Il “Discorso della vita e della morte” di Philippe Duplessis-Mornay cura di Mario Richter
Nel nostro incontro culturale a Praglia così esordisce Mario Richter, ormai divenuto partecipe di questa atmosfera ma anche significativo relatore su argomenti sempre nuovi a noi amabilmente offerti in tutta la sua ricchezza esplorativa.
«Discorso della vita e della morte. Difficile immaginare un titolo più diretto, più fondamentale di questo: ci mette di fronte all’unico argomento che dovrebbe davvero interessarci (anche se normalmente facciamo di tutto per non guardarlo in faccia).
Immagino che qualcuno abbia già dato una scorsa all’opera di cui sono stato gentilmente invitato a intrattenermi oggi con voi, e immagino anche che in tal caso si sia reso conto che la visione della vita può non apparirvi fra le più ottimistiche (almeno per quanto riguarda la nostra abituale idea di vita).
In realtà, potrei subito affermare che questo breve trattato viene incontro, simultaneamente, ai più irriducibili pessimisti e ai più convinti ottimisti.»
Scusi se la interrompo, sono molto incuriosita da questo argomento e nello stesso tempo devo confessare la mia più completa ignoranza sull’autore di simile trattato. Quindi amerei conoscere il suo ruolo nel contesto storico-politico in cui vive la sua dimensione culturale.
«Vediamo allora intanto di collocare un pochino l’opera nel suo contesto.
Prima di tutto credo che non sia inutile dire qualcosa dell’autore: il suo nome è Philippe Duplessis-Mornay (1549-1623), un personaggio di grande rilievo, che tuttavia la storia ufficiale ha avuto il torto di tenere troppo nell’ombra.
Di famiglia aristocratica, vive la parte centrale della sua vita negli anni più truci delle guerre civili, quelle interminabili guerre che, nella seconda metà del Cinquecento, dilaniano la Francia per almeno trent’anni. Le guerre erano causate dai contrasti religiosi (ma non solo religiosi), contrasti che opponevano cristiani a cristiani, i cattolici e i protestanti calvinisti (detti anche ugonotti). Il culmine di atrocità e cinismo di questi dissidi fra cristiani è di sicuro raggiunto a Parigi nella Notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572): in quella notte, con un piano cinico e criminale organizzato (ahimè!) da fanatici cattolici, sono trucidati, proditoriamente aggrediti nel sonno, migliaia di calvinisti. Duplessis-Mornay si trova a Parigi in quei giorni. Avvisato del pericolo grazie al provvido soccorso di amici (anche cattolici), riesce a salvarsi in modo rocambolesco riparando in Inghilterra. Prima di conoscere in prima persona gli orrori della Notte di San Bartolomeo, Mornay viaggia per tutta l’Europa, scendendo anche in Italia, dove nel 1570 è attestata la sua iscrizione all’Università di Padova (peccato che sia andato perduto un suo diario del viaggio da lui compiuto in Italia circumnavigando buona parte della penisola).
Nel 1576, l’anno stesso di pubblicazione del Discorso, Mornay entra a servizio di Enrico di Borbone, allora giovane re di Navarra. Soltanto di quattro anni più anziano, ne diviene l’istruttore di maggiore confidenza e di maggiore credito (ha una vasta cultura e conosce molte lingue, a cominciare dall’ebraico, dal greco e dal latino, che parla correntemente).
Tutto l’impegno di Mornay è dedicato alla costruzione e alla definizione di una chiesa riformata francese, per la cui istituzione scrive due opere di rilievo: il Trattato della chiesa (1578) e Sulla verità della religione cristiana (1582), un libro, quest’ultimo, che Pascal avrà forse modo di compulsare per dare attuazione a un progetto dello stesso genere, di cui restano però soltanto le preparazioni, ossia i famosi Pensieri. Mornay fu addirittura chiamato, per questa sua funzione di prestigio, “papa degli ugonotti”. »
Ecco, ora posso dirmi quasi soddisfatta: è un uomo politicamente impegnato, molto colto con una sua ben delineata dimensione religiosa e una sua ricca produzione scritta. Probabilmente aveva un suo disegno preciso da realizzare?
«La sua più grande speranza è che la chiesa cristiana riformata possa avere come monarca, in Francia, il giovane Enrico di Navarra, della dinastia dei Borboni. Infatti Enrico è un principe che ha le migliori credenziali in questo senso: è cresciuto in ambiente riformato (la madre, Jeanne d’Albret, era diventata un’accesa calvinista). È certamente dotato di vivace intelligenza. È capace di guidare altri uomini. È particolarmente abile nell’uso delle armi. Peccato però che sia abituato a vivere in modo abbastanza disordinato (fa le ore piccole, si alza tardi alla mattina, dedica eccessivo tempo alla caccia e alle donne, prega poco ecc.). È inoltre un principe di secondo piano, confinato in un regno periferico, appunto la Navarra, che non gli consente la necessaria visibilità presso le più importanti corti di Francia e d’Europa.
A Mornay va riconosciuto il grande merito di aver fatto di Enrico un principe presentabile e noto, fino a renderlo credibile erede del trono di Francia (il primo dei Borboni). Soprattutto Mornay gli organizza con pazienza una politica accorta e prudente, sempre tesa al grande bene della pace, della conciliazione. Possiamo immaginare quanto grande è la delusione che prova il giorno in cui il re, da lui pazientemente formato ed educato, per salire sul trono di Francia rinuncia al calvinismo e si converte al cattolicesimo (a Enrico è stata attribuita la famosa frase: Parigi val bene una messa!). Mornay si ritrae allora dalla scena politica dedicando gli ultimi anni all’Accademia di Saumur (una specie di università per protestanti).»
Risalta quindi chiaramente dal suo esaustivo ragguaglio il percorso programmato da Duplessis-Mornay e la profonda delusione da lui provata, diciamo, come politico. Ma nonostante la sua ricca produzione, come mai oggi è poco conosciuto anche da accademici da me contattati?
«Ad assicurare la fama che Mornay avrebbe meritato non sono bastati i versi che gli dedicherà Voltaire nel suo poema epico La Henriade, versi che lo elogiavano per la sua instancabile attività di saggio fautore di pace. Disgraziatamente per Mornay, La Henriade, pur celebratissima al tempo del suo autore, non ebbe il successo sperato e fu giudicata, come anche da Leopardi, opera noiosissima. Di qui il suo relativo oblio.
Ma veniamo al trattatelloche ho da poco trasferito nella nostra lingua e il cui testo originale (francese) allestii molti anni fa, nel 1964, in edizione critica per le pubblicazioni dell’Università cattolica del Sacro Cuore. Ricordo che il cardinale Tisserant, a cui l’opera fu inviata, espresse allora il suo compiacimento per una iniziativa da lui considerata utile per l’auspicata unità dei cristiani.
Il Discours fu pubblicato dal fratello dell’autore nel 1576 con il titolo Excellent Discours de la vie et de la mort. All’epoca Mornay aveva 27 anni e il Discorso fu (pensate un po’!) un dono di nozze. L’accoglienza da parte del pubblico risultò molto favorevole, avendo richiesto, fra il 1576 e il 1610, ben 14 edizioni. Un vero bestseller. Non solo, ma lo scritto fu anche ritenuto degno di imitazione. Un poeta cattolico dell’epoca, Jean-Baptiste Chassignet, rivalutato nel secolo scorso nel quadro del ricupero dei poeti cosiddetti barocchi, ne trasferì molte parti in poesia, facendone numerosi sonetti. Questo è un indubbio segno di successo.
È adesso necessario capire qual è l’ideologia o, se vogliamo, la teologia che guida Mornay in questo suo Discorso.»
E in relazione al discorso a cui lei ha appena accennato, qual è questo spirito che muove l’autore per realizzare un’opera di questo genere? Oltretutto, finalmente, riconosciuta dai grandi del tempo.
«Credo che, su questo piano (dico l’ideologia), il Discorso dobbiamo considerarlo un effluente scaturito dal maestoso fiume dell’opera di Giovanni Calvino, l’autore del primo vigoroso trattato di pensiero in prosa francese, l’Istituzione della religione cristiana, trattato apparso prima in latino (1536) e poi (nel 1541) tradotto e pubblicato in francese dallo stesso Calvino.
Esiste un prezioso libretto che ci offre una chiara sintesi della Istituzione. Fu scritto dallo stesso Calvino ad uso dei catechisti proprio nel penultimo anno della sua vita (1563).
Mi fermo su ciò che più preme qui sapere. Si tratta di spiegare l’ultima richiesta del Padre nostro, quella che dice “ma liberaci dal male”. Ecco l’istruzione che in proposito Calvino dà al catechista: la prima cosa che il catechista deve dire all’allievo è che “noi abbiamo una tale corruzione fin da quando siamo nel ventre di nostra madre, che tutti i nostri sensi, tutti i nostri pensieri e tutti i nostri desideri sono portati al male”.
Dopo di che, Calvino invita il catechista a porre all’allievo la seguente domanda: “Dal momento che noi siamo a tal punto corrotti, come può avvenire che odiamo il male e amiamo il bene al quale dobbiamo aspirare? Questa sia la risposta da dare: Noi possiamo amare il bene unicamente in virtù dello Spirito Santo. Ecco perché – deve continuare a spiegare il catechista – tanto spesso nella Scrittura le due parole Spirito e Carne si trovano contrapposte l’una all’altra. La parola Carne designa l’uomo, di modo che tutto ciò che portiamo dal ventre di nostra madre si chiama Carne. E che cos’è Spirito? Non è nulla che ci appartenga, nulla che noi si abbia in eredità nascendo, ma è la Grazia di Dio dalla quale noi siamo rinnovati”.»
Qui, da quel che posso capire, siamo in piena atmosfera calvinista. È interessante saperne di più per una comprensione più autentica delle affermazioni del nostro ma anche per avvicinarci di più a questa religione per un confronto, un rapporto con le altre, con la nostra.
«Come ben si vede, Calvino stabilisce un’opposizione fondamentale: da una parte la Carne (cioè l’uomo, tutto l’uomo, anche la sua intelligenza naturale avuta per nascita), dall’altra lo Spirito (cioè la Grazia che salva e che appartiene soltanto a Dio).
Ma sentite come Calvino si esprime, a proposito dell’intelletto e del cuore che l’uomo ha per natura, anche nella Istituzione cristiana: “L’intelletto dell’uomo è completamente estraneo alla giustizia di Dio, al punto di non poter immaginare, né concepire, né comprendere null’altro che cattiveria, iniquità e corruzione. Allo stesso modo il suo cuore è avvelenato dal peccato al punto di non poter produrre che perversità. E se accade che ne esca qualcosa di buona apparenza, tuttavia l’intelletto rimane come mascherato dall’ipocrisia e dalla vanità e il cuore dedito ad ogni malvagità” (Ist. Crist., (I, p. 457).
In tutta questa impostazione relativa al problema del male e del bene, a Calvino servono chiaramente da guida San Paolo (per l’opposizione fra Carne e Spirito) e sant’Agostino (per la Grazia come unica via di salvezza, a cui si collega la predestinazione).
Questa è la visione teologica che sta anche alla base del Discorso di Mornay.»
Anche se capisco che ci muoviamo in un altro ambito religioso le chiedo il suo pensiero sul libero arbitrio di cui godiamo, che ci rende più uomini, più responsabili nella scelta tra il bene e il male.
«Ecco dunque che l’intera vita umana ci è presentata nella sua strutturale negatività, vita che è in ogni suo aspetto osservata come espressione del Male (o del peccato), costantemente oppressa dai pericoli e dalla più dura fatica. Riprendendo temi presenti soprattutto nel dialogo pseudo-platonico Assioco (Ἀξίοχος), Mornay rappresenta la vita con l’immagine di una navigazione minacciata da naufragi, di un viaggio insidiato da briganti e di un lavoro massacrante di cui si aspetta con ansia la conclusione e il riposo (cioè la morte, della quale però si ha paura). Il Male è determinato, nel testo di Mornay, da tre fondamentali passioni (Freud direbbe “pulsioni”): i desideri viziosi legati ai sensi, l’ambizione e la ricerca smodata di ricchezza (o avarizia).
L’uomo è interamente posseduto da queste passioni, alle quali non sa in alcun modo sottrarsi con le sue risorse naturali, quelle che san Paolo chiama “carnali”.
Mornay passa in rassegna le varie età dell’uomo (fanciullezza, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia). Ne mette in luce tutte le miserie, e lo fa in modo lucido e spietato. Da cosa nascono tante miserie e tanti dolori? Nascono dal fatto che l’uomo si trova appunto a essere irrimediabilmente ‘bacato’ (menomato), perché col peccato originale è caduto vittima del Principe di questo mondo, il Maligno o il Diavolo. A noi, oggi, sempre più dominati da una cultura materialistica che tende a escludere ogni valore spirituale e, dissennatamente, a fare della vita presente il tutto, a noi questa visione in apparenza tanto cupa e depressiva potrà magari sembrare strana, eccessiva. In realtà, è condivisa da alcune fra le maggiori menti sincere, realistiche e non necessariamente religiose. Si pensi almeno a Leopardi (“È funesto a chi nasce il dì natale”, ultimo verso del Pastore errante dell’Asia). Baudelaire dice in modo molto diretto: “È il Diavolo che tiene i fili che ci muovono” e non esita a rappresentare il nostro cervello come un intestino pieno di ossiuri.
Qualunque cosa l’uomo faccia con le sue sole forze, non riesce a liberarsi dal tormento, dal malessere che dovunque lo accompagna e lo opprime. Nella navigazione della vita è insidiato dal mal di mare. È affetto da un male assimilato a un contagio di peste o a una febbre. Non serve cambiare barca. Non serve cambiare luogo. Il Male ci segue, non ci abbandona mai. È dentro, non fuori di noi, il Male (lo sapeva bene Gesù).
Leggiamo, a questo proposito, un passo del Discorso che efficacemente illustra questo stato che ci affligge senza rimedio:
Se siamo sfuggiti al contagio di altri, abbiamo l’infezione in noi stessi. Ci siamo ritirati dal centro degli uomini, ma non abbiamo ritirato l’uomo dal centro di noi. Il mare in tempesta ci tormentava, avevamo nausea con sforzi di vomito. Per liberarcene, siamo passati da una nave a un’altra, da una più grande a una più piccola. Ci auguravamo di star bene, ma invano, poiché sono sempre gli stessi venti che soffiano, le stesse onde che si levano, lo stesso malessere che ci tormenta. Per tutti non c’è altro porto, altro mezzo di tranquillità se non la sola morte. Eravamo ammalati in una camera che dava sulla via o sul mercato, ci siamo fatti portare in una cameretta del lato opposto, dalla quale non si senta un così grande rumore. Ma per quanto ci sia meno rumore, la febbre non cessa di esserci e con ciò non perde nulla del suo ardore. Cambiamo ogni tanto letto, camera, casa e paese, ovunque troveremo la medesima inquietudine, per il fatto che ovunque troviamo noi stessi e non tanto cerchiamo di essere altri quanto di essere in un altro luogo. Cerchiamo la solitudine per fuggire la sollecitudine. Ci tiriamo da parte, all’opposto, diciamo, dei viziosi, ma ci portiamo con noi la nostra avarizia, la nostra ambizione, la nostra lussuria, tutti i nostri desideri viziosi.»
Certo che già a questo punto della sua dotta e approfondita esamina dell’esistenza ti prende un odio per la vita così com’è intesa da Duplessis-Mornay. La vita invece è da amare non solo perché c’è la morte ma per ogni elemento che la compone. Sì, anche per la morte stessa che da valore alla vita. E penso all’innocente stupore di San Francesco nel Cantico delle Creature. Spero che all’orizzonte appaia un segno di speranza senza la quale non possiamo vivere.
«La vita presente, oltre ad essere un Male su cui però l’uomo vorrebbe fondare ogni sua certezza, è del tutto priva di consistenza, è un non-essere, un continuo morire. Ecco un altro passo di Mornay, che in questo caso si avvale di quanto Seneca dice nell’Epistola XXIV:
Il nostro vivere non è altro che un continuo morire. Nella misura in cui viviamo noi moriamo. Nella misura in cui cresciamo la nostra vita decresce. Non avanziamo di un passo nella vita senza avanzare di un passo nella morte. Chi ha vissuto un terzo dei suoi anni ha un terzo di sé morto. Chi la metà è già per metà morto. Della nostra vita, tutto il tempo che è passato è morto, il presente vive e insieme muore e il futuro pure morrà. Il passato non è più. Il futuro non è ancora, il presente è, eppure non è più. Insomma, tutta questa vita non è che una morte.
Teniamo però presente che il pessimismo di Mornay non rimane chiuso in se stesso, non diventa prigioniero del materialismo o del meccanicismo scientifico che avrebbe progressivamente conquistato la cultura moderna, materialismo che, ad esempio, ha contribuito a fare di Leopardi e anche di Baudelaire (e di molti altri) dei pessimisti sostanzialmente tragici.
Mornay ha ferma fiducia nella promessa di quell’uomo storico vissuto sotto il procuratore romano della Giudea Ponzio Pilato, Gesù di Nazaret che, in virtù della testimonianza di uomini onesti e del tutto credibili (i suoi discepoli), è morto in croce ed è risorto. Entro questo orizzonte, la morte (ma abbiamo visto che tutta la vita è una morte!) diventa dunque la cosa più positiva che ci sia, perché apre alla vita eterna, apre all’infinito, all’eterno presente. In altri termini, la vita presente dev’essere amata in quanto è una morte che rende possibile l’accesso alla vera vita.
Mornay, insomma, pur senza meriti se non quello dell’umiltà, da fedele seguace di Calvino, ha la Speranza che gli viene donata dallo Spirito Santo, ha la Grazia, ha la fede. Così, soltanto la morte può rovesciare il pessimismo in ottimismo.
Concludo con la lettura di altri due passi animati da una ferma speranza.
Questa carne che senti, questo corpo che tocchi, amico mio, non è l’uomo. L’uomo è nato nel cielo, il cielo è la sua patria e la sua aria. Ciò che egli è nel suo corpo, lo è come in una forma di esilio e di confino. L’uomo in senso proprio è anima e spirito. L’anima è una sostanza celeste e divina, che non ha nulla della pesantezza materiale. Il corpo così com’è attualmente non è che la scorza e il guscio, e di necessità occorre che questo si rompa se vogliamo venir fuori, se vogliamo vivere davvero, se vogliamo vedere il giorno. Abbiamo pure, ci sembra, una vita e un sentimento, ma siamo tutti adagiati, non possiamo aprire le ali, siamo ben lontani dal poter spiccare il volo verso il cielo, dal toglierci di sopra questa massa di terra. Guardiamo, ma con occhiali che c’ingannano. Abbiamo occhi, ma coperti da una benda. Pensiamo di vedere, ma ciò avviene con una immaginazione che ci fa vedere soltanto cose non vere. Solo la morte ci può rendere e la vita e la vista, mentre pensiamo, tanto siamo abbrutiti, ch’essa venga a togliercele.
È preferibile, dice Salomone, il giorno della morte al giorno della nascita. E perché? Perché non è per noi un ultimo giorno, ma la nascita di un giorno eterno. Sotto quella bella luce non avremo più rimpianto del passato, più non avremo attesa del futuro, perché tutto ci sarà presente e quel presente non passerà mai. Non ci consumeremo in vani e dolorosi piaceri[1] perché saremo pieni di un vero e solido piacere. Non ci affaticheremo più ad accatastare le emissioni della terra, perché nostro sarà il cielo. La massa di terra che ci attirava sempre verso terra sarà in terra. Non ci dispereremo più a salire di grado in grado e di onore in onore, perché saremo elevati in alto al di sopra di tutte le altezze del mondo, e dall’alto rideremo della follia di tutti quelli che ammiriamo, che si fanno guerra per un nonnulla e, come i bambini, per meno di un frutto. Insomma, non avremo più lotte in noi stessi, perché la carne sarà morta e lo spirito in piena vita, la passione sotterrata e la ragione allargata. L’anima, liberata da questa immonda e sozza prigione, nella quale per tutto questo lungo tempo si sarà come assuefatta e adagiata, riprenderà la sua aria, riconoscerà la sua antica dimora e si ricorderà del suo primo splendore e della sua prima dignità.»
Ecco finalmente una risposta positiva all’attesa che mi da coraggio. Ma giunti al termine della lettura di questo trattato che mi sono nel frattempo rivista, mi sembra di avvertire anche un certo lirismo in alcune sue pagine. E mi chiedo come la bellezza estetica possa coesistere con una così orrenda visione della vita.
RISPOSTA
Ad ogni modo io la ringrazio, professor Richter, profondamente per questa sua generosa offerta culturale. In realtà tutto il discorso è interessante perché ci fa meditare su quelle verità che normalmente evitiamo ma anche sulla realtà malvagia del nostro tempo (alludo al terrorismo, corruzione, caduta di valori) per tanti aspetti vicina a quella dell’epoca di Duplessis-Mornay. Io modestamente mi trattengo sulle mie idee cioè che il suo pessimismo sia stato influenzato dal Calvinismo e che il mio Cattolicesimo mi offra una visione altra della vita come dono di Dio che ce la ridona ogni giorno pur con le mille difficoltà e sofferenze da subire. Da queste spesso riusciamo a risorgere con l’aiuto dello Spirito Santo e della preghiera. E penso alle nostre orazioni, oltre alla Salve Regina, come antidoto alla disperazione: l’Ave Maria, il Padre Nostro, l’Angelo di Dio… orazioni che ogni istante ci ricongiungono a Dio anche se intorno a noi permane il mistero.
Grazie ancora di questo momento di meditazione che ci ripropone una riflessione anche sulla nostra dimensione spirituale.
[1] “Piacer figlio d’affanno” oppure “uscir di pena / È diletto fra noi”, dirà sconsolato Leopardi nella Quiete dopo la tempesta.