibile arrivare a dare risposte agli interrogativi che ci tormentano solo attraverso un processo di progressivo accordo con la natura, nella quale sono celati tutti i segreti e i misteri su cui tentiamo di far luce; ma occorre saperci avvicinare alla natura con gli occhi e il cuore che hanno l’inno­cenza dei bambini ed essere in grado di entrare in sintonia col creato con amore e con la fiducia che ci si possa accostare «al suo Principio ispiratore»: «Armonia-sinfonia / angelico profumo /che consola sempre dentro / s’offre all’uomo in comunione / per un divino progetto / cromatico d’amore / che più s’accosta / al suo Principio ispiratore / più di Lui s’illumina / e arde a nuove rivelazioni».

Nella prima lirica le «ore giorni in afasia di voli», le «sinistre voci-immagini / afrore di caduta interiore», la «corda lanciata dal cielo» che viene descritta come «un albero gemmato di purezza», «una foresta di luce illibata / irradiata dall’alto» ci introducono subito nel cosmo dell’autrice, tutto foggiato dalla leggerezza di colori, suoni, profumi. Solo attraverso questo universo impal­pabile e quasi evanescente – eppure così concreto – è possibile attingere al vero che sta «oltre», al significato del «mistero del vivere», rintracciabile solo in una dimensione spirituale, non infi­ciata dalla corporeità quotidiana.

È infatti una realtà che si può cogliere e indagare esclusiva­mente abbandonando la corposità del «mortale scivolo» in cui ci troviamo immersi. Di questo «altro» mondo percepiamo la reale esistenza, ma solo entrando in contatto e in sintonia con la natura incontaminata possiamo avvicinarvisi e tentare di percepirlo in modo adeguato; per l’uomo è indispensabile cercare di attingere a questa «altra» dimensione perché è lì che possiamo trovare la risposta a tutti i «quesiti», è lì che è custodita la chiave di lettura di tutto l’universo, che non si lascia cogliere se non attraverso un processo costante di «sublimazione» che richiede tutte le nostre risorse interiori.

Anzitutto Le trame di armonia: la natura crea i «leggiadri accordi / a primi tepori / dell’ultimo inverno» e con la «luce esplosa dalla / pietra-miracolo […] accende lo spirito / a nuove visioni». Sono gli accordi di suono e di immagini che formano un quadro armonioso e che fanno percepire la «Presenza altra» che è la sola in grado di creare il «globale accordo», in cui l’ani­ma può sostare a «risanarvi». Nelle liriche Fragile magia e Mu­sica di foresta la «lieve primavera» crea un «Affresco rosato / smemorato in foschie / di nuvole già basse / affresco pompeiano / di rosso raro acceso / in spigoli di sole». Il gioco di colori e di suoni che si intrecciano compongono un quadro di magico stupore («intima musica / stemperata in acquerello / d’arboree tinte») che riverbera il «divenire eterno» e permette a noi mor­tali, temporaneamente immersi nelle ambasce della vita terrena, di assaporare «rivoli di gioia», di presagire il «fiore della vita». Il paesaggio naturale è un immenso tesoro che custodisce i se­greti del passato e le speranze del futuro, e immergendosi nella natura e nel paesaggio vissuto si possono ritrovare le tracce e le memorie del passato, che rappresentano l’unico elemento su cui possiamo contare per fornire una base solida alle speranze. Ne risulta un processo di comunione, di identificazione, di un intrecciarsi originale e suggestivo di rapporti e connessioni, sì che la poetessa finisce per immedesimarsi e immedesimarci nel paesaggio naturale.

Nella lirica E altri stupori altre suggestioni emanano dalle se­grete «memorie» che il paesaggio nasconde in «festa di vita» (me­scolate «tra fiori di morte»), di cui siamo felici di far parte, e che si manifestano misteriosamente e magicamente attraverso «arazzi festosi / di teneri verdi / d’acqua, di gemme / di cieli riflessi / nell’erba stellata / di primule gialle / sorprese da raggi / furtivi nel fitto / di faggi eleganti». In Antica voce di flauto l’«Infinita […] armonia d’azzurro-verde / sublime intreccio di coltivi» sem­bra realizzare concretamente il compenetrarsi di «Divino-umano insieme»: «voce di pastori» che «si nutre di flauti» accompagna il manifestarsi del «prodigio atteso / da un arcano profondo / rinato in trame di vita / magiche grafie / melodiose note / ol­tre l’umano». E la lirica successiva, Magiche grafie e umane note, continua e completa la percezione degli indissolubili legami: la «setosa sinfonia di verdi», le «danze sospese nel vento» e i giochi di «ombra e sole / su lucidi velluti d’erba» risvegliano le «anime boschive» che si mescolano alle umane presenze evocate da rapi­di accenni allusivi (la «pieve di grigia radice», il «tocco di antica campana», il «richiamo insieme al desco», lo smarrimento «fra vuoti miti / qui gradito nella pace dei riti»).

Di fronte allo stupore del rinascere della vita «papavero di fuo­co / d’improvviso sorto / da un tronco moro» ecco che «il cuore s’allarga ancora a speranza». Ed ancora i fugaci indizi di tracce umane fanno sgorgare nell’ottava lirica (Al passo della Consuma) ricordi e memorie di eventi umani che arricchiscono il panorama naturale, facendo percepire quanto esso sia compenetrato e im­pregnato dell’umano sino a farne un tutt’uno inscindibile «sfran­giato in fantasie fuggenti / nei cieli frizzanti d’aprile», creando magici «arazzi», termine incipitario qui ripreso quattro volte in un crescendo di colori che conducono alla dimensione ultrater­rena: «arazzi-reliquie d’autunno dorate / arazzi rinati a piccolo punto / di rosso-viola più nuovi più rari / arazzi di lucide corde tese / in estrema tensione di linfa / arazzi-vita oltre la morte /prodigi del ciclo perenne / per noi reiterato dal tempo garante». Il nostro sguardo è così condotto attraverso gli «attimi d’eterno offerti / a noi solo minute ali di passo / verso nidi di Luce attesi», verso gli «specchi di cielo / – oltre il fondale – / a noi non visibile ancora». Ed oltre la Consuma – nella lirica Visione oltre – si apre uno scenario «d’irreali celestri / eco di sereno / lontano. / Visio­ne di un Oltre / sempre intuito / indagato su ali insicure / qui alfine visione» che accende «speranza infinita».

Nella lirica Terra di nuvole viene ripreso il tema delle memo­rie che il paesaggio rievoca attraverso le «grigie / romaniche pie­vi», le «dimore ruvide / intorno al feudale castello / antracite incombente / […] / E lancette dalla superba torre / immobili /nel presente infinito». Il tutto è avvolto fra «petali in candide nuvole», fra «prati-molle maggese / schiumati d’acqua d’Arno» che ammorbidiscono «le sconfitte della storia / opprimenti l’u­mana gente» e creano un alone di magia che accende «mistico stupore». Subito dopo, in Tondo senza tempo, la poetessa descrive una «visione lontana»: greggi candide e nere, puledri lucenti dal dorso bruno immobili al pascolo «nel colmo tepore / nell’ora che da fragile cavo / canne suonano al vento / brusio d’arcano stu­pore». Ma il quadro naturale immerso in un «tondo d’azzurro» è presentato come un dipinto nella sua immobile fissità «senza tempo», di fronte al quale si resta in estatica contemplazione.

Nella poesia Per ritrovarci bambini la primavera che sprigio­na i suoi colori più brillanti e i suoi frutti gustosi rimanda alla fanciullezza spensierata, alla «gioia-innocenza / della verità del creato / garante delle oneste stagioni […] Preludio di Cielo», di un «Oltre» in cui fiorisce la speranza di ritrovarci con la gioiosa innocenza di bambini e dove la beatitudine consiste nel ritrovarci «nella verità della Luce». E quale possa essere questa beatitudine di bambini viene suggerito nella lirica successiva, Beatitudine. Po­tersi muovere leggeri e impalpabili nell’aria intrecciando danze, «smagati» e «stupiti», raccogliendo «panieri / per rossi smalti splendenti»: un «beato stato di grazia» che prelude a quella che potrà essere la vera beatitudine in quell’Oltre ricercato e brama­to, raggiungibile solo con cuore puro di fanciullo.

Nella lirica Aprile tutto in fiore e nella successiva Primavera viene descritto l’esplodere della primavera in tutta la sua stupe­facente bellezza: «Armonia-sinfonia / angelico profumo / che consola sempre dentro / s’offre all’uomo in comunione / per un divino progetto / cromatico d’amore». È un’«armonia di pastelli», un «arpeggio a colori vari» che ci fa respirare «il divino mi­stero», ci accosta al «Principio ispiratore»: è questo un anticipo della risposta esistenziale che andiamo ricercando ed è allo stesso tempo la certezza che questo è quello che certamente ci aspetta, se, come «la terra s’abbandona al sole», l’uomo si abbandona «al suo Principio ispiratore».

Intuizione e l’ultima Risposta avviano l’itinerario alla conclu­sione: tutto il cammino «Fra vaghezze infinite / nel procedere eterno del creato / di segno in segno / di miracolo in miracolo / ad alta quota interiore / palpita trascendenza – in aliti di luce –» e conduce coerentemente e inevitabilmente alla «certezza del Dove si compia / il senso del nostro esserci». La risposta ai «rabdo­manti del Vero» appare luminosamente evidente: in quella «in­cantata […] natura» e in quelle tracce dell’«antica opera umana» ispirata dalla «premura» divina; è qui che si trova l’indizio certo dell’Oltre atteso e ricercato con i suoi «sconfinati […] sipari del mistero», di quella «Presenza paterna-materna» ovunque a lungo bramata eppure così vicina: «E non sento non vedo / che mi sei così vicina / mi cammini sempre a lato / nell’ombra-luce del tra­monto / Tu con la tua-nostra Croce / stretta fra le braccia».