La stanza alta dell’attesa tra mito e storia rivisitata da varie voci critiche

“La stanza alta dell’attesa tra mito e storia” è un libro ambientato nel periodo bellico e post (2^ guerra mondiale) nella città di Padova e dintorni. Racconta lo spirito di resilienza e di rinascita della famiglia dell’autrice, dell’intera via Gabelli, della stessa città, poggiato sui vincoli forti dell’amicizia, della solidarietà, della fede e della bellezza condivisi in vitali incontri umani. Un insieme di prosa e poesia, come ben dice Pardini un prosimetro, che diviene input, auspicio alla ripresa dopo ogni catastrofe sempre. Il tutto è evidenziato dalle prefazioni di Luisa Scimemi di San Bonifacio, Stefano Valentini, dalle voci critiche di Nazario Pardini e di Mario Richter, inserite in questo stesso sito. Quindi può avere tante chiavi di lettura: dalla storia di una famiglia alla vita stretta di relazioni umane di via Gabelli all’ombra di Santa Sofia a cui è dedicata la prima parte, il costume di una città alla ripresa della vita che fa da sfondo a tutta l’opera ma in particolare nella terza e quarta parte “Luoghi-persone” e “Giochi e stupori” e soprattutto la consapevolezza della rinascita insieme dopo la guerra, sentimento presente un po’ in tutte le liriche.

Ma ascoltiamo Mario Richter che, nella sua quarta di copertina, sintetizza l’opera evidenziandone la fonte di ispirazione nel carteggio tra i genitori dell’autrice, a lui già noto, filo rosso ne “La grande storia in minute lettere”:

In questa organica raccolta dal carattere rimemorativo e dall’impegno poeticamente autobiografico, Maria Luisa Daniele Toffanin ci consegna tutto un mondo legato ai tempi incantati dell’infanzia. Si tratta di una realtà ricca di suggestioni, illuminata – tramite un’alternanza di prosa e versi – da ampi slarghi elegiaci, da visioni e meraviglie. Ogni cosa vi trae vita e vigore da un irrinunciabile onnipresente sentimento, quello dell’attesa, sempre alimentato da una costante e vigile speranza. Avvalendosi del prezioso commovente carteggio che in anni difficili ha mantenuto costante il rapporto fra i suoi genitori divisi dalla guerra, la poetessa padovana ha ritrovato commosse movenze di forza lirica (si veda almeno Altri pomeriggi: “O amicizia senza tempo nei giardini”, con tutto ciò che segue). Non è possibile dimenticare lo straordinario slancio emotivo presente nei versi che riguardano il padre reduce dalla tragedia bellica (“E al vento d’anemoni e viole / umile sorriso all’erba della terra”). Maria Luisa Daniele Toffanin ci fa ora dono, con nuovi e già noti accenti, della sua coinvolgente impresa di poesia, il cui interesse, grazie a molte situazioni “universali” e intimamente umane, può raggiungere con efficacia anche pubblico non strettamente padovano.

Veduta dei Colli Euganei.

Basilica di Sant’Antonio e statua del Gattamelata.

Il ricordo di quest’anima del padre uscito da quell’infernale bolgia e ancora con la sensazione di essere miracolato, è sintetizzato proprio nei versi sottolineati da Richter, così provata da riconoscere il senso della vita solo nelle piccole cose e qui colta in un momento particolare di comune felicità nelle gite sui colli euganei in cui tutti gli zii e i cugini godevano della bellezza dei colli e dei cibi genuini da loro preparati.

Su sollecitazione di Mario Richter che esalta “O amicizia senza tempo nei giardini…”, io rivedo i giochi in via Rinaldi con Jone, Giuliano e la sorella Elvira. Allora non poteva neppure sfiorare l’idea del dolore un giorno provato per la perdita dell’amica: … O amicizia senza tempo nei giardini / delle case della gioia e del dolore / nell’aiuola del sole ove ormai riposi / viva ancora nella bellezza dell’arte / nel cuore mio a cui amica / sempre più manchi / nel filare insieme il senso delle ore.

E rivediamo con amore e nostalgia oltre via Rinaldi altri luoghi, come Piazza delle Erbe, Piazza della Frutta, frequentati soprattutto per le loro antiche botteghe, alcune scomparse, altre esistenti, come Dal Zio, le pasticcerie Brigenti e Graziati e le gelaterie Sommariva e Panciera, luoghi di momenti particolari di delizie ma anche di incontri e affetti. Non possiamo dimenticare l’amata libreria Draghi, osservatorio di vita e di cultura patavina. Ma non vogliamo andare oltre e ascoltiamo invece Maria Rizzi che così affettuosamente sostiene:

Lo definisco ‘romanzo in versi’, non solo perché l’Autrice inserisce brani di prosa, ma per il carattere del testo, che conserva sempre la liricità della poesia. Maria Luisa mi ha già stupito con la sua capacità di conservare ritmo e musicalità anche nella narrazione pura e non si smentisce certo in quest’Opera, che si potrebbe definire interamente avvolta da un’onda di armonia dolcissima.

Maria Luisa e il suo cane lupo.

Maria Luisa e i tetti di Sordina.

L’ottimo prefatore Stefano Valentini afferma che la stanza alta che dà il titolo al libro diviene ‘trasfigurazione di un intero microcosmo, di un’epoca trascorsa in luoghi magici’ e dà la migliore spiegazione al sottotitolo, ovvero al riferimento al mito. L’Autrice, infatti, rende il suo cantico intriso di archetipica sacralità.

Leggendola ho avuto la certezza che considera il passato il pozzo dal quale attingere linfa vitale per il presente, che in ogni condizione, rappresenta un dono, e per il futuro, che inevitabilmente, ha carattere di mistero.

La stanza alta è il luogo in cui Maria Luisa è nata, ‘nel letto grande ove si compie il rito dell’amore, nasce la vita nuova e l’ultimo respiro si spegne’, il grembo del grembo materno, della mamma Lia, che spira sullo stesso letto, chiudendo un cerchio dell’esistenza, in quella che l’Autrice definisce ‘una dimensione quasi estetica’, visto che è circondata dagli affetti più cari.

Altro ventre materno della nostra sublime Poetessa è la città di Padova, radice e luogo dove la portano i sogni, i dolori, le grandi emozioni.

“Mia città dell’utopia / mondo limpido di gente fida / il sentire sincero umile / pur d’interiore spessore / gli occhi non baluginavano / ancora d’urgenza.” – tratti da “Padova”

Nel suo viaggio a ritroso nei territori della memoria Maria Luisa dedica versi cesellati ai genitori, alle storie d’amore vissute con entrambi: intensa, quasi simbiotica quella con la madre, densa di pathos, di attesa quella con il padre Gino, combattente nel secondo conflitto, internato nel campo di Benjaminov e identificato con il numero 5437. Il ritorno del genitore rappresenta per la famiglia e per la piccola Autrice un periodo di sofferenza intensa, di scoperta degli effetti post – traumatici della guerra e soprattutto della segregazione, che il padre supera grazie alla forza d’animo e al rapporto con gli amici che condividono la sua esperienza – cito tra i tanti Giovannino Guareschi con il suo “Diario clandestino”, indimenticabile nella determinazione di asserire quanto la libertà di pensiero possa superare le recinzioni di filo elettrificato e la violenza continua alla dignità.

Gli affetti in questo sublime romanzo in versi hanno valore fondamentale.

“Sulla terra fiorì come un giglio” – Giannina Facco 1962.

E le tematiche dell’assenza e dell’attesa si potrebbero definire il fulcro dell’intero testo. L’assenza del padre nel mondo onirico-fiabesco dell’infanzia di Maria Luisa si dilata, diviene concetto privo di confini.

Ella ci conduce a passo di valzer, tramite il suo verseggiare e le sue parole calde e incredibilmente lievi, nei giorni del ritorno di Gino, dell’uomo che la intimidisce e la affascina, ma riconosce altro da sé.

“Un cerchio rosso sulla mano infante / della tua prima sigaretta a casa / tremore delle tue dita per me / ancora schiva della tua presenza” – tratti da “La grande attesa”

E l’Attesa diviene l’argomento – chiave della seconda parte dell’Opera.

L’Autrice asserisce che “è il ritmo che cadenza la vita e la natura dell’uomo” e lo dimostra con una serie di liriche dedicate allo stesso argomento: “Parva attesa”; “L’attesa innocente”; “L’attesa della vita e della morte”; “L’attesa”; “L’attesa del presepe”; La mia casa vibrante d’attesa”, che si configurano come una permanente ricerca nei meandri del passato, un picchiare, uno scavare incessante. Si tratta di un procedere lontano da effetti calcolati, da qualsiasi ‘trucco’, dettato esclusivamente dall’ispirazione. E quale voce può permettersi di viaggiare su un simile registro se non quella di una Poetessa dalla purezza incandescente?

Il viaggio nel tempo che Maria Luisa compie vede la saudade divenire cosa viva, pulsante. Si tratta di una nostalgica malinconia fatta di luce, i versi sembrano nodi intagliati nel corpo dell’Autrice e nei nostri; si tratta di posti nei quali il sangue non può fare a meno di correre all’indietro

“Era un ritorno ai luoghi della guerra / per me quasi felici, sempre in compagnia / col cane lupo a scoprire insieme / la campagna infinita magia” – tratti da “Le recite”

Sembra inevitabile che la terza parte del romanzo in versi si intitoli “Luoghi – persone”. L’Opera è la dimostrazione che le cose continuano a esistere fin quando qualcuno le ricorda. E che la famiglia, oltre a rappresentare un grappolo di affetti è il luogo dove si conservano tutte le memorie.

“Ci sono luoghi sempre / che per un odore un suono un colore / un’analogia ontologica / richiamano altri luoghi” – tratti da “Luoghi”

Maria Rizzi giustamente sottolinea l’importanza dei luoghi e noi ricordiamo la Basilica del Santo in piazza di Santo Antonio

luogo dei nostri giochi e delle devozioni familiari e di tutta la città, in particolare nella coralità della processione di questo Santo a cui anche Giannina Facco dedica il libro “Sulla terra fiorì come un giglio”.

Nella quarta parte del testo, intitolata “Giochi e stupori” il mito diviene protagonista. Si tratta della narrazione, condita degli aspetti fantastici tipici dell’infanzia e della fanciullezza, delle ‘giostre dei sogni’; del Prato della Valle – simbolo dell’identità patavina e secondo solo alla Piazza Rossa di Mosca -; di ‘corde slanci corse / scaloni e moscacieca”; del fuoco ardente dell’amicizia ‘intrisa di proibito’ e di molti altri tòpoi ricorrenti nel cielo perfetto dell’alba della vita.

La voce dell’Autrice non si rompe mai sulle onde dei versi, fronteggia il dolore delle storie perdute con cifra stilistica superba… talvolta siamo noi lettori a salire sulle montagne russe di un singhiozzo.

Il Professor Nazario Pardini, che accoglie Maria Luisa e la sottoscritta nel prestigioso blog “Alla volta di Leucade”, nelle sue note critiche precisa che l’Opera rappresenta un prosimetro, ovvero un genere letterario consistente in un ‘equilibrato connubio di prosa e poesia’, che fu caro ai grandi della letteratura come Dante, Boccaccio, Dino Campana e altri.

Conosco questo genere, ma sin dalle prime letture ho pensato a un romanzo in versi, a un continuum di lirismo in poesia e parole, che conduce in una straordinaria avventura attraverso le stanze dei ricordi di Maria Luisa. Da lettrice testarda e ammirata, che non ha potenziale di critico letterario, mi sono inchinata di fronte alla consueta capacità esegetica del maestro Nazario, ma ho perseverato, certa che sia lui che l’Autrice avrebbero saputo perdonarmi.

Nozze dei genitori al vento di guerra.

Esco da quest’avventura memorabile con la certezza che alcuni Artisti custodiscono un dono del quale forse sono inconsapevoli: offrono la chiave di lettura delle vite di tanti attraverso il coraggio della propria storia.

Allora grazie Maria Rizzi che ci ricordi Nazario Pardini e la sua splendida voce critica riportata nell’originale anche qui nel sito. E piace trarre alcune sue considerazioni su via Gabelli:

La prosa si fa lirica, poeticamente intrisa di un’intimità acchiappante, per lasciare spazio a La madre vestale della casa, dove rispende la calda voce di un’anima tutta volta a ritrovare se stessa e il mondo primigenio di antiche figure familiari. Sacre lettere scrigno, bombe mortali, casa gomitolo di speranza, sollievo di amicizie, la vita di via Gabelli, stanze amicali, luoghi mitici, presenze sbiadite dal tempo, zii Leone e Nino… tutto si muta in immagine; una realtà vissuta che, col tempo, ha assunto lo stato di grazia per fioriture liriche, per il “ricupero di calchi da calcare, cifra di un vivere altro” che sia viatico ad “una nuova umana dimensione“.

E per andare ad una nota di allegro riportiamo la poesia citata da Pardini:

(…) La Befana! Fu esplosione muta del gruppo. / Apparizione solo di un attimo / infinito poi scomparsa. / Un sogno? Un’emozione unica / intima e corale / che per i cugini smaliziati / fu segreta domanda sulla realtà. / Ma non conta risposta / fu il vissuto insieme nell’ora più tarda / fu l’inatteso di un’attesa rituale / che lasciò dentro per sempre / uninsieme di gioia e turbamento.

Come uno dei miracoli raccolti proprio dalle parole scritte che potranno rimanere, diventare storia, senza essere distrutte dal tempo cannibale.

E ancora grata a Nazario ricordo la sua chiusa:

Tanta poesia, tanta storia e tanta confessione emotiva fanno di quest’opera un approdo di forte connotazione umana e artistica a cui Maria Luisa è pervenuta dopo anni di lavoro e di creatività; pagine di vera intuizione dove la memoria si fa protagonista sfornando episodi da conservare; da tramandare per la loro epicità

E come non ascoltare commossi la voce di Luisa Scimemi che così conclude le sue prestigiose note sparse iniziali:

L’autrice non tutto spiega, non occorre farlo: racconta come nelle favole, sotto forma di mito. così la sofferenza insita nella vita e nella Storia può e deve essere trasmessa alle nuove generazioni, a chi è innocente e non ha ancora raggiunto la stanza alta della vita, a chi deve ancora capire, darsi una motivazione, trovare la propria intima libertà. Forse è solo quando accompagni, fino alla loro fine, i tuoi genitori, che puoi offrire loro i tuoi ricordi, in un “ritorno all’infanzia” che si manifesta come ragion d’essere della tua propria vita: rendendo loro grazie per gli esempi e i valori che ti hanno affidato in eredità, insieme ai luoghi che sono stati teatro provvidenziale del tuo affacciarti sul mondo.

Così si comprende allora il senso profondo della dedica con cui si aprono queste pagine e che unisce passato e futuro, in un nodo struggente ed esplicito di riconoscente testimonianza: “A mia madre Lia e a mio padre Gino, in Padova la mia città natale”.

Ed ecco così sollecitata da Luisa una fotografia della mia infanzia nella mia terrazza adagiata sui tetti di Sordina, spazio della mia crescita. E da una foto luminosa e floreale del rinfresco dopo il matrimonio dei miei genitori questi miei versi che rievocano queste nozze al vento di guerra.

Fotografie nelle terrazze-vasi comunicanti delle case di via Gabelli che così ricorda Silvana Serafin:

Corte Ca’ Lando in via A. Gabelli …nel circuito di Corte Ca’ Lando / ritrovo del centro storico bambino / bianca circonferenza / di ore rincorse nel gioco…

Una via che assurge a simbolo della rinascita, vissuta dopo gli orrori e le sofferenze della guerra e descritta “nella sua poliedrica geometria / nella sua variegata bellezza”, dove si respira un clima di fratellanza e di comunione. Lo zio Leone “umile e nobile nel canto come i suoi canarini”, Giannina la scrittrice e sa sorella Maria, Ada, la maestra di pianoforte amica per tutta la vita, Jolanda e Orazio con i loro gemelli, Monsignor Pierobon e il nipote Luigi, fucilato in seguito con altri partigiani divenuto “mito ancestrale del dolore / che abbraccia gli uomini per sempre” e di tante altre presenze per formare tutte insieme “un albero-frondoso-riparo”, ” indelebili memorie di una stagione in cui si formò un’anima”.

…con i suoi riferimenti concreti situati nello spazio lirico animato da presenze e da assenze di un altro periodo, diviene mezzo per presentare l’unione di due elementi fondamentali della silloge: il ruolo del tempo, collettivo e individuale, e la contrapposizione di dentro e fuori, che si afferma nella dimensione reale delle piazze cittadine dove “alitano echi di voci autentiche riverberi / di questo ardore riacceso dal ritrovarsi vivi / nella vita rinata ad un’aria frizzante d’attese”, dei quartieri presentati nei minimi particolari. Dalle descrizioni topografiche emerge lo “spirito” di una Padova del dopoguerra in cui “era giù festa l’andare insieme uniti / sostare in sincere parole e saluti” e dei suoi abitanti, soprattutto quelli conosciuti quando la famiglia viveva in via Aristide Gabelli, appartenenti ad un passato ormai scomparso, ma comunque “miracolose presenze”, “accese sempre nel nostro cammino / nella sua dolente assenza”.

Presenze, luoghi, tempi anche di difficoltà e fatica “ove apprendemmo il segreto felice delle piccole cose”.

Così Valentini chiude la sua preziosa e partecipata prefazione:

Beati tempi di difficoltà e fatica ove apprendemmo il segreto felice delle piccole cose”, ribadisce l’autrice: “cerco di salvarlo, questo micromacrocosmo dell’infanzia, e lo ricupero per mio figlio, i nipoti per farne linfa per il futuro o semplicemente per ritrovare una misura più umana della vita”.

Quella vita, con le sue vicende e le scelte “nel moto degli eventi”, che condurrà alla “migrazione” sulla quale il libro si chiude: un libro che è prodigiosa meditazione sul tempo che scorre e su quanto di esso (e di tutto) permane, su “ciò che si ama d’istinto / senza reale coscienza” e ci abita per sempre “quale intimo segreto”: un segreto di cui Maria Luisa Daniele Toffanin ha voluto rendere partecipi tutti i lettori, in una riscoperta di sé che offre una ulteriore luce, letteraria e valoriale, all’intera sua opera. Nel finale il nuovo orizzonte, dello sguardo e dello spirito, diventa così la terra euganea che rappresenterà uno dei tessuti connettivi più forti del suo cammino poetico, lasciando fisicamente i luoghi della città amata ma non la loro anima grazie al “patrimonio di amicizia, cultura, bellezza” accumulato.

“Facevano bene loro, i Grandi, a credere nei miracoli!” chiosa l’autrice: quei miracoli che, nella loro essenza, sono la faccia altra dell’attesa, considerata come fiducia nel bene e nel bello che la vita, nelle sue mille forme e sfumature, non smette di offrire.