Il tradimento della storia: Vittorio Sereni – NTL n. 121 del 2016

Vittorio Sereni fra verità storica e umanità rappresenta tutti gli uomini di quel tempo e di ogni tempo, traditi dalla realtà, alla ricerca sempre di certezze rassicuranti

Piace vagare fra i versi di Vittorio Sereni e ritrovare il suo vissuto umano e storico sostando in particolare su alcuni testi, qui proposti, scelti per un insieme di motivi: l’interesse personale per il passaggio per la Grecia una volta richiamato alle armi, il suo internamento per due anni nei campi di concentramento in Algeria, memoria del passato, cifra del suo poetare. E ancora la condivisione col suo sentire profondo l’amore e l’amicizia, in un rapporto intenso con gli altri, ricercando il dialogo reso ora in un linguaggio più prosastico.

Italiano in Grecia

Prima sera d’Atene, esteso addio
dei convogli che filano ai tuoi lembi
colmi di strazio nel lungo semibuio.
Come un cordoglio
ho lasciato l’estate sulle curve
e mare e deserto è il domani
senza più stagioni.
Europa Europa che mi guardi
scendere inerme e assorto in un mio
esile mito tra le schiere dei bruti,
sono un tuo figlio in fuga che non sa
nemico se non la propria tristezza
o qualche rediviva tenerezza
di laghi di fronde dietro i passi
perduti,
sono vestito di polvere e sole,
vado a dannarmi a insabbiarmi per anni.

Pireo, agosto 1942
Da Diario d’Algeria, ed. Mondadori

La poesia, scritta nell’agosto del 1942 al Pireo e riportata nel Diario d’Algeria, mi ha richiamato mio padre nel suo percorso militare lì iniziato, ignaro del dopo, nel gennaio 1943, e conclusosi con la prigionia in mano tedesca trascorsa in vari campi di concentramento. Ma qui ad Atene, l’anno precedente, Sereni ricorda la sua prima sera mentre i convogli se ne vanno e, in un’atmosfera di penombra, avverte come un sentimento di lutto per aver perduto tutto: l’estate, la sua giovinezza, presagendo di essere caduto in un domani senza stagione. E toccante è il suo richiamo all’Europa nel cui culto lui si era formato con fede in una civiltà che non tollerava alcun attentato alla libertà della persona in nome degli interessi dello stato. Ma sente questo suo mito precipitato in quella guerra nazi-fascista da lui definita tra le schiere dei bruti. In tale caduta di ideali, in questo presentimento di una fine quasi della giovinezza, lui parla ancora con l’Europa come un suo figlio che non conosce come ostili se non la propria malinconia e qualche rimpianto di luoghi lasciati e passi perduti. E avverte il presentimento, poi confermato, di essere condannato a insabbiarmi per anni e quindi a perdersi, seguendo la volontà dei bruti, gli stessi che hanno considerato poi gli IMI, nella loro resistenza passiva, dei traditori, per ritornare ancora alla vicenda di mio padre che in qualche modo mi lega a questo autore.

Nella raccolta Diario d’Algeria, secondo Raboni, “la storia è entrata nella poesia di Sereni” storia, come “girone grigio” che “corre nello scherno dei mesi”, privazione-rifiuto degli eventi che contano e del loro significato, insomma storia degli sconfitti. E Raboni prosegue definendola come “esperienza traumatica di fine della giovinezza, del suo limpido, incantevole, malinconico sogno d’attesa”. E proprio in questa verità umana-storica così tragicamente complessa e che ha segnato profondamente molti protagonisti-vittime del conflitto, è racchiuso “il perdurante e inconfondibile fascino, la speciale e perturbante bellezza del libro al quale ci troviamo ancora una volta di fronte come a un oggetto intatto e misterioso di conoscenza e amore”, libro apprezzato per questo ed altro anche da Zanzotto che considerava Vittorio Sereni amico fraterno.

L’altra poesia da me proposta, La spiaggia (da Gli strumenti umani, Einaudi 1965, come le due poesie successive), nasce ancora dalla memoria dei luoghi del passato, anzi in questo caso dalla volontà di non ricordare.

La spiaggia

Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore,
E poi, saputa: – Non torneranno più –.

Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari… Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno.

La spiaggia, in questa lirica, è un luogo mai visitato da cui emergono dei messaggi da quelle toppe solari, da quelle toppe di inesistenza realizzata con materiali come calce e cenere destinati ad un rapido degrado, che invece parleranno. Perché ogni vita, anche se offesa, non è spesa mai per niente, lascerà per il futuro sempre un suo monito da decodificare. E questo secondo l’etica anche di Sereni? E chi siano questi morti, i vendicatori secondo Fortini, o altri, non è quindi mio problema perché la poesia mi ha catturato per la sua carica emozionale espressa dal paesaggio scenico così crudo in cui profetiche pietre prenderanno voce, resa con l’introduzione di un personaggio misterioso che sembra rispondere al telefono, con la personificazione del mare così nudo che parla, e soprattutto con un linguaggio incisivo, nitido e brillante come quelle toppe solari. Carica emozionale, inoltre, tradotta in particolare nella terza strofa costituita da versi di grande efficacia, da indicibili immagini: i morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce. E il mare conferma che parleranno. Visione utopica o segno di speranza in un passato non vissuto invano ma che si esprimerà nel futuro, di un uomo che si è sentito tradito dagli errori della storia e trascinato dentro senza più identità? Opto per la speranza perché accanto a questa sua dimensione storica interessa sottolineare anche quella esistenziale che, se pur espressa in una disperazione nervosa, risentita, che cerca appigli, motivi nella storia e nella biografia, come afferma Piovene nel 1966, si illumina anche di intuizioni bellissime espresse in visioni-ricordi d’amore e d’amicizia quasi per darsi delle certezze di vita.

Appuntamento a ora insolita

La città – mi dico – dove l’ombra
quasi più deliziosa è della luce
come sfavilla tutta nuova al mattino….
«… asciuga il temporale di stanotte» – ride
la mia gioia tornata accanto a me
dopo un breve distacco.
«Asciuga al sole le sue contraddizioni»
– torvo, già sul punto di cedere, ribatto.
Ma la forma l’immagine il sembiante
– d’angelo avrei detto in altri tempi –
risorto accanto a me nella vetrina:
«Caro – mi dileggia apertamente – caro,
con quella faccia di vacanza. E pensi
alla città socialista?»
Ha vinto. E già mi sciolgo: «Non
arriverò a vederla» le rispondo.
(Non saremo
più insieme, dovrei dire). «Ma è giusto,
fai bene a non badarmi se dico queste cose,
se le dico per odio di qualcuno
o rabbia per qualcosa. Ma credi all’altra
cosa che si fa strada in me di tanto in tanto
che in sé le altre include e le fa splendide,
rara come questa mattina di settembre…
giusto di te tra me e me parlavo:
della gioia».
Mi prende sottobraccio.
«Non è vero che è rara, – mi correggo – c’è,
la si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. È
quest’ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un’arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza.
Potrei
con questa uccidere, con la sola gioia…»

Ma dove sei, dove ti sei mai persa?

«È a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione»
dico alla vetrina ritornata deserta.

In Appuntamento a ora insolita, ecco quei famosi scatti che erompono in endecasillabi lanciati come razzi nei versi. Pochi poeti hanno saputo rendere così viva, vera, personificandola, la gioia ma Sereni qui rivela l’incantevole sua capacità di dirci questo stato d’animo fanciullo così unico e di renderlo persona che parla, ride, accende una vetrina in una giornata rara come questa mattina di settembre in cui la città – mi dico – dove l’ombra / quasi più deliziosa è della luce / come sfavilla tutta nuova al mattino… «… asciuga il temporale di stanotte» – ride / la mia gioia tornata accanto a me / dopo un breve distacco. Il tutto in un linguaggio di luce fluido, vicino al parlato in cui prevale il dialogo come tecnica caratteristica di Sereni quasi per convincere se stesso della realtà di quanto sente nella parola rivolta all’altro che diviene conferma. Inesprimibile è la sua definizione di questa gioia (un’arma a doppio taglio): è quest’ora di settembre per me repressa / per tutto un anno… la si porta come una ferita per le strade abbaglianti… potrei con questa uccidere con la sola gioia… che mettono in evidenza quella sua inquietudine esistenziale, anche politica, insieme alla necessità di confortare, di rassicurare se stesso in questo suo sogno-realtà.

Medesima funzione consolatrice, rassicurante hanno anche le figure degli amici riemerse dal passato.

Gli amici

Nell’anno ’51 li ricordi
la Giuliana e il Giancarlo
ballerini e acrobati com’erano
con vocazione di poveri
di cui sarà il mondo domani,
salute gioventù fierezza scatto.
E oggi? In una torpida
mattina del ’60? O di essi e dei figli
bellissimi e terribili di cui
con intatta vocazione di poveri
ancora può essere il mondo
domani
per la decima estate non si orna
di nuovo la bocca del Magra?
Che tempi – mormori – sempre più confusi
che trambusto di scafi e di motori
che assortita fauna sul mare.
Non lasciatemi qui solo
– stai
per gridare – ritornate…
Ma ecco da dietro uno scoglio
sempre forte sui remi
spuntare in soccorso il Giancarlo.

E ti sembra un miracolo.

E a questi amici il nostro si rivolge, quasi in un’invocazione, non lasciatemi qui solo… ritornate… ma ecco da dietro uno scoglio / sempre forte sui remi / spuntare in soccorso il Giancarlo. / E ti sembra un miracolo. Proprio un miracolo la sua forza poetica di farli balzare vivi e scattanti nelle loro quotidiane passioni in un’estate sulla bocca del Magra ora confusa dal mutare del tessuto sociale. Poesia, quest’ultima e la precedente, che è canto dell’amicizia e insieme esaltazione di quello stile così nuovo, moderno, rivolto a un tu pieno di interrogativi ma anche innervato da una volontà di sperare almeno nei ricordi del passato. Poesia, che pur risentendo di quella tragedia che è stata per lui la prigionia e il tradimento della storia, esalta l’esistenza, cerca conforto nella vita stessa e nella sua bellezza cogliendo momenti unici, occasioni che riesce a rendere universali sia nel positivo che nel negativo. Esperienza questa che mi riporta ai sentimenti provati anche da mio padre. E il suo linguaggio colloquiale ma sempre puro, ripetitivo, iterativo è altro strumento per convincere se stesso, come in un’autoterapia, e gli altri rivelando l’esigenza di certezze buone.

Muovendomi tra i suoi diversi critici e studiosi, in particolare Pier Vincenzo Mengaldo, ricupero alcuni dati conclusivi: Vittorio Sereni, che non era né un intellettuale militante in politica né un letterato di professione, ha invece fissato in pochi libri di poesia la fisionomia civile, e forse il significato storico del dopoguerra. La sua visione, che è simile a quella di tanti reduci, come mio padre, i quali non sanno, non vogliono dimenticare né possono adattarsi facilmente a tempi nuovi, nasce dal sentimento di un’offesa personale: la prigionia che lo escluse dall’Italia negli ultimi due anni di guerra, costringendolo all’inerzia in un momento politicamente e socialmente e anche umanamente decisivo. Il tema della sua poesia dopo il 1945 non fu però la frustrazione privata, ma furono quei segni di sconfitta e di mancato soddisfacimento dei bisogni umani che egli andava, e va, scorgendo ovunque, come tratti essenziali del nostro tempo storico; di qui, il suo compianto per i morti inutili, e la sua dichiarata rinuncia a formulare programmi, a far previsioni, o semplicemente ad affermare, in positivo, certezze se non poetiche.

Per l’aspetto formale si può ribadire che Sereni, anche se ha cominciato a comporre versi durante l’ermetismo, presenta le caratteristiche di un poeta nuovo, che viene dopo la fase segnata da Ungaretti e Montale. Il suo linguaggio, postermetico, è controllatissimo negli effetti, si parla di castità formale. Vuole aderire ai dati reali ma anche ottenere grandiosità e tensione: perciò la sintassi è per lo più ampia, con qualche inversione o con l’omissione della punteggiatura; il lessico è vicino al parlato ma può arricchirsi improvvisamente di parole liricamente forti; l’andamento della frase è spesso prosastico ma può anche far posto a movenze di canto, grazie soprattutto alle frequenti iterazioni che disegnano nei testi veri percorsi tematici.

Però di lui rimangono in controcanto continuo quegli inni alla gioia, quelle accensioni subitanee che squarciano i suoi versi con la stessa forza con cui partono certi suoi endecasillabi: illuminazioni fulminee dell’amore e dell’amicizia che completano l’uomo-poeta Sereni.

E piace in conclusione riaffermare tutto ciò perché fra verità storica e umanità Sereni rappresenta tutti gli uomini di quel tempo e di ogni tempo, traditi dalla realtà, alla ricerca sempre di certezze rassicuranti.