Il silenzio degli IMI in mio padre – in Convivio n.88
Dopo la consegna delle armi 10 settembre 1943, Scalo di Corfù
Parlare del silenzio di chi è ritornato dai campi di concentramento potrebbe divenire, almeno per me che amo troppo la scrittura, un modo per inflazionare il silenzio stesso. Operazione utile se fosse una scelta calcolata di vita, un modo di comodo per rifiutare le proprie responsabilità. Ma in realtà quel silenzio rivela un male di vivere, un disagio esistenziale conseguente al vissuto tragico in quei campi e come tale merita di essere indagato in un discorso che rivaluti la sua giusta valenza. Questo è il silenzio a me noto, per la mia esperienza personale di figlia primogenita di un padre Internato Militare Italiano (IMI), e quindi da ascoltare con rispetto come voce che viene da un lontano profondo. Il silenzio degli IMI reduci è di chi si sente in colpa di essere sopravvissuto, di chi ha pudore di quello che ha subito, di chi teme di far soffrire chi gli è vicino, di chi pensa di non essere creduto in una narrazione storica troppo tardi decifrata obiettivamente, di chi non riesce a reinserirsi nella vita civile abbandonata molto prima e diventata altra, di chi deve riconquistarsi il suo territorio affettivo. I familiari avvertono la loro sofferenza e cercano di aiutarli con la vicinanza, la comprensione e il colloquio, conoscendo molto del vissuto in Grecia e in altri luoghi, poco invece di quanto accaduto nell’orrore di quei campi: le cartoline postali o le lettere ricevute, erano state sottoposte a censura.
Cartolina postale inviata da Gino ai suoi genitori
Non sapevano neppure delle diverse condizioni di vita di quei 650 mila e più: per esempio che gli ufficiali vennero più tardi costretti al lavoro, i soldati semplici invece furono da subito sfruttati in modo barbaro in luoghi invivibili a prezzo della loro stessa salute. Quindi il loro è un silenzio dai molteplici significati proprio di chi ha un peso dentro tale da non riuscire a ricreare il rapporto umano perfino nella famiglia, in cui un figlio piccolo poteva considerare come intruso e non riconoscere come padre quell’uomo che si “intrometteva” nell’habitat familiare turbandone l’equilibrio, chiedendo un affetto che invece doveva lentamente riconquistarsi. Nel mio caso magica è stata la creazione da parte di mio papà della casa delle bambole, tutta di legno e dotata di ogni comfort, di grotta e casette per il presepio e di composite scatole porta-cucito reinventate dalla sua intelligenza e dalla sua manualità, in quel periodo postbellico, anche per dimostraci di più il suo amore. Patrimonio poi delle mie sorelle e della famiglia, come il mantra del piatto da lasciare sempre pulito e del tozzo di pane da raccogliere sempre. Quindi le condizioni esistenziali per gli IMI all’inizio erano difficili, aggravate dal fatto che non volevano parlare di questa loro inenarrabile esperienza: erano espressione di una loro dignità raccolta nel silenzio del dolore. Ecco, sì, ritornando a mio padre, ascoltavo di nascosto nei suoi incontri con gli amici reduci (Guelfi, lo zio Leone, Gruden, Paci…) le parole piene di sconforto, sentivo il loro pianto insieme per essere sopravvissuti e vivevo altre manifestazioni per me, bambina, indecifrabili quali la messa domenicale, tutti vestiti con rispetto, a Terranegra, il Tempio dell’Internato Ignoto, inquietante nome per me, per loro luogo comune del ritrovo, del ritorno, della rinascita.
Tempio dell’Internato Ignoto a Terranegra – Padova
Lentamente però, proprio quel senso di amicizia che li aveva tenuti uniti nel campo di concentramento, che aveva impedito loro di cadere in forme tremende di depressione, si rinsaldava ancor più con il ritorno a casa in un sentimento di complicità. Contemporaneamente nasceva anche con altre nuove conoscenze strette in via Gabelli, in via Rinaldi, o con dei parrocchiani di Santa Sofia.
Chiesa di Santa Sofia – Padova
L’amicizia, questa è stata la sua, la loro salvezza che ha permesso di riconquistare la propria dimensione umana. Per tale motivo, e lo ricordo bene, la mia casa era sempre piena di persone che mia mamma, con la sua sapienza infinita, riuniva proprio per ridargli quel calore affettivo, quella fiducia nella quotidiana convivenza di cui aveva bisogno ritrovando qualche sorriso in visioni liete dei cieli e del mare greco. Aleggiava allora l’immagine, in me sfumata, di donne greche magari incontrate, risorte al là di qualche amico burlone per punzecchiare mia madre che sicura andava oltre. Certo però che prevalevano i suoi silenzi assenti, le sue malinconie, le zone d’ombra e luce, il suo amore possessivo, quasi geloso della famiglia, di noi figlie, in particolare di me che ero la primogenita, verranno compresi troppo tardi. Questa gelosia può essere spiegata da una forma di paura e d’ansia di perdere il bene ritrovato, di spezzare la sua ancora di salvezza. Così il colloquio a cuore aperto, irrealizzabile allora per ignoranza dei fatti e per la sua morte anzitempo nel 1981 a 68 anni in un altro campo di internamento, è avvenuto solo grazie alla poesia: È già scoccato il tocco quando / dei padri quel segreto si disvela. / Amaro incantesimo dell’esistere. Poesia che mi permette anche di ricostruire, nella mia primissima raccolta, una mia interpretazione del suo vissuto nella casa per lui balsamo, attorniato da queste figlie bambine che crescevano fiorendogli la vita, nello sfondo del suo orto seguito con devozione, rivelando però sempre quel filo di mestizia, quella dimensione minimale data alle cose: una diversa visione dell’esistenza segnata da quel male oscuro che lo ha accompagnato fino alla morte. E proprio nel mondo della poesia incontrerò, per quei casi inaspettati, un suo compagno di prigionia, Macchini Luciano che, più giovane di lui e abile pianista, aveva vissuto quel periodo in modo meno angosciante. Vorrei che fosse qui vivo accanto a me per sentirlo parlare in diretta della generosità di mio padre che divideva i suoi pacchi con i compagni, della sua operosità e manualità nel cucire scarpe, mostrine, bottoni delle divise perché tutti loro ufficiali mantenessero quella dignità che i carcerieri cercavano in ogni modo di sbianchettare. Ne riferirò più tardi quando dirò di altri incontri, di altre scoperte che mi apriranno gli occhi sul mondo degli IMI, sulla loro vicenda nella cifra reale, e mi offriranno l’occasione, grazie allo studio appassionato di Massimo, di testimoniare su questa trascurata e denigrata pagina di storia in “La grande storia in minute lettere” (Valentina Editrice, 2017).
Ma ritorno ora alla poesia che già nella prima strofa comunica la conoscenza di fatti nuovi: la tragica fine di internati che smemorati andavano a stendere i fazzoletti sui reticolati dove li coglieva la morte assassina.
Amaro incantesimo
a mio padre Gino
Nel crepuscolo lento
mi aleggia dentro, padre,
l’inquieto del tuo spirito
per la sofferta sosta in campi
plumbei, prigioni della vita
ove crisalidi di sangue
sui reticoli del morire
erano visioni del tuo vivere.
E l’ansia sento placarsi
nell’invocata casa, balsamo
all’anima ora più chiara.
Oh giorni ai Lari devoti
nel tempio degli affetti,
sereni al diramare
d’erba del tuo prato,
senza colmare d’oro
gli otri delle ore.
Oh giorni di sorrisi tersi
per schiudersi in corolle nuove
l’infanzia nostra, rosa ormai sfiorita.
Ma nella memoria del sentire
un mesto leitmotiv di note,
suono a me allora oscuro:
era il trainare quel tuo male
antico peso, stretto sempre dentro.
È già scoccato il tocco quando
dei padri quel segreto si disvela.
Amaro incantesimo dell’esistere.
[da “Dell’azzurro ed altro”, 1998]
Oltre gli affetti ritrovati, oltre l’amicizia vera, anche l’amore per la natura è diventato per lui un dono salvifico: gli ha purificato l’anima, lo ha ricondotto in frequenti rivisitazioni ai luoghi d’origine a Villatora, proprio per quell’amore per le radici che ognuno ha in sé, rinsaldando la filiera affettiva con i genitori e tutta la famiglia di origine. Molto più tardi, a Rosapineta questa sua attenzione al Creato si manifesterà in tutta la sua valenza: nella devozione alla dicondria del prato, ai tamerici composti in siepe, alla brezza marina, al sole, al mare come elementi primi di una antica filosofia che è rimasta in me, nel ricordo dei giorni trascorsi insieme pur nel presagio della sua fine vicina, e che ora rivivo in questi versi: Ora che sento / l’umile splendore / delle note pure / su cui modulare / il canto maturo, / la mia zona segreta / da pudore dischiudo / e ghirlande intreccio / d’amore e dolore, / dono tardivo per filosofo antico. Versi che mi permettono di parlargli ancora in un colloquio che va oltre il tempo stesso, come confessione della mia comprensione tardiva del suo segreto ma anche come un ringraziamento per l’eredità in me lasciata.
Per filosofo antico
a mio padre Gino
È in me cupo lamento
il tuo andare sofferto
tra respiri di vento
su tenui grappoli di tamerice.
Fiaccato ogni giorno di più
la vita cercavi
nell’oro-azzurro
di spazi solari
di scaglie marine
accesi smalti d’elementi primi.
Terra fuoco acqua aria
erano il tuo pentagramma
per musica d’anima
pastorale antica
d’accordi-costumi del vivere
in armonia soave con l’universo.
Ora che sento
l’umile splendore
delle note pure
su cui modulare
il canto maturo,
la mia zona segreta
da pudore dischiudo
e ghirlande intreccio
d’amore e dolore,
dono tardivo per filosofo antico.
[da “Dell’azzurro ed altro”, 1998]
Però nella poesia, nella forza della parola intima che si fa voce, ho recepito il modo per colmare questi suoi silenzi, lenire queste ferite anche fisiche come l’enfisema-retaggio dei campi, il modo per stemperare le incomprensioni generazionali e sciogliere i nodi di un periodo storico travagliato. E così ho potuto esaltare la vitale religione in lui e in molti altri, nei grandi ideali perseguiti, documentati nelle sue lettere, quali la fede, l’abbandono fiducioso alla provvidenza, l’amicizia già citata, ma anche il senso di appartenenza ad un insieme e l’affettuosità per quella Padova così cara al mio cuore perché … la città più vera erano le mani / la voce del padre della madre / che ci conducevano per quegli spazi / della vita come luoghi dell’anima….
Ecco non potrei capire mio padre avulso da quella città, dalla casa di via Aristide Gabelli, dalla famiglia, da quella elegante via porticata, dall’amicizia con Orazio e Jolanda, la Giannina, dall’affetto fraterno con il cognato Leone e con tanti altri amici: nelle loro conversazioni sgranavano quel rosario di contraddizioni di un’Italia difficile da comprendere, anche ora, nella sua storia e nelle sue scelte, ricomponendole in un’accettazione anche dell’incomprensibile. Solo alla morte di mia madre, con la scoperta di quel sacro carteggio tra loro, abbiamo potuto ricostruire e capire il cammino degli IMI che hanno pagato il loro contributo, con la fedeltà al giuramento di soldati e la resistenza passiva, meglio reattiva al nazifascismo, a questa pagina di storia molto complessa. Espressione di un’Italia divisa fra chi collaborava con i tedeschi e quelli che resistevano nei campi di concentramento a pressioni psicologiche di ogni genere, magari considerati dagli altri dei traditori. E allora ovviamente la visione si dilata poi alla vicenda di tutto il Novecento che è quanto mai composita e crudele, ma questo mi sposterebbe lontano a ricercare le cause remote della difficoltà di un popolo a ritrovare la propria identità. La comprensione del vissuto degli IMI diverrà però chiara e completa con lo studio della memorialistica, sollecitato dalla frequentazione del giornalista Giovanni Lugaresi a Terranegra che ben ha delineato questa pagina storica rivalutandola nella sua verità nelle pagine di “Per l’Italia – Associazione Nazionale Combattenti Reduci, Federazione di Padova”, nella stessa “Lampada – Bollettino del Tempio Nazionale dell’Internato Ignoto di Padova”, ma soprattutto nei suoi rapporti con Giovannino Guareschi registrati in molti suoi scritti.
Immagini tratte da “Per l’Italia, anno 23, nr 4/2007 Associazione Nazionale Combattenti e Reduci – Federazione di Padova
E subito il suo nome mi smuove un caro ricordo che mi porta ad una sera in cui siamo stati da lui invitati ad accogliere quella famosa Carlotta Guareschi con cui condividere i ricordi dei nostri padri ma una nevicata copiosa ha bloccato la circolazione dei treni e ci ha impedito l’incontro. Ugualmente in questa narrazione del silenzio voglio ricordare i tanti nomi autorevoli che hanno condiviso sacrifici, momenti di cultura e di invenzioni piacevoli, di speranza nell’impegno di difendere sempre la loro dignità di uomini: Enzo Paci, Giovannino Guareschi, Gianrico Tedeschi, i patavini Giovanni Contarello, Oreste Guelfi, Vittorino Gruden, Leone Schiavon… E consolante come una preghiera, / divino nutrimento all’anima / tra voi nella camerata a sera, / la linfa-logos dei Grandi che scorre / scavata da Paci il filosofo, / captivo d’uguale destino, / voce-riaccensione di sé ed altri / in archetipi-comune appartenenza / all’umano procedere sempre / oltre il limite delle baracche / oltre lo sguardo folle del presente [tratto da “La grande attesa – Campo di Benjaminow n. 5437” in Fragmenta, 2006].
Quest’ultima strofa è un richiamo per passare il testimone a noi figli e nipoti ad impegnarci nella comprensione di questo e di ogni periodo storico oltre lo sguardo folle dell’indifferenza.