Gianni Giolo – Cento sonetti
Un viaggio dell’anima e della mente fra personaggi del mito, attraverso voci auree della latinità, Catullo, Ovidio, Orazio, sua guida etica e estetica, fino alla contemporaneità della Szymborska sui passi di altri, Leopardi, Foscolo, Tommaseo… che hanno segnato il nostro cammino letterario.
Un viaggio quindi attraverso la cultura per esprimere poeticamente un’esperienza umana variegata, estesa in un’arcata poetica che si apre con la amara certezza della caduta dei sogni dell’infanzia in un procedere di delusioni acutizzate dalla propria solitudine e si conclude con un bilancio negativo della vita, senza amore, in un rimpianto delle feste ormai passate Quanto è triste il giorno vuoto | dell’Epifania, quando le siepi | dei pastori e le luci dei presepi | si tolgono e tutto torna immoto, …(XCIII), affondando nel mistero della morte. Vita-morte-tempo, motivi ricorrenti in molte sue pagine, anche in un intenso dialogo con Orazio che si chiude: Tempus tamen inexorabile it | e i mali ritornano non mai. (XLIV) e in altre note: Mi sto avvicinando all’ignoto | e ne sono profondamente turbato…Ho vissuto la vita nell’incoscienza | del suo fluire e del suo passaggio.…(XC).
In tale stato esistenziale così lontano dalle attese, talora inquietante, Giolo trova conforto in primis nei suoi poeti, nella condivisione dell’amore per la bellezza della natura, della campagna, oasi eletta da Orazio luogo di miti e di penombre | per la poesia eterna e mortale… (XXXVIII), ma anche da Zanella e dallo stesso autore che in particolare si commuove di fronte alla dolcezza del paesaggio veneto: Vorrei cantar la tua verdezza | antica e le colline svaporanti | nei lucidi tramonti rosso | arancione inebrianti, le lune | rare candide e dorate | e i boschi tumidi e deserti. (VI) La corda dell’elegia, del compianto sulla propria sorte, di classica origine, per cui invoca il regno delle ombre, sottende l’arcata dei Cento sonetti in progressione numerica romana, ma vibra a slanci d’amore per i luoghi visitati: Rodi, la Sardegna, la Ciociaria dove nacque il grande Arpinate, e Napoli di Maruzzella, | città piena di ospitale magia, | in cui senti che la vita è bella,(LXX)e pureper la musica e il canto che talora lo fa impazzire, come la luna rossa di Renzo Arbore o la voce amata della Callas che canta la Traviata. In questi spazi, in questi momenti d’arte divina il poeta si sente sospeso fra tanto languore… immerso | in una notte felice che non ho avuto mai.(LXVIII)
E così l’arcata poetica acquista tonalità diverse e tocca il suo culmen nella memoria del proprio vissuto, i ricordi delle giovanili fiere, la contrada, la casa, quando cioè s’innesta il motivo del ricordo che diviene nutrimento all’anima pur velato da un sottile rimpianto per la gioia perduta: in realtà il ricordo è conforto altro, il luogo della verità. E il viaggio si fa intimo, sofferto, fatto di piccole cose, ripercorso in giorni immacolati dei miei candidi natali | favolosi, intimi e discreti | con la mamma e il papà poareti. … Ricordo le carole dei cantori | e il lucore delle nude sere | azzurre e le nenie dei pastori. (LXXXVII), tempo di gesti e parole che s’incarnano nel volto del padre e della madre la cui memoria durerà perché lo hanno meritato con la loro vita. E del padre appunto rivede la figura esile, onesta, col sorriso opaco…da povero impiegato. | Ma quando esalasti l’anima leggera | t’illuminò un sorriso estasiato;(XXXIV) ma soprattutto lo ripensa con sofferenzanella malattia | che ti consunse col suo passo lento e risente il dolore della sua assenza, ma anche della propria lontananza quasi, ma non vera dimenticanza: ma dentro il cuore sordo mi sei rimasto…o padre, che non andai a trovare | mai più nel vuoto cimitero…(XXXIII-XXXVI). Riemergono anche i ricordi delle tristi ore della mia dura | infanzia, nel collegio nero, | a guardare le cinta delle mura (XXXVI) non compreso nella sua solitudine.
E sempre quel desiderio della casa che diviene simbolo di smarrimento quando muore la madre perché con lei muoiono le parole, muore la gioia, letizia, il sole…(LXXXV) e muoiono anche gli incontri nei giorni di festa, i gesti affettuosi e le favole, muore il tempo della felicità. E qui le stanze si dilatano all’età dell’ amore delle primavere…delle cose eterne, (XXVIII) dell’avventura giovane, ma anche del dolore per le assenze di giovani amiche fino a richiudersi in quella dolente meditazione, come già annunciato, sulla vita senza amore, sulla vecchiaia, affannato correre di memoria petrarchesca, verso il mistero. Confortato però dalle parole di W.Szymborska: chi non conosce l’amore felice | Dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice. || Con tale fede vi sarà più lieve vivere e morire (X) la sua accettazione della morte diviene più leggera.
Il tutto sempre in un colloquio intimo con i suoi poeti cosicché il soggettivo, l’autobiografico, il personale si dilata, si allarga in un’universale constatazione di dolore e perdita sorretta dalla poesia, che sola dà la pace, e dal suo spessore di eternità. La sua storia minuta, espressione della solitudine, dell’inquietudine del nostro tempo, attenta anche ad altri risvolti della nostra società quali l’abbandono della campagna, le mutazioni climatiche…, scorre nel fluire della grande storia fissato armoniosamente nella forma chiusa del sonetto. Il percorso poetico è sorretto da un registro linguistico sempre alto, impreziosito da versi di autori latini, da voci arcaiche (anche dialettali), che ben si addicono all’atmosfera del mito, ai personaggi semi-dei, eroi dell’antichità greco romana e alla sensibilità di Orazio, da espressioni assunte dai poeti del ‘900, in un variare di toni più tenui invece quando s’addentra nel proprio vissuto, nella amata terra veneta.
L’opera è uno scrigno di sentimenti e musica “nella misura dell’ordine armonico” realizzato dal “talento di orchestrazione delle possibilità del dire in forme chiuse”, in cui si compenetrano “una perfetta educazione umanistica” ed esperienza vissuta fino “alla contemporaneità del minimalismo biografico e quotidiano attuale” come si evince dalla motivazione del premio I Murazzi per l’inedito 2011.
Ma è il poeta stesso che nella sua dotta ed esauriente premessa ci illumina sulla storia del sonetto nel suo valore metrico e stilistico quale forma rigorosa e al tempo malleabile, capace di garantire una certa comunicazione, una continuità fra individui di epoche lontane. Ne esamina il percorso letterario dal ‘200 attraverso Petrarca, Tasso fino allo splendore e alla maturità del Foscolo, concludendo l’analisi con altri autori del ‘900. Dai sonetti del Foscolo si muove Giolo con temi nuovi quali la solitudine, la delusione, la morte.
“Dopo gli anni ottanta del ‘900, sostiene l’autore, si registra un incremento significativo nella produzione della forma, perché acquista sempre più coscienza che si pone come antidoto al linguaggio effimero, ripetitivo e povero dei mass-media…La rima diventa così una straordinaria evocatrice dell’inconscio e, come dice la Valduga, “la prigione della forma è la più altra espressione di libertà, perchè essere costretti a scegliere tra poche parole ci fa dire di noi qualcosa che sapevamo neppure di sapere”. La rima conferisce al testo una circolarità e una chiusura che ne assolutizza la durata e lo sottrae al fluire labile ed effimero del tempo”.