Ponchio DEll’amicizia-my red Hair


Pensieri nomadi:
La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin

a cura di Silvana Serafin

III.4 Giovanni Ponchio: Dell’amicizia – my red
hair (pp. 92-101 del libro)

[…] Se ripercorriamo le nostre strade, i nostri
Colli Euganei, può accadere di udire l’eco, il suono di altre poesie scritte per
la tomba del fratello o della donna amata. Qui, non molto lontano, secondo la
tradizione Ugo Foscolo fu ospite dell’abate Melchiorre Cesarotti. Ugo Foscolo
che al fratello dedicò il celebre sonetto, rivisitando il carmen catulliano
“Multas per gentes et multa per aequora vectus”, Ugo Foscolo che in “Ultime
lettere di Jacopo Ortis” raccontò del pellegrinaggio del protagonista sulla
tomba del Petrarca ad Arquà.

Francesco Petrarca, di cui si celebra il 700°
anniversario della morte, a Laura morta dedica una parte cospicua delle 366
poesie del Canzoniere.
Ma le poesie di Petrarca e di Foscolo lungi dal parlare di colui o colei che è
morta, rappresentano il pretesto, l’occasione per parlare di sé. Per parlare dei
propri dilemmi,

ansie, aspirazioni ‘al cenere muto’, senza
evidentemente che vi possa essere risposta alcuna. Si tratta di poesie che
nascono da un forte senso di sé, da un forte egotismo per il quale la poesia
risulta una sorta di rispecchiamento del soggetto, più che un colloquio con una
persona viva, almeno nel ricordo.

Non è così invece per le poesie della Toffanin
che hanno al centro l’amicizia, hanno al centro un’altra donna con la quale si
sono intessuti rapporti profondi che il fluire della poesia rivisita e
ricostruisce. A tale proposito è naturale conoscere l’analisi della raccolta
proprio dalla “Praefatio”, che rappresenta la principale

chiave interpretativa dell’itinerario poetico:
«Evocate al bulino del dolore / dirò amica di ore nostre glissate / tra sabbia
di clessidra / note lucenti d’amicizia / alla risacca memorante emerse / vive
per questo mio spartito / ché in ogni rigo di noi insieme / si sente il suono
della gioia, / quella umana hic et nunc / canto di confine con l’affanno, / e di
chiari accordi d’acqua / dal mare dei tuoi gesti / dal profondo tuo inquisire /
segni d’un nobile lavare / che ancora dà nitore / ai tuoi diletti spazi / al tuo
sentire di cristallo. / Conforto a te / da chi nel mistero permane».

Ogni parola possiede un corredo di significati
che vanno almeno indicati. Partiamo dalla metafora (‘il bulino del dolore’): il
dolore è uno strumento che incide nella carne e nello spirito, ma è mezzo che
raffina, che struttura, che dà forma. Il dolore non è un tormento, privo di
senso, ma una sofferenza, una fatica, un
travaglio che conduce ad un approdo.

Lo stridore del bulino evoca «[…] ore […]
glissate / tra sabbia di clessidra», fa tornare alla memoria le ore passate
insieme, in amicizia, senza accorgersi del trascorrere del tempo. È lo scivolare
via (glisser)
delle ore: una delle condizioni dell’amicizia, quando si ‘perde’ tempo l’una con
l’altra, senza avere la percezione del tempo che scorre. Ma quelle ore passate,
senza pensarci, vengono ad occupare il fuoco della riflessione, perché evocate
dal bulino del dolore ed emerse «alla risacca memorante». Bellissima immagine
quella della risacca che è lo sbattere continuo dell’onda sulla sabbia, contro
la costa, in un perpetuo movimento che fa emergere dal fondo del mare gli
oggetti che esso ha inghiottito. Così dal lago della mente, dal mare interno
della memoria l’onda del ricordo fa affiorare i frammenti del passato che,
sommersi dal subitaneo oblio di chi li ha vissuti senza preoccupazione, ora il
dolore fa emergere. Tutta la raccolta poetica può essere letta come una continua
altalena tra ciò che si è vissuto insieme senza farci caso (le scene di
quotidiana vita scolastica) e quanto dal mare dell’inconscio il moto ondoso
porta sulla riva del conscio, reperti / lacerti di una nave naufragata, per
diventare materia dell’invenzione poetica. Nel movimento ascensionale che
dall’inconscio (dal glissato) conduce al conscio le ore diventano ‘vive’
(aggettivo marcato attraverso un’arcatura, un
enjambement

che lo rende illuminante), perché rivissute e
reinventate come note di uno spartito musicale. Ora lo spartito è un insieme di
note, è la scrittura musicale che sulla carta esprime una melodia, una struttura
musicale armonica. Lo spartito dona significato dando valore ai suoni, segna il
limite tra una congerie di rumori e una sequenza di suoni dotata di senso.

Si stabilisce così, rispetto al magma
indistinto della memoria, un ruolo e una funzione della poesia che riesce ad
evocare dal passato quegli elementi che consentono di dare un significato alla
vita, alla vita dell’amica e al rapporto di reciproca amicizia. Come se sul
limitare della morte la poesia avesse il dono divino di percepire
improvvisamente il senso profondo di quanto è appena trascorso. Come se soltanto
dalla fine d’un viaggio, ripercorrendone a ritroso il percorso, fosse dato
d’afferrarne il significato. È questa la grande operazione compiuta
dall’autrice: trasformare il suono indistinto, i rumori di fondo che provengono
dal passato in una frase musicale, anzi in un percorso musicale scandito dalle
diverse frasi che sono le poesie della raccolta.

Questo è il motivo per cui dicevo che si tratta
di poesie della vita e sulla vita. Se la morte, infatti, rappresenta il limite
della vita, è anche il termine che ci consente di comprenderla che permette di
stabilire il valore di ciò che l’ha preceduta. Così la vita difficile da
afferrare nel momento in cui la si vive, diventa comprensibile al suo traguardo,
se la pietà del vivo riesce a raccogliere i diversi frammenti che la memoria
comune interrogata
gli restituisce.

Ma qual è il contenuto della vita ricostruita,
qual è il senso dell’amicizia, secondo l’autrice? La risposta è espressa in due
immagini che attraversano tutta la raccolta: «[…] chè in ogni rigo di noi
insieme / si sente il suono della gioia, / quella umana hic et nunc / canto di
confine con l’affanno […]» e «[…] dal mare dei
tuoi gesti / dal profondo tuo inquisire / segni
d’un nobile lavare / che ancora dà nitore / ai tuoi diletti spazi / al tuo
sentire di cristallo […]».

Questi sono i due grandi temi:


l’azione costante della ricerca, del ‘profondo inquisire’, che significa
cercare, scavare, cercare di capire. Ma anche lavare, anzi ‘nobile lavare’.

Il gesto del lavare è ricorrente in molte delle
poesie. Lavare che ancora «[…] dà nitore / ai tuoi diletti spazi […]». Questo
conferisce all’azione una valenza esterna come sciacquare i panni, lavare le
tende, pulire il portico davanti a casa. Probabilmente un insieme di gesti che
sono propri dell’amica, che fanno parte di un rituale su cui si è discusso e
riso insieme. Ma lavare è anche qualcosa di più profondo, è cercare dentro di
sé, è la ricerca, attraverso la purificazione interiore, di quei principi etici
che costituiscono la stella polare dell’azione consapevole. Ecco, dunque,
apparire nel cielo dei convincimenti, l’etica stella di cui si parla in alcune
poesie. E con esse il rimando ad un’altra poesia, anzi ad un epitaffio, la
celebre frase che Kant chiese venisse riportata sulla sua lapide: «Il cielo
stellato sopra di me / la legge morale dentro il mio cuore». Il tema della legge
morale dentro al cuoreè il risultato della ricerca interiore, del continuo
inquisire, del diuturno scavo attorno all’essenziale per la vita, al ‘nobile
lavare’ che si ripete attraverso l’uso dell’imperfetto frequentativo ‘lavava’
ripetuto tre volte.

Definiti i due temi trasversali di tutta la
raccolta, la poesia si conclude: «[…] conforto a te / da chi nel mistero
permane». Non è l’amica defunta a vivere nel mistero, ma è chi continua a vivere
e a recare conforto alla defunta a rimanere con i piedi e la mente nel mistero,
in quella dimensione indecifrabile che è la vita nel momento in cui viene
vissuta.

«Videmus nunc per speculum in aenigmate»
scriveva S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi (13, 12). Vediamo ora
attraverso uno specchio costituito da una lamina d’argento in cui si vede e non
si vede, viviamo dentro ad un enigma che solo la morte può risolvere, perché la
morte mettendo termine alla vita, consente ad ognuno di fare i conti con il suo
significato. Questa conclusione ci rimanda dunque all’incipit
della poesia attraverso un percorso
ellittico di grande efficacia. Questo è, per me, il valore funzionale della “Praefatio”.

Non da meno è il “Commiato” che cito per
intero, data la sua brevità: «Poter fermare / quell’attimo / in punta di vita /
e ridirti, amica, / immutato ancora / il mio bene / pur nell’ora più greve / e
sentir spuntare / i fiori / in fremito-risposta».

Vi è un colloquio che continua oltre la morte,
dopo la morte. Parlare ‘in punta di vita’ vuol dire parlare sul limitare della
vita, lungo quel confine dove la vita passata attraverso la sua fine, fa intuire
il suo fine. Parafrasando: poter fermare quell’attimo in punta di vita e dirti,
amica mia, il bene che provo immutato per te, anche se nell’ora più greve,
pesante tanto da stringere il cuore. La risposta fremente che si ottiene è di
sentire spuntare i fiori. Non so se l’autrice avesse in mente, quando fissò quei
versi, il Pascoli ed il suo riferimento all’erba che cresce sulle fosse. I
fiori, ben più dell’erba, spuntando dalla terra in cui riposa chi ci ha
lasciato, rappresentano la risposta ad un invito, ed il colloquio continua al di
là della vita e della morte. Così il “Commiato” chiude in maniera intensa e
suggestiva il percorso che la “Praefatio” apre.

Sono imbarazzato ed indeciso nel dover
scegliere tra le poesie della raccolta. La raccolta, costruita attorno agli
ordinati frammenti della memoria, è articolata in due grandi parti: parte I “Il
nostro tenero tempo”, parte II “Il nostro tempo maturo”. I ricordi si svolgono
lungo un percorso cronologico e raggruppati a tema.

Ma vi sono due fili che tutti li trapassano.

Il primo filo è costituito da un elemento
retorico, citato anche nella dottissima introduzione del curatore della silloge
poetica, Gerardo Vacana. È ‘la rossa criniera’. Si tratta di una sineddoche,
ossia di quel meccanismo metonimico per cui si indica il tutto (in questo caso
l’amica) attraverso un suo tratto caratteristico. Ma perché, potendo scegliere
tra centinaia di particolari, l’autrice ha scelto ‘rossa criniera’? L’aggettivo
rosso corrisponde alla realtà storica. Criniera è il termine scelto tra una
vasta gamma di sinonimi (chioma, capigliatura, taglio di capelli, acconciatura),
forse perché indica qualcosa di naturale, di non curato, espressione esterna di
quanto di più naturale esista, nello stato d’animo, nella psiche profonda della
persona. Questa parola, questo vocabolo così primordiale e selvaggio serve ad
esprimere il moto naturale del cuore che irradia un fascio di luce
sull’episodio, sul frammento memorante in cui l’amica vive. Così la rossa
criniera, divenuta ‘frizzante’, ‘docente’, ‘smarrita’, ‘radiosa’, ‘in maschera’,
‘amorosa’, ‘pudica’, illumina di luce speciale il senso compiuto della frase e
dell’intera poesia. Ora la ‘rossa criniera’ è soggetto della frase, ora diventa
una sorta di ablativo assoluto che, attraverso la sospensione, getta un fascio
di luce speciale sul relitto che la memoria tende a far galleggiare. La criniera
e soprattutto l’aggettivo che ad essa si accompagna svolgono la stessa funzione
che svolge la fonte di luce in campo fotografico. Nella fotografia, infatti, la
luce diventa l’elemento essenziale per dare senso e significato agli oggetti
fotografati.

L’aggettivo, infatti, getta sul ricordo un
fascio di luce tale da mettere in evidenza alcune valenze interpretative, che
sono proprie dello stato d’animo della protagonista nel viverle e dell’autrice
nel riviverle. Interessante per questo l’ultima poesia in cui la sineddoche
viene utilizzata. In essa l’aggettivo che connota la ‘criniera’ è ‘arresa’. È la
quart’ultima poesia dell’intera silloge, eppure già emergono tra i ricordi i
segni premonitori di quanto sarebbe avvenuto: della morte. Come se la vivacità,
la voglia di vivere fossero già cessate ancor prima dell’evento improvviso ed un
odore di morte traspirasse dai gesti e degli atti evocati dalla memoria.

Il secondo filo è espresso dal verbo lavare,
anzi lavava (indicativo imperfetto del verbo). Tra tutte di notevole interesse è
la poesia: «E lavava lavava / lavava all’onda dei ricordi / quel mite angolo
agreste […]». Poesia, in qualche modo, storica, come la successiva, perché evoca
i momenti dell’insegnamento quando l’istituto ‘Alberti’ si trovava a Villa
Rigoni e l’asina veniva ad illuminare la giornata degli alunni e degli
insegnanti: «lavava d’umano l’incontro / più maturo più acerbo / in parole
d’aria e sole / con le mani recitando / tutto il suo ardore / la rossa criniera
frizzante / pur agitato il buio bambino. / E s’apriva confidenza / come corolla
a primavera / nel bucolico spazio là / un po’ fuori dalla terra / con l’asina
sempre al balcone / con gli allievi quasi amici / la mente vivace e chiari
disegni / in quel desueto istituto / d’un tempo ora come remoto. / Ma è solo al
nettare-ricordo / o forse è alla luce oggi miope / che noi loro tutti allora /
s’andava più innocenti?». Una poesia-segno, una poesia-indicazione non a caso
riportata anche in quarta di copertina. Sopra tutto galleggia una domanda,
essenziale rispetto ai temi affrontati: il ricordo è un nettare che addolcisce
la vita o esiste una differenza reale tra il buon tempo andato ed il duro
presente? Domanda non retorica che viene collegata ad altre domande-emozioni dal
verbo ‘lavare’. Verbo che viene ripetuto in moltissime poesie ove forma un
incipit,
per tre volte ripetuto.

Il tempo verbale utilizzato non è il passato
remoto (lavò) che indica un’azione chiusa nel passato, bensì l’imperfetto che è
frequentativo, iterativo (continuava a lavare). A questa scelta si aggiunge
l’uso della ripetizione (lavava, lavava, lavava) che proietta e riconduce la
poesia alla struttura a salterio delle più antiche

Poesie della nostra tradizione letteraria. Il
pensiero va al “Cantico di frate sole” di Francesco d’Assisi e al «Laudato sii,
mi Signore, […]» che recupera nella lingua volgare la struttura del salmo
propria della tradizione ecclesiastica latina.

Così il termine, in posizione fortissima nella
struttura del verso, si carica di significati altamente poetici a sottolineare
un gesto evocato, una consuetudine consolidata, una cerimonia domestica
quotidiana. Si può solo intuire che cosa due amiche si dicessero sul lavare: si
lavava la biancheria di casa sciorinandola all’aria nei giorni di sole, si
lavavano le tende di casa e soprattutto le si stirava con grande fatica, si
lavava l’occhio di portico davanti all’ingresso imbrattato dall’inciviltà dei
passanti… Ma questa sorta di mania smania di lavare era l’espressione esterna,
la proiezione nei gesti di quanto avveniva nel cuore, nell’animo dell’amica: lo
sforzo continuo della ricerca interiore, la spinta a mondarsi dal superficiale
per guadagnare ciò che veramente conta, l’essenziale, ciò che è unico, il
principio che guida la nostra azione, il principio morale. Tra tutte le poesie
che si possono citare al riguardo, voglio ricordare “In un vivere insieme
cortese”: «lavava al risveglio i pensieri / pensieri d’amore alla casa / li
stendeva al suo davanzale / poi con calzari di vento / amabile veniva alla
scuola / la rossa criniera docente / i sogni-nonsense di Alice / la dolce follia
di Ofelia / ed entrava con passo di danza / nella stanza della Corona / col bel
suono sulle labbra / dal mai obliato vissuto inglese. / E diceva diceva ai
giovani / diceva l’urgenza / d’un vivere insieme cortese / alla voce di un’etica
stella».

La chiusura (etica stella) consegna questa
poesia-ricordo-riflessione al rapporto con l’epitaffio kantiano di cui parlavamo
all’inizio. L’etica stella è il punto fisso, la stella polare che indica la
direzione ed il verso del cammino. È il senso del dovere in cui la persona umana
realizza pienamente se stessa. La stella che mai non tramonta, che non è legata
agli stati d’animo, agli interessi di parte, alle convenienze momentanee. È il
dovere scritto profondamente in ognuno, dovere che soltanto il coraggio della
ragione e la limpidezza della vita sanno mettere in risalto. Ancora più
esplicita sul tema la poesia dal titolo “Dell’uomo nel morbo più solo”: «lavava
con mani fiorite / d’umili viole-umana pietas / l’anima le membra sfiorite /
dell’uomo nel morbo più solo / il più offeso, a suo dire / da sorte non giusta.
/ Lavava con l’offerta / di filiali ghirlande / tessute a rose pazienti / chi
madre a lei non era, / la rossa criniera obbediente / al fuoco-dovere nutrito /
dall’imperativo del filosofo / dallo spirito
del tempo, / ma più pativa ad ogni evento / sotto il suo cielo di stelle».

Questi i due fili che si intrecciano in tutte
le liriche della raccolta: il tema della vita vissuta, tema espresso attraverso
la sineddoche ed il tema dell’imperativo morale, elaborato attraverso
l’iterazione ‘lavava’.

Concludo con una poesia che, evocando l’ultimo
incontro con l’amica, presagisce la morte attraverso le tracce di una scena
depositata nel flusso rammemorante, dal titolo “Mi rivivrà ogni momento”:
«lavava ogni alito della mia musa / parola a lei diletta sempre / –da
cifrare-tempo dell’anima– / diceva nell’incontro tra noi / più raro ma ancora
vermiglio. / E su balaustre di giacinti / struggente ultimo dono augurale /
posavamo in volo interiore / tremori speranze promesse / dal cuore-mia terra
raccolte / perché al tepore del ricordo / Lei mi rivivrà ogni momento / come in
un’infinita primavera / colore-odore di quei grappoli / pegno-impegno d’amicizia
/ profumo benedetto ancora sempre / che vola alto oltre il vento / della
brughiera d’inverno / e non si sperde».

Che cosa rimane dell’amica? Il profumo
benedetto oltre la brughiera d’inverno, la morte. Ma è un profumo che non si
perde e non si sperde, non svanisce attraverso il tempo e la lontananza. Perché
vi è chi ha avuto ed ha la capacità, come l’amica-autrice, di aspirare quel
profumo e distillarlo ancora attraverso la poesia.