Francesco Jori – prefazione a La grande storia in minute lettere
Un’eredità da non lasciar deperire
“Non esiste uomo folle al punto da preferire la guerra alla pace. In pace i figli seppelliscono i padri, in guerra sono invece i padri a seppellire i figli”. Si illudeva Erodoto, quando scriveva queste parole dense di saggezza: duemilacinquecento anni dopo, in ogni parte di un pianeta devastato, generazioni di genitori continuano a piangere sulle tombe di coloro cui avevano dato la vita perché potessero a loro volta trasmetterla ad altri. E questo lutto non viene mai elaborato davvero, una volta per tutte: rimane ad avvelenare l’anima fino all’ultimo giorno, in un misto di rabbia e di rimpianto. Perché ci sono lesioni che non si possono mai cicatrizzare: “Le ferite intorno al cuore si possono curare, quelle in fondo al cuore non guariscono mai”, ci ha ricordato una delle donne martiri di Sarajevo, la città-simbolo del Novecento europeo, il “secolo breve” iniziato e concluso nel segno di due ferocissime guerre.
Bisogna ricordarsele, queste sottolineature, quando di guerra si scrive o si discute, soprattutto se ne fa memoria. Perché gli storici di norma raccontano la storia ufficiale, di per sé asettica e perciò fuorviante: le loro fonti sono i politici, i generali, i diplomatici, in una parola quelli che la guerra l’hanno voluta, o non hanno saputo evitarla. E il grande difetto di questa narrazione è che sono fonti di carta: dietro, stanno persone che di norma hanno vissuto quei fatti da dietro le quinte, impegnatissime a elaborare strategie, progettare assalti, tessere relazioni. Non hanno mai davvero saputo cosa fossero la paura, la puzza, il sangue, la merda, l’abbrutimento della trincea; non hanno mai respirato quell’odore di morte che non si cancellerà fino all’ultimo giorno di vita. Purtroppo, quella è la storia che si insegna a scuola, e che imparano le nuove generazioni. Ed è anche per questo che la pace, nella storia dell’umanità, di norma è solo un breve interludio tra due guerre.
Poi, per fortuna, ci sono anche rari ma preziosi libri come questo. Che sempre di guerra parlano: di dolore e di lutto, di morte e distruzione, di non-senso e di angoscia. Ma che fanno esprimere il cuore, non la ragione: perché guardano le persone negli occhi, danno voce al loro tumulto interiore, soprattutto contengono un messaggio comunque di speranza malgrado gli orizzonti siano tremendamente bassi. Danno la parola agli uomini e alle donne che la guerra la subiscono perché non possono sottrarvisi; ma al tempo stesso si aggrappano con la forza della disperazione alla vita, sforzandosi di tenerne aperti gli spazi. Un uomo e una donna sono i protagonisti di queste pagine, messe assieme con pazienza e rigore da Maria Luisa Daniele e Massimo Toffanin attraverso una rilettura di qualcosa come seicento lettere intercorse tra i due nell’arco di una decina d’anni: uno spazio temporale denso di eventi, dalla fase matura del fascismo alla seconda guerra mondiale. E rileggere quel periodo storico dal basso, attraverso gli occhi e il cuore di due “persone qualunque”, consente di capire tante cose. Soprattutto, il costo umano che ha avuto.
E’ davvero incredibile e sorprendente, scoprire quanto la scrittura rappresenti una sorta di terapia inconsapevole dello spirito, specie quando i tempi si fanno duri e stringenti. Durante la Grande Guerra, tra le famiglie e i soldati al fronte circolarono qualcosa come quattro miliardi e mezzo di corrispondenze, tra lettere e cartoline, pur in un’Italia semianalfabeta. Questo libro ci segnala come e quanto diffusa e intensa sia stata questa pratica anche nel conflitto mondiale scoppiato ad appena vent’anni dalla conclusione del primo. E dà la misura di quanto tutti, nessuno escluso, ne abbia dovuto pagare il prezzo: i soldati, certo, ma anche i loro genitori, le loro mogli, i loro figli compresi quelli appena nati. Ne esce un messaggio giustamente messo in evidenza fin dalle prime righe: l’esistenza e la persistenza de “l’amore di una famiglia nel buio della guerra”. Perché un conflitto distrugge le vite e le cose; ma in chi sopravvive non riesce a distruggere il cemento dell’affetto, capace di aver ragione di ogni sofferenza e di ogni privazione.
Gino e Lia: due persone ordinarie, due di noi. Che in tempi certo più duri dei nostri (e a proposito dei quali coltiviamo troppo spesso l’abitudine del lamento seriale), riescono a farsi una vita, come si direbbe oggi. Un lavoro, il matrimonio, una figlia, Marisa. Ma che si trovano prestissimo separati dalla guerra, a seguito della quale Gino è costretto a intraprendere un lunghissimo quanto tormentato viaggio: più soft all’inizio, in una Grecia comunque risparmiata dal fuoco; molto più duro dopo il traumatico 8 settembre 1943 italico, in un campo di prigionia, prima in Polonia e poi in Germania, per giunta concluso col ritorno a casa solo dopo molti mesi dalla fine delle ostilità. Il “fil rouge” che attraversa quella fitta corrispondenza è fatto di tanti diversi ma egualmente umani intrecci: il sorriso e le lacrime, la gioia e la disperazione, la speranza e il disinganno, la condivisione e la solitudine. Né mancano i momenti e i motivi di tensione, esasperati dalle condizioni materiali con cui quella corrispondenza di scritti ma soprattutto di affetti deve convivere; condizioni impensabili per l’odierna società delle comunicazioni in tempo reale. Lentissimi i tempi di inoltro e di ricezione della corrispondenza; precari i canali attraverso i quali inoltrarla; e in più una censura miope e spietata che impedisce di svelarsi ai sentimenti profondi, come a voler negare la stessa umanità.
“Cosa ci è riservato in questa vita, solo dolori e sofferenze enormi…”, scrive Lia in una sua lettera al marito lontano. Solo una riga, un cenno che “una tantum” si fa strada attraverso il radicato senso di accettazione, quasi di rassegnazione, alimentato soprattutto dalla fede religiosa. Ma “Dio, dove sei?”, è la domanda angosciante che intere generazioni si sono e hanno posto fin dalle origini dell’umanità; e che chi attraversa i tanti tunnel dell’esistenza non può non porsi soprattutto quando il dolore si fa oppressivo al punto da sentirsene schiacciati. “Dio, che male ti aveva fatto?”, hanno scritto due genitori inglesi sulla tomba del loro ragazzo ventenne ucciso e sepolto a Gallipoli durante la Grande Guerra. “Dio, non vedi?”, è la provocazione lanciata da un cappellano militare nel suo diario, durante il medesimo conflitto, compilato di sera sulla sanguinosa frontiera del Carso. Aggiungendo, in un attimo di tragico smarrimento: “Ma Lui non risponde”.
Certo, Lia e Gino sapranno uscirne, tornare insieme, superare il trauma della guerra, costruirsi quella vita comune di cui prima dello scoppio delle ostilità avevano gettato le basi. Ma non è il classico “lieto fine”, non lo è per niente. Perché chi ha potuto vivere, direttamente o indirettamente, un’esperienza di guerra, sa bene come le macerie interiori non possano mai venire rimosse del tutto. “Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue / salite dalla terra, dimenticate i padri: / le loro tombe affondano nella cenere, / gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore”, dice una poesia di Salvatore Quasimodo. Ma sono i padri e le madri a non dimenticare mai più ciò che hanno dovuto subire e patire, e a trasmetterlo ai loro figli, iscritto nel Dna dei sentimenti più profondi. Arrivando perfino a sentirsi in colpa per essere sopravvissuti mentre tanti loro compagni morivano, come spiega Gino in una delle sue lettere. Ed è anche e soprattutto per questo che la guerra è odiosa, stupida, bestiale. Carogna.
Perciò alla fine questo libro lascia dentro un misto di sentimenti che non si possono ridurre al “lieto fine”. Suscita tenerezza, partecipazione, solidarietà, certo. Ma va letto come se si leggesse il testamento spirituale di due persone la cui vita è stata avvelenata da una lunga stagione in cui qualsiasi futuro sembrava negato; eppure sono riuscite ad uscirne. E come tutte le eredità, pure questa vincola chi ne beneficia a non lasciarla deperire: chiede, sollecita, pretende un forte impegno per costruire ogni giorno la pace. Sono stati per primi i grandi protagonisti delle grandi guerre a capirlo, ma solo dopo averle combattute. Lo esprime molto bene nell’Iliade Achille, rispondendo all’ambasciata inviatagli da Agamennone: “Niente, per me, vale quanto la vita… La vita dell’uomo non ritorna indietro, non si può riaprire o riprendere, quando ha passato la barriera dei denti”. E un grande imperatore vissuto tre secoli prima di Cristo, Ashoka, dopo aver combattuto tante guerre e creato un vasto regno in Oriente, e dopo aver toccato con mano l’assurdità della violenza, capisce che la sola vera grande conquista è quella del cuore dell’uomo; e lo fa incidere in una serie di steli di pietra disseminate nei suoi territori.
L’intenso, drammatico, sofferto vissuto di Lia e di Gino diventa in tal senso un messaggio forte e di stretta attualità, in un tempo segnato da una miriade di grandi e piccoli conflitti politici, economici, sociali. Un invito a voler bene alla pace, certo; ma anche un’esortazione a non deporre mai la speranza, nello spirito di quella “spes contra spem” di cui parla San Paolo: sperare anche quando ogni speranza sembra negata. Loro due l’hanno toccato con mano passando attraverso la durissima esperienza della guerra. E se ogni volta riemerge la voglia di pace, è proprio perché tantissimi come loro l’hanno vissuto. Per farlo capire, forse meglio di ogni altra voce va ascoltata quella di Edvard Slonski, un poeta polacco che nella Grande Guerra ha dovuto subire il dolore di trovarsi col fratello su fronti tra loro nemici. Affidando la propria disperazione, ma anche la propria speranza, a dei versi indimenticabili: “Ci tiene divisi, fratello / un destino ineluttabile. / Da due fossati contrapposti / fissiamo negli occhi la morte. / In trincee ricolme di gemiti, / l’orecchio teso al sibilo delle granate, / noi stiamo, l’uno contro l’altro. / Io sono il tuo nemico, e tu il mio. / Ma non importa se noi due moriremo / perché ciò che non muore / rinascerà dal sangue che abbiamo versato”. Dobbiamo, dobbiamo davvero farlo rinascere.