Maurizia Rossella – Intervista a Maria Luisa Daniele Toffanin sul libro Dell’amicizia – my red hair

Quello dell’amicizia è un tema classico intorno al quale greci e romani hanno costruito sistemi filosofici, a partire dall’idea aristotelica che l’amicizia, giudicata superiore addirittura alla giustizia, fosse prerogativa dei sapienti messi sullo stesso livello dei virtuosi: idea di uguaglianza fra simili.

Nei poemi omerici il vincolo di amicizia che lega gli eroi è affine per origine e intensità ai legami di sangue. Secondo Pitagora l’amico era anche un alter ego. Sofocle introdusse il concetto dell’essere amici di se stessi: quanto più intenso è il rapporto amicale tanto più dà la misura dell’amore di sé. Euripide considera che l’amicizia non sorregge solo nei momenti problematici della vita ma è la condizione che rende sopportabile tutta la vita, superando a volte per intensità anche i legami famigliari. Saranno Socrate e Platone a sistematizzare e approfondire la ricerca sui due temi affini dell’amicizia e dell’amore, che devono fondarsi sul principio della reciprocità e della mancanza di interesse. Aristotele mette l’amicizia fra le virtù etiche, è disinteressata, lenta a nascere e a crescere, quindi rara. La questione riguarda l’uomo felice, ovvero colui che è sapiente e autarchico perché possiede l’amore di sé: ha egli bisogno di amici, sì o no? Se non ne avesse bisogno sarebbe bestia o dio, quindi il filosofo greco conclude che l’uomo, in quanto animale politico, per essere felice ha bisogno degli amici, non può essere un solitario.

(I riferimenti al mondo antico sono tratti dal libro di Luigi Pizzolato L’idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano (Einaudi Paperbacks 1993), sarebbe bello approfondire l’excursus dell’idea di amicizia fino ai giorni nostri, riserverebbe alcune sorprese).

Fin qui abbiamo parlato di filosofi e di amici al maschile. In presenza del libro di Maria Luisa Daniele Toffanin Dell’amicizia – my red hair dobbiamo cambiare genere, parliamo infatti di amicizia tra donne, una professoressa di lettere, l’altra d’inglese in un istituto superiore.

Colleghe che diventano amiche, o forse amiche che diventano poi colleghe?

«Eravamo colleghe nella stessa sezione “in quel desueto istituto” superiore sorto da poco. Lavoravamo quindi fianco a fianco, collaborando anche con altri docenti, tutti aperti a un dialogo continuo per conoscere meglio gli studenti ma anche per conoscerci come persone operanti nello stesso contesto. Questo dialogo ha creato un bel vivere insieme nella scuola, superando le abituali diffidenze iniziali. Possiamo leggere il testo “E s’apriva confidenza”. E in questa atmosfera abbiamo scoperto lentamente tra noi due quelle affinità, quella filìa che ci hanno unito e reso amiche per sempre, “presenza una nell’altra”.»

Un legame che si rinsalda e si rinfranca anno dopo anno, con frequentazioni quasi quotidiane a scuola, a casa o per telefono. Un tema inusuale ai nostri giorni quello trattato da Maria Luisa nel suo libro. Dato che viviamo in epoca di arrivismi e concorrenza, dove sul lavoro non si guarda in faccia nessuno e, per una qualifica, un incentivo o un aumento di stipendio, c’è chi è disposto a diffamare e calpestare i colleghi, fa piacere veder tramutati in poesie temi legati alla collaborazione, alla stima, alla complicità, alla comprensione e all’affetto tra colleghe divenute amiche, il cui rapporto intenso e profondo è durato per ben trent’anni.

In merito a questo rapporto di amicizia, nel libro, quanto c’è di autobiografico e reale e quanto di letterario?

«Il libro è tutto autobiografico: racconta la sua-nostra vita con i doveri e i piaceri quotidiani, così come l’abbiamo realmente vissuta a scuola, a casa nello sfondo di Abano, di Padova, del paesaggio agordino. E’ la storia della nostra amicizia rivisitata in vari momenti: gli incontri in campagna con colleghi e scolari, le corse lungo le rotaie con i nostri figli, le pause montane o marine, le nostre benedette telefonate serali sul giusto e il non giusto, la notte dell’ultimo dell’anno e … Ma c’è anche l’elemento letterario, apporti culturali vari (filosofici, religiosi …) depositati in noi che, nel fare poesia, riemergono in modo naturale e ti soccorrono per allargare il tuo particolare all’universale. Strumenti utili insieme a quelli retorici e metrici per tale operazione. In questa ricerca poetica, la realtà si può così trasfigurare in una dimensione altra.»

Il sodalizio viene però interrotto dalla falce della morte che tutto recide. Ma scrivere un libro dà la possibilità di reinventare il presente e rendere partecipi gli altri della bellezza dei momenti di vita passata, anche coloro i quali non hanno avuto la fortuna d’incontrare l’amica ideale dai capelli rossi con cui condividere gioie e delusioni, fatiche e soddisfazioni familiari e professionali negli anni dedicati all’insegnamento. Non c’è lamentazione nel rimpianto, l’autrice è cosciente che il tempo passa e le cose passate non ritornano, non vive nel rimpianto del passato, non lo trasfigura attribuendogli valenze più positive di quel che merita. Qui siamo in presenza di affetti più che di costumi, di etica, non di estetica. Nel poema dell’amicizia le poesie inneggiano ai rapporti cordiali fra persone, improntati sulla sincerità e la cortesia, basati su un’etica praticata e non insegnata come entità astratta agli studenti. Al contempo nei testi si ricordano le buone abitudini del passato, quando “La scuola faceva famiglia/ con parole e limpidi gesti/ senza alcun malumore venale… in aura costante d’eloquio gentile.”

Un linguaggio cantilenante come una nenia, un mantra per esorcizzare la morte dell’amica collega, per dire gli anni d’oro vissuti insieme, quelli dell’entusiasmo e dell’affetto, della comunicazione e della sintonia profonda. In questo caso la memoria è la facoltà che consente di svolgere operazioni di recupero e ricodificazione di un nuovo ordine attribuito agli affetti perduti, quegli affetti che mentre erano vissuti erano reali, normali, logici, riconfermati giorno dopo giorno dalla linearità del presente ritrovato, privi del senso dell’effimero che emerge invece dopo la perdita.

Quando hai pensato di scrivere questo libro, avevi una finalità o era solo per superare il dolore della perdita ricordando l’amica?

«Si può dire che allora non avevo pensato di scrivere questo libro, ho cominciato a scriverlo subito dopo la notizia della sua tragica morte, per una forte esigenza interiore di trattenerla in vita, di parlarle ancora, di “ridirti, amica / immutato ancora / il mio bene / pur nell’ora più greve”. Ho solo avvertito scrivendo che il novenario, per lo più utilizzato, realizzava il mio sentire. Contemporaneamente col pensiero strutturavo il percorso interiore in pause spazio-temporali, precedute da successive riflessioni introduttive. Certo che questo mi ha aiutata molto a superare il dolore della sua perdita.»

Volevi forse testimoniare su un particolare costume di vita “d’un tempo ora remoto”?

«Non era mia intenzione, ma, riunendo le tessere sparse, si può arrivare a questa chiave di lettura. Ad ogni modo è soprattutto il documento di un certo nostro costume di vita, da noi e tra noi creato con le frequentazioni a scuola e fuori con la famiglia. Un costume originale, unico, forse irripetibile. Vorrei leggere una di quelle riflessioni introduttive: “Luoghi altri del pensiero e della parola”.»

Hai forse voluto rendere omaggio alla vostra relazione privilegiata, e in un certo qual modo rendere indirettamente immortale l’amica defunta?

«Il risultato di questa scrittura è certamente un omaggio all’amica e alla nostra amicizia, risultato di un processo avvenuto “al bulino del dolore” in un naturale fluire di eventi-ricordi ricuperati dalla memoria. Il motore più profondo però è stato proprio il bisogno di parlare con lei , anzi di concludere il discorso interrotto, cioè il non detto, motivo codificato dal dolore universale. Volevo convincerla ancora, ma lei già lo sapeva, che nonostante le asprezze poi della vita, noi avevamo goduto del privilegio di essere insieme nella gioia dell’amicizia e quindi anche nel conforto all’affanno. Leggiamo la “Praefatio” che chiarisce l’origine della silloge.

E proprio la parola, che colmava le nostre opere e i nostri giorni, è diventata lo strumento per trasferire nella pagina questa testimonianza che tiene viva la sua bella figura di amica, insegnante, madre impegnata “in un nobile lavare” guidata sempre da “un’etica stella”.»