Giuseppe Manitta – Prefazione a Dal fuoco etneo alle acque polesane

Allora ritornare ai luoghi
nell’aria di mare che pacifica
è riprendere coscienza di se stessi
nel corpo rugoso e nell’anima viva.


Ogni luogo è specchio
di emozioni uguali diverse
come amori giovani
raccolti tutti
nelle aiuole del cuore
energie vitali rinate.

La silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin è una poesia dei luoghi, così come si evince dai brani appena citati, ma si tratta di un gioco di “specchi” in cui l’anima si riflette sulla realtà tangibile e, di contrapposto, sul suo valore simbolico. Dal fuoco etneo alle acque polesane condensa la dialettica dell’io non solo nella sua connotazione termica (caldo-freddo) ma anche nella sua indicazione cromatica e, infine, nella classificazione ossimorica. In queste opposizioni rientra la collocazione geografica che va dal sud al nord, cioè dall’Etna alle acque polesane, due luoghi in cui l’autrice affonda le proprie radici e attraverso i quali è possibile cogliere la propria essenza. L’Etna, la montagna per eccellenza dei siciliani, la montagna sacra (come afferma la Toffanin) è il topos in cui ritrovare se stessi, ma anche il simbolo della vita oltre la morte, in cui la ginestra, o il pino, riescono a superare leopardianamente la ‘brullità’.

La bellezza, scrive ancora l’autrice, è femminea, è donna, come donna è anche la “Montagna”. In questa riappropriazione, il prato Perrotta diviene crogiolo di ricerca e rifugio dal turbine della civiltà moderna: «Spazio voluto da Dio questo / non l’altro meccanico / rumore assordante l’anima / strappata dalla sua nicchia nativa». Il nesso tra splendore naturale e immersione nell’anima caratterizza anche le liriche del passaggio al luogo “altro”, cioè quelle dedicate alle acque polesane: «Estiva fanciulla scopro / incantesimi minimali / d’acqua e fronde infiniti / nel variare di suoni segni colori / orizzonti altri di luce». Cogliere la genuinità consente di stupirsi ancora di fronte al mondo, di assaporarne i frutti, di immedesimarsi: «È fiume-chiatta di ricordi / infanzia che galleggia / in verdi distese / d’acqua di campi / è brivido carpito / sul filo dell’onda che torna / fra dolce profumo – memoria di nebbia».

I ricordi costituiscono il substrato nel quale spesse volte si ritrova la propria linfa, ma, come si accennava, permettono alla poetessa di indagarsi. La poesia fissa il processo conoscitivo e memoriale, costituisce una pausa dall’aritmia dell’«esserci». È significativa la menzione, in Rosapineta, del termine heideggeriano perché manifesta un ulteriore risvolto della silloge: l’«essere nel mondo», la possibilità civile della parola che risiede non tanto e non solo nella critica dei mali della società, quanto nell’estasi e nella conoscenza della bellezza. Il viatico oltre il buio può apparire un ossimoro, ma si tratta di una opposizione fittizia, perché anche la sera ha la sua luce, ci ricorda la Toffanin, e in questa dimensione liminare la speranza fornisce un varco: «Lontano la villa si dona / splendente d’oro nell’ombra. // La sera è tutta un’offerta di luce».

L’aspetto naturale, paesaggistico e oggettivo è all’apparenza tale, in quanto viene costantemente filtrato e si tramuta in correlativo simbolico, sino all’unione tra Io o oggetto: «Il mare specchio ove il cielo s’imperla / in collane di sue memorie bambine / e l’anima brivida commossa / si veste della sera madreperla ». Un atteggiamento, quello evidenziato, coglibile non solo dai temi, ma anche dai termini, e nel caso della citazione appena effettuata dalla figura etimologica tra “imperla” e “madreperla”: la simbiosi è totale. Il senso di appartenenza e il rifugio entro un alveo più vasto conducono alla coscienza della piccolezza dell’uomo, della sua humilitas:

Umili schegge di creta siamo talora a creste arroganti
tutte rapprese nel mistero ora sospese nel cielo
ma protese verso le tue braccia, o Dio
che tanta fantasia ci hai ispirato antidoto all’abisso.

È possibile impreziosire la creta di cui siamo fatti attraverso la cultura, perché essa vivifica. Al di là del ricordo personale, la poetessa quando parla della sua permanenza a Milo, sulle falde dell’Etna, esalta la luce che proviene dalla cultura, che limita le ombre della terra. Ma ulteriore spazio solare si ricava dagli affetti, perché questo è anche un libro di sentimenti. A partire dalle dediche, per proseguire con le poesie, crogiolo del recupero di figure non più presenti o, ancora, fissaggio familiare, atto d’amore nei confronti delle persone care, come i genitori, ad esempio. Esiste, nella lirica La gente del fiume, una auto-analisi che fa emergere non solo la traslazione delle topografie reali, ma anche l’imperitura essenza del cuore, che supera gli ostacoli fisici e temporali.

Memorie raccolte in stanze del cuore
insieme a reti d’affetti
filate tramate saldate
dal fuoco dal sole dall’aria
mai logorate dall’acqua del tempo
rinate in vivo sentire
teneri pioppi al risveglio d’aprile.

L’animo è, però, inquieto. Prendere coscienza della propria identità può condurre allo smarrimento, verso il vuoto, che si badi bene non è da considerare come nulla nichilistico, ma come risvolto della contraddizione. In tal senso Maria Luisa Daniele Toffanin scrive: «E il vuoto tutto / chiama l’uomo / il suo alito vitale / vento sferzante / contraddittorio / ma forte da strappare / il velo opaco / dei fantasmi». L’ossimoro trova la sua sintesi nel superamento dello status quo, così come le acque polesane che, al di là dello stallo paludoso, hanno una propria foce. L’eterno inquieto («Ma questo è puro accidente / rimane certezza l’eterno inquieto / che ora si cela in quel suono notturno»), dunque, trova uno sguardo protettivo:

Cosmo materia morbida
sfumata sinfonia d’azzurro-verde
preludio di altri lontani spazi-attesa d’Eterno
ora solo manto avvolgente e protettivo
al fragile volo del corpo della mente.

Sono le liriche a chiusura della silloge che manifestano il senso sacro della poesia: la vita è un privilegio, che va difesa ed amata, anche nelle inquietudini, e sono i luoghi che permettono, alle volte, di coglierne l’essenza.

La silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin, Dal fuoco etneo alle acque polesane, ha ottenuto il primo premio al Concorso Internazionale Il Convivio 2017 e «si presenta quale sinergica trasposizione poetica di un percorso spazio-temporale – scrive Francesca Luzzio nella motivazione – che coinvolge la Sicilia e il Veneto, proposto nell’espansione empatica che si genera tra gli ambienti naturali e il sentire della poetessa che, con pregnanza semantica, sa trasferire il pathos vissuto in versi di eccezionale bellezza, grazie anche ad un ritmo sapientemente cadenzato, che coinvolge appieno il lettore».