Antonio Daniele  – Lucamara e altre poesie pavane

A dire il vero alle prime pagine della composita raccolta (Lucamara, Ferume e Rugoleto), pur in parte a me già note, mi sono sentita aggredire dall’uso del pavano, dialetto revoluto del proprio contado (scritto come se lo avessero scritto i miei, se fossero andati a scuola), un po’ duro all’inizio da masticare. Poi lentamente più morbido al palato, al cuore, capace di catturarti perché ha la vita dentro di quella campagna da me amata e vissuta, durante i soggiorni nella casa dei miei nonni paterni, con i suoi ritmi, con la fatica della gente, con la pazienza e la saggezza della terra, intrisa di proverbi dei vecchi, di tradizioni, filastrocche, giochi dell’infanzia. Terra tradita da ‘na man de ciordi che hanno disorientato, in nome di un arrogante progresso, con le strutture della zona industriale, l’uomo nel suo lavoro, nel paesaggio agreste, nella memoria individuale e collettiva.

Sensazione che ho provato anch’io quando, rivedendo i luoghi, non ho più riconosciuto la casa dei miei nonni, lo spazio-tempo della mia infanzia. Però questa poesia, con la sua funzione quasi di bussola, mi ridisegna i punti cardinali per ritrovarmi, rievocando un mondo pregno di sapori, odori, suoni campestri, profumo di fiori e foglie, di primavera spanìa, voci di animali alati e terrestri, di feste paesane, ancora in me vive: il tutto diviene memoria affidata al verso, alla parola perfettamente aderente all’immagine creata. Questo paesaggio arcaico fa da sfondo a tutta la raccolta e ne è elemento unificatore con la sua staticità atemporale, ma anche con la dinamica della natura garante di pulsioni stagionali, scansioni perenni, riferimenti nel procedere umano, nello scorrere del tempo, motivi conduttori della raccolta.

Un paesaggio quindi con i suoi slanci vitali che percorrono pure i febbrili amori giovani dell’autore, sicché fra le vigne, le siepi, i campi, le barchesse e l’adolescenza-giovinezza del poeta c’è un intimo legame tradotto nella sua verità in gesti –parole -riti amorosi che, allo smalto del ricordo, s’illuminano di quella luce dolce-amara, la nostalgia per il bene più grande della vita, la giovinezza ormai fuggita via: altro tema ricorrente che ancor più turba l’anima stessa dell’autore in note continue di rimpianto per l’amore ormai perduto in quel tempo passato per sempre di cui rimane solo un quadrifoglio tra le pagine di un libro aperto. Sì perché la raccolta (un diario, un libro di meditazioni) è in fondo un ragguaglio sull’esistenza, realizzato appunto attraverso ricordi, malinconie, rimorsi, rimpianti, revisioni, in un voler tornare indietro.

È un colloquio ben riuscito dell’autore con se stesso, ora triste, ora ironico nel guardare la vita e la propria frenesia d’amore , che rivela in fondo la sua filosofia esistenziale, e anche la nostra: un inquieto chiedersi il senso delle cose, un guardarsi a ritroso fra un intrico di se e ma, un lamentarsi/tormentarsi, dilaniati dal carólo dell’amore ed altro, che mastega dì e note dentro, con la coscienza sempre che manca una fregola per essere felici, nella realistica visione della fine tra quatro tòle. Ma risuona anche forte l’affermazione di una regola portante: l’accettazione della vita stessa che può vincere, pur con le sue difficoltà, su tutte le pene.

Lo spazio tempo si allarga ad altri luoghi (Vienna, Parigi, Udine…), ad altre esperienze vissute con la zia Ina, a persone care scomparse come Mario Rigoni Stern che sta morendo sol nostro Altipian, come Fernando Bandini ricordato in canti di usignoli, voli di colombe…, questo sempre con un sottofondo di malinconia per i beni perduti, non assaporati con la coscienza del momento vissuto. La poesia si allarga in preziosi intarsi di poeti italiani e stranieri del passato in una condivisione valoriale, in particolare con il Petrarca, poesia resa sempre più pura nel bel dialetto autentico, colto, capace di suggerire atmosfere suggestive ed emozioni, in particolare legate all’infanzia (da bocia ghevo coato in granaro/ dove nessun me saveva catare) e alla natura (varda se oncora/ me incanta/ la cipria d’oro/ de on petabrose). Il tutto coniugato in una variazione metrica davvero sorprendente.

Bravo l’autore per questo suo Lucamara, nostra radice bambina, dal sapore dolce-amaro, fra tritumi del fieno lasciato dopo la mietitura, col ricordo del pasquale rugoleto, memoria scomparsa di un mondo più povero ma forse più felice, testimonianza da trattenere ancora. Quindi, come dice Paccagnella, un canzoniere d’amore ma anche un canto alla natura, alla vita nelle sue note più profonde di gioia e dolore. Uno scrigno ruvido in dialetto pavano, contenitore avvolgente del vissuto umano e culturale di Antonio Daniele. E Zanzotto affermerebbe che solo nella lingua succhiata dalla madre-terra si può esprimere la vita nella sua innocenza e verità.