Nazario Pardini
Presentazione a
Iter Ligure
Nazario Pardini
Anima mia
trattieni come viatico
la sinfonia che passa.
Silloge varia e articolata questa della Toffanin, che,
composta di 56 pièces, si suddivide in tre sottotitoli indicativi ai fini di una
esegesi organica dell’opera: Trame d’armonia, Suoni – colori, Pause. Significano
chiaramente l’intenzione della scrittrice di potenziare i vari aspetti del suo
rapporto interattivo con un ambiente che assurge, nella gradualità progressiva
della silloge, da bellezza visivamente ed emotivamente vissuta a bellezza
contemplativamente idealizzata come tappa finale di riflessione esistenziale:
«Ma è già reliquia del vivere | l’effervescenza prima-gioia fanciulla |
d’inventare incantesimi | terre apriche d’irreali celestri | echi leggeri d’età
perduta» (Illusione di felicità). «E pastore di sorgive | mi disseto di pace
ancora | simbiosi fra l’umano e il divino | e del segreto viatico mi nutro |
per seguire il dissacrato tratturo» (Basilica dei Fieschi). Fanno parte della
prima sezione componimenti realisticamente ritratti con tinte e colori di
invenzione linguistica di personalissima fattura: Cinque Terre, Riomaggiore,
Manarola, Corniglia, Vernazza. Nella seconda l’autrice sembra distaccarsi in
parte da una pittura di stampo impressionista per cogliere aspetti più generali
e più intimi: Nell’antico coro ligneo, Catarsi e scoperta I, II,
Sono, Al
poeta; un trait d’union tra la prima e l’ultima parte, dove ci si prende una
pausa per meditare anche sul senso del vivere: Quesito, Quel battere delle ore,
Era il tempo, Illusione di felicità.
Iter ligure, viaggio non solo panoramico, ma odissaica
ricerca di misteriosi echi che combacino coi battiti del cuore. Mi piace
esordire con la motivazione stilata in occasione del Premio «Il Portone»
dell’anno 2003, per l’opera Per colli e cieli insieme mia euganea terra: «La cosa che colpisce maggiormente,
leggendo questa nuova opera di Maria Luisa Toffanin, è la profonda simbiosi
panica tra il corpo delle immagini e l’anima dell’autrice. Il verso scorre
limpido e musicalmente effusivo, facendosi a mano a mano icastico, in supporto
ai contenuti, col ricorso a univerbazioni, a unità sintagmatiche di
aggettivo-sostantivo o a invenzioni creative di grande rilievo. Sono tenerezza
fantasia | che così incanta | quell’onda tua viola | se improvvisa si defila
l’energia | in alate figure | altro tempo-vita che ancora migra. L’uso di
anastrofi, di una serie di doppi trisillabi che fanno risaltare certe sincronie
naturali, e di una metrica in cui i versi di varia misura si alternano a
significare le modulazioni interiori, denota maturazione stilistica e
concretezza immaginativa in questa fusione di realtà complessa fra anima e
natura». Credo metta in risalto quelle che sono le caratteristiche essenziali
del percorso artistico della Toffanin: esistenzialismo panico, vicissitudine
memoriale, realismo affettivo, combinazioni fonico-stilistiche a sostenere e a
dare consistenza alle vibrazioni dell’anima. Confesso di essere particolarmente
attratto dalla sua poesia, e di aver letto con grande partecipazione i suoi
testi: Dell’azzurro ed altro, Per colli e cieli insieme mia euganea terra,
Dell’amicizia. E quindi il rischio c’è che la mia recensione risenta di una
visione non troppo oggettiva per questa mia affezione. Il fatto sta che
l’autrice è in possesso di una grande malizia versificatoria, alimentata però da
un altrettanto grande spirito icastico-contemplativo, da una ispirazione che
trova la sua substantia in una natura resa vivente dall’afflato partecipativo
dell’autrice.
Se di Decadentismo rinascente si può parlare nei suoi versi, credo lo si
possa fare, sotto un profilo assolutamente positivo, in quanto eredi di una
tradizione musicale avvincente, sinuosa e certo anche voluta. E le tecniche per
conseguire questi effetti sono tante: anastrofi, costrutti per inversione o per
aumentazione, alternanza di versi brevi (soprattutto senari e settenari) a
endecasillabi con il compito di creare impennate melodiche dal sapore di romanza
pucciniana: «Oh giorni di sorrisi tersi | per schiudersi in corolle nuove |
l’infanzia nostra, rosa ormai sfiorita» (Amaro incantesimo dal libro Dell’azzurro ed altro).
Un importante gioco versificatorio che si conclude nella melodia sottile
dell’endecasillabo finale ad accompagnare il senso della fugacità della vita
«rosa ormai sfiorita». «Ma non valse l’ebbrezza della danza | il trillo dei
cristalli | le stelle esplose nella notte | non valse umano sortilegio | a
trattenere il filo del suo vivere» (Non valse umano sortilegio dall’opera
Dell’Amicizia). I tre versi a crescere, racchiusi da due endecasillabi, offrono
un pentagramma di note varie che soprattutto con l’endecasillabo sdrucciolo
finale accentuano il sentimento di caducità dell’essere.
In Per colli e cieli insieme mia euganea terra, ancora
più visivi si rendono i sentimenti col ricorso alle sembianze naturali e più
evidente appare l’utilizzo delle immagini esterne per concretizzarli: «Conforto
sia il lampo dentro | al rapido risalire | oltre il fumoso spazio. | Ma tu |
conducimi su al sempreverde: | limpido tra i rami | traluce il sole | ed è
miracolo | d’azzurri colli | sublimi | dall’opale che svapora» (XVII dalla
stessa). Più ci si avvicina a quella che è la caratteristica dominante di Iter
ligure. Direbbe Zanzotto: «La letteratura ha bisogno del paesaggio per parlare».
Il titolo di questa silloge è già una porta d’ingresso al mondo poetico della
Toffanin: continuità stilistica, compattezza e organicità poetica, naturismo mai
fine a se stesso, ritrattazione di un sentire in parvenze che concorrono insieme
all’analisi psicologica dell’autrice più che ad una descrizione psicologica. Pur
mantenendo ciascuna opera il suo valore di unicità per contenuto, valore
estetico e frangente storico, le pagine di Iter confermano quella
sostanziale continuità tecnico-ispirativa. Anche qui si avvalora il progetto
critico secondo cui nell’autrice c’è una ricerca linguistico-letteraria volta a
dare corpo a un mondo di pensieri e sentimenti che tendono a trasferirsi dal
particolare all’universale e a trovare nella poesia un edenico nirvana nello
sforzo di ricercare quella parte di noi che più si avvicina all’irraggiungibile.
Ma certo la poesia della Toffanin non ambisce a sperimentazioni che fanno della
tecnica e della parola l’unico obiettivo letterario, una trasgressione nei
confronti della tradizione. C’è al contrario uno spontaneo equilibrio tra dire e
sentire, e la lingua nelle sue elaborazioni sta a
significare piuttosto una insoddisfazione continua nel dare corpo a un
patrimonio di sentimenti che il semplice linguaggio è insufficiente a
soddisfare. E c’è tanto, al contrario, in lei della tradizione, anche se
rivisitata da una coscienza etica ed estetica che la rende personalissima. Fino
a poter impostare, senza presunzione, una teoria critica che la porrebbe (a
parte le novità tecnico-lessicali e strutturali del suo personale stilema) come
autrice di un neodecadentismo o neoimpressionismo per le stesse motivazioni che
improntano la corrente: panismo, simbolismo, musicalità nascosta quasi di stampo
baudelairiano, e figure impiegate con malizia in funzione soprattutto di tale
musicalità. Addirittura la musicalità si fa fisica e la natura si trasforma in
una vera orchestrazione dove ruvide pievi–nicchie e dune d’ulivi e
vigne-violini
diventano strumenti accordati da mani esperte di musicanti. E il risultato è una
grande sinfonia che rasserena l’anima e l’avvolge in un vellutato arabesco: «la
sinfonia di pace esalata | da ruvide pievi-nicchie silenti | respiro mistico |
al viandante che riposa, | raccolte fiorite fra le dune | d’ulivi e
vigne-violini | accordati insieme da mani musicanti. […] | Anima mia |
trattieni come viatico | la sinfonia che passa» (Sinfonia di pace). Quasi
dannunziano lo direi questo passo, dove si attua una vera metamorfosi dall’umano
al naturale. Per non dire dell’altra caratteristica fondamentale del
Decadentismo europeo: il senso del mistero, dell’arcano, che compenetra di sé
ogni aspetto del creato: un’esigenza di profondità, di estensione anche per le
distanze più brevi. «Ma la figlia | del limo lontana, | la rana, | canta
nell’ombra più fonda, | chi sa dove, chi sa dove!» recita il D’Annunzio ne La
pioggia nel pineto composta nella pineta di Marina di Pisa quando il gracidare
della rana non poteva essere che a pochi passi. «Muta di colori è l’aria | e
arcana la malia del mare | come richiamo dall’ignoto» recita la Toffanin nella
poesia Sono. E ancora: «Mano di scoglio inventata | da ignoto profondo» in
Manarola o ancora «ignare trame di storia». Ma proprio questa fusione
simbiotica tra essere e realtà, questa icastica del pensiero in un mondo
familiare a lei caro, convalidano sempre più questa teoria. D’altronde la
Toffanin nell’opera Dell’azzurro ed altro si serve di bagliori, di giochi di
luce, di lampi abbaglianti in risalto su angoli di buio, in quel suo sforzo di
dare all’anima un’identità concreta, come necessità estrema di misurarsi con
l’entourage per farlo suo, e trasferirlo sulla pagina come coscienza dell’essere
e dell’esistere: «In gomitoli di luci | si snodano i riti. | Da angoli di buio |
tremuli barbagli | divampano lontani | in luminoso falò: | per magia, la Casa.
[…] | Ali-parole di angeli | aleggiavano intorno, | […] | Splendeva cometa
d’oro | in occhi puri di padre | […] | cerco la Cuna d’amore | per dissetarmi
di luce» (Casa-cuna dall’opera Dell’azzurro ed altro).
Fin dalla prima poesia di Iter ligure si evince la continuità
stilistica personale della Toffanin; il suo stilema vario, articolato, con
alternanza di versi brevi a più ampi, da settenari a doppi settenari, in un
pentagramma di note in stretta simbiosi col dipanarsi delle suggestioni
dell’autrice. «Eccellente uso del significante metrico» direbbe Luciano Nanni.
La lirica si apre con una unità sintagmatica laconica ma di grande respiro che
ci introduce in una sinfonia di colori e suoni in cui esplode la varietà
mediterranea della natura ligure: «Roccia-araldo solare | che squilli colori
nativi | in viluppi di aloe | fico d’India rosmarino | dai gialli suoni celesti
corallo | sfilati nell’azzurra filigrana» (Umano e selvaggio). E ancora
unità sintagmatiche o univerbazioni tipiche della cifra stilistica di queste
pagine. Inizia la fusione panica, l’amalgama della poetessa col mondo che
rappresenta, e il procedimento è lo stesso; abbondanza di aggettivazioni, novità
stilistiche con invenzioni creative personali, anastrofi, serie di versi a
crescere o a diminuire o a rattenere il fluire emotivo, per farlo poi esplodere
in endecasillabi, improvvisi ed isolati, come vere cascate d’armonia: «Ti invoca
il cuore del poeta | che in te sola riposa e si consola» (Umano e selvaggio).
C’è in questa pièce tutto l’ardore, con la centralità corale di una natura che
la poetessa fa sua, ama per venire ripagata da un dialogo con ambiti asprigni di
marine, e terre rivierasche aperte ai venti, araldi di sole (Roccia-araldo
solare). Sinestesie di grande efficacia visiva, derivate da metabolizzazioni di
illuminazioni cromatiche ed espanse che la stesura di una
morfosintassi regolare e troppo umana non è sufficiente a narrare: «fico
d’India rosmarino | dai gialli suoni celesti corallo | sfilati nell’azzurra
filigrana».
E qui, in questa natura opulenta, totalizzante,
cromaticamente divina, che l’anima dell’autrice trova riposo, quasi si annulla
donando tutta se stessa in una metamorfosi di trascendenza metafisica:
«S’azzurra alfine l’anima mia | d’oro e rosa si colora | si scolora e si smemora
| nella magia dell’ora» (Trame d’armonia). «E pastore di sorgive | mi disseto di
pace ancora | simbiosi fra l’umano e il divino». E case, reti, seni verdi,
conchiglie, slarghi di cielo, prodigio-incontro, le barche,
scaglia
lucente-smalto verde, l’agave si fanno tanti segmenti di un esistere che si
raffigura nel mondo che la poetessa ama, si concretizzano in forme di un panismo
vivo, per cui la natura non è mai motivo di semplice idillio, ma umanizzata si
fa allegoria simbolica di un esistenzialismo totalizzante: «E canta il cuore
all’uomo | nuovo nell’uomo altro | in un unico sentire | prodigio-incontro col
divino | estasi nell’onda sapiens d’armonia | avvolta nell’arco d’un coro
ligneo» (Nell’antico coro ligneo). «Delicato pallido fiore | languore-forza di
una rosa | che non cede all’aria al sole | per non sfiorire così | dans l’espace
d’un matin» (Manarola). Ossimoro, anafora, concentrazione di termini di alto
spessore lessicale, nello spazio di un mattino in francese per una maggiore
armonia resa con suoni di suggestione poetica (direbbe P. Eluard: «Je vois des
hommes vrais sensibles bons utiles | rejeter un fardeau plus mince que la mort |
et dormir de joie au bruit du soleil»); e tutto contribuisce a personalizzare un
dire di grande efficacia introspettiva.
E così che il linguaggio della Toffanin non si limita mai alla semplice
descrizione, ma è alla ricerca continua degli spigoli, delle asprezze, delle
solarità, o degli ampi spazi che, tutti assieme, tanto rassomigliano al
dipanarsi della vita. E non è che il suo panorama esistenziale si esaurisca
tutto in questo appagamento dello spirito nell’universalità dell’amore, o nella
grandezza di un nume creatore che dimostra la sua eternità
in una «Vita a perpetuarsi nel ciclo eterno». C’è in questi versi, anche se in
maniera ridotta nei confronti dell’opera Dell’amicizia, il quesito dell’essere,
il dubbio eracliteo dell’esistere e del divenire, la coscienza della fragilità e
della caducità delle cose umane: «per non sfiorire così | dans l’espace d’un
matin». E quanto liricamente avvincente e umana è la poesia Al poeta! E l’agave
che più ci assomiglia: vive, radicata allo scoglio secco, ma protesa verso gli
smisurati spazi celesti; respira il mare che più di ogni altra cosa sa d’eterno;
è difesa da radici profonde contro la violenza dei marosi, candelabro corniola-idea «fino a chiudersi nel respiro estremo». Quanto saporito di vita è
questo spazio poetico, quanto simbolismo lirico: «D’agave, poeta, è il nostro
giorno | radicato così allo scoglio irto | nel delirio mai finito d’azzurro |
struggente amore del vivere» (Al poeta).
Se Keats nell’ode l’Autunno esprime il desiderio di
essere nella vita un uomo e di ritornare un giorno «nelle radici della natura,
da cui ci stacchiamo come frutti sfacentisi, non per perire, ma per verdeggiare
di nuovo al sommo dei rami dell’albero della vita e respirare insieme con la
natura», la Toffanin attende dalla stessa una risposta chiara: «Sono una donna |
che seduta sul molo a Monterosso | nell’aria muta di colori, | si dondola in
pensieri con le barche | poi raccoglie la sua anima dal mare | e dal sole
attende risposta chiara» (Sono).
Il linguaggio comunicativo, arrivante, impreziosito da
un lessico altamente suggestivo e vario e da accorgimenti metrico-stilistici
quali ossimori, sinestesie, geminatio, enjambement, assonanze e invenzioni
fonico-significanti, tende a slargarsi con illuminazioni creative per accostare
le vibrazioni di un’anima che dalla superba bellezza del caduco azzarda voli
verso alture di slarghi di cielo. «E Venere dallo smeraldo fluttuante | pura
rinasce, o poeta, | col suo primo sorriso | e nella tela immortale s’eterna»
(Golfi di poesia).
Arena Metato, 18 febbraio 2006
Presentazione a
Iter Ligure
Nazario Pardini
Anima mia
trattieni come viatico
la sinfonia che passa.
Silloge varia e articolata questa della Toffanin, che,
composta di 56 pièces, si suddivide in tre sottotitoli indicativi ai fini di una
esegesi organica dell’opera: Trame d’armonia, Suoni – colori, Pause. Significano
chiaramente l’intenzione della scrittrice di potenziare i vari aspetti del suo
rapporto interattivo con un ambiente che assurge, nella gradualità progressiva
della silloge, da bellezza visivamente ed emotivamente vissuta a bellezza
contemplativamente idealizzata come tappa finale di riflessione esistenziale:
«Ma è già reliquia del vivere | l’effervescenza prima-gioia fanciulla |
d’inventare incantesimi | terre apriche d’irreali celestri | echi leggeri d’età
perduta» (Illusione di felicità). «E pastore di sorgive | mi disseto di pace
ancora | simbiosi fra l’umano e il divino | e del segreto viatico mi nutro |
per seguire il dissacrato tratturo» (Basilica dei Fieschi). Fanno parte della
prima sezione componimenti realisticamente ritratti con tinte e colori di
invenzione linguistica di personalissima fattura: Cinque Terre, Riomaggiore,
Manarola, Corniglia, Vernazza. Nella seconda l’autrice sembra distaccarsi in
parte da una pittura di stampo impressionista per cogliere aspetti più generali
e più intimi: Nell’antico coro ligneo, Catarsi e scoperta I, II,
Sono, Al
poeta; un trait d’union tra la prima e l’ultima parte, dove ci si prende una
pausa per meditare anche sul senso del vivere: Quesito, Quel battere delle ore,
Era il tempo, Illusione di felicità.
Iter ligure, viaggio non solo panoramico, ma odissaica
ricerca di misteriosi echi che combacino coi battiti del cuore. Mi piace
esordire con la motivazione stilata in occasione del Premio «Il Portone»
dell’anno 2003, per l’opera Per colli e cieli insieme mia euganea terra: «La cosa che colpisce maggiormente,
leggendo questa nuova opera di Maria Luisa Toffanin, è la profonda simbiosi
panica tra il corpo delle immagini e l’anima dell’autrice. Il verso scorre
limpido e musicalmente effusivo, facendosi a mano a mano icastico, in supporto
ai contenuti, col ricorso a univerbazioni, a unità sintagmatiche di
aggettivo-sostantivo o a invenzioni creative di grande rilievo. Sono tenerezza
fantasia | che così incanta | quell’onda tua viola | se improvvisa si defila
l’energia | in alate figure | altro tempo-vita che ancora migra. L’uso di
anastrofi, di una serie di doppi trisillabi che fanno risaltare certe sincronie
naturali, e di una metrica in cui i versi di varia misura si alternano a
significare le modulazioni interiori, denota maturazione stilistica e
concretezza immaginativa in questa fusione di realtà complessa fra anima e
natura». Credo metta in risalto quelle che sono le caratteristiche essenziali
del percorso artistico della Toffanin: esistenzialismo panico, vicissitudine
memoriale, realismo affettivo, combinazioni fonico-stilistiche a sostenere e a
dare consistenza alle vibrazioni dell’anima. Confesso di essere particolarmente
attratto dalla sua poesia, e di aver letto con grande partecipazione i suoi
testi: Dell’azzurro ed altro, Per colli e cieli insieme mia euganea terra,
Dell’amicizia. E quindi il rischio c’è che la mia recensione risenta di una
visione non troppo oggettiva per questa mia affezione. Il fatto sta che
l’autrice è in possesso di una grande malizia versificatoria, alimentata però da
un altrettanto grande spirito icastico-contemplativo, da una ispirazione che
trova la sua substantia in una natura resa vivente dall’afflato partecipativo
dell’autrice.
Se di Decadentismo rinascente si può parlare nei suoi versi, credo lo si
possa fare, sotto un profilo assolutamente positivo, in quanto eredi di una
tradizione musicale avvincente, sinuosa e certo anche voluta. E le tecniche per
conseguire questi effetti sono tante: anastrofi, costrutti per inversione o per
aumentazione, alternanza di versi brevi (soprattutto senari e settenari) a
endecasillabi con il compito di creare impennate melodiche dal sapore di romanza
pucciniana: «Oh giorni di sorrisi tersi | per schiudersi in corolle nuove |
l’infanzia nostra, rosa ormai sfiorita» (Amaro incantesimo dal libro Dell’azzurro ed altro).
Un importante gioco versificatorio che si conclude nella melodia sottile
dell’endecasillabo finale ad accompagnare il senso della fugacità della vita
«rosa ormai sfiorita». «Ma non valse l’ebbrezza della danza | il trillo dei
cristalli | le stelle esplose nella notte | non valse umano sortilegio | a
trattenere il filo del suo vivere» (Non valse umano sortilegio dall’opera
Dell’Amicizia). I tre versi a crescere, racchiusi da due endecasillabi, offrono
un pentagramma di note varie che soprattutto con l’endecasillabo sdrucciolo
finale accentuano il sentimento di caducità dell’essere.
In Per colli e cieli insieme mia euganea terra, ancora
più visivi si rendono i sentimenti col ricorso alle sembianze naturali e più
evidente appare l’utilizzo delle immagini esterne per concretizzarli: «Conforto
sia il lampo dentro | al rapido risalire | oltre il fumoso spazio. | Ma tu |
conducimi su al sempreverde: | limpido tra i rami | traluce il sole | ed è
miracolo | d’azzurri colli | sublimi | dall’opale che svapora» (XVII dalla
stessa). Più ci si avvicina a quella che è la caratteristica dominante di Iter
ligure. Direbbe Zanzotto: «La letteratura ha bisogno del paesaggio per parlare».
Il titolo di questa silloge è già una porta d’ingresso al mondo poetico della
Toffanin: continuità stilistica, compattezza e organicità poetica, naturismo mai
fine a se stesso, ritrattazione di un sentire in parvenze che concorrono insieme
all’analisi psicologica dell’autrice più che ad una descrizione psicologica. Pur
mantenendo ciascuna opera il suo valore di unicità per contenuto, valore
estetico e frangente storico, le pagine di Iter confermano quella
sostanziale continuità tecnico-ispirativa. Anche qui si avvalora il progetto
critico secondo cui nell’autrice c’è una ricerca linguistico-letteraria volta a
dare corpo a un mondo di pensieri e sentimenti che tendono a trasferirsi dal
particolare all’universale e a trovare nella poesia un edenico nirvana nello
sforzo di ricercare quella parte di noi che più si avvicina all’irraggiungibile.
Ma certo la poesia della Toffanin non ambisce a sperimentazioni che fanno della
tecnica e della parola l’unico obiettivo letterario, una trasgressione nei
confronti della tradizione. C’è al contrario uno spontaneo equilibrio tra dire e
sentire, e la lingua nelle sue elaborazioni sta a
significare piuttosto una insoddisfazione continua nel dare corpo a un
patrimonio di sentimenti che il semplice linguaggio è insufficiente a
soddisfare. E c’è tanto, al contrario, in lei della tradizione, anche se
rivisitata da una coscienza etica ed estetica che la rende personalissima. Fino
a poter impostare, senza presunzione, una teoria critica che la porrebbe (a
parte le novità tecnico-lessicali e strutturali del suo personale stilema) come
autrice di un neodecadentismo o neoimpressionismo per le stesse motivazioni che
improntano la corrente: panismo, simbolismo, musicalità nascosta quasi di stampo
baudelairiano, e figure impiegate con malizia in funzione soprattutto di tale
musicalità. Addirittura la musicalità si fa fisica e la natura si trasforma in
una vera orchestrazione dove ruvide pievi–nicchie e dune d’ulivi e
vigne-violini
diventano strumenti accordati da mani esperte di musicanti. E il risultato è una
grande sinfonia che rasserena l’anima e l’avvolge in un vellutato arabesco: «la
sinfonia di pace esalata | da ruvide pievi-nicchie silenti | respiro mistico |
al viandante che riposa, | raccolte fiorite fra le dune | d’ulivi e
vigne-violini | accordati insieme da mani musicanti. […] | Anima mia |
trattieni come viatico | la sinfonia che passa» (Sinfonia di pace). Quasi
dannunziano lo direi questo passo, dove si attua una vera metamorfosi dall’umano
al naturale. Per non dire dell’altra caratteristica fondamentale del
Decadentismo europeo: il senso del mistero, dell’arcano, che compenetra di sé
ogni aspetto del creato: un’esigenza di profondità, di estensione anche per le
distanze più brevi. «Ma la figlia | del limo lontana, | la rana, | canta
nell’ombra più fonda, | chi sa dove, chi sa dove!» recita il D’Annunzio ne La
pioggia nel pineto composta nella pineta di Marina di Pisa quando il gracidare
della rana non poteva essere che a pochi passi. «Muta di colori è l’aria | e
arcana la malia del mare | come richiamo dall’ignoto» recita la Toffanin nella
poesia Sono. E ancora: «Mano di scoglio inventata | da ignoto profondo» in
Manarola o ancora «ignare trame di storia». Ma proprio questa fusione
simbiotica tra essere e realtà, questa icastica del pensiero in un mondo
familiare a lei caro, convalidano sempre più questa teoria. D’altronde la
Toffanin nell’opera Dell’azzurro ed altro si serve di bagliori, di giochi di
luce, di lampi abbaglianti in risalto su angoli di buio, in quel suo sforzo di
dare all’anima un’identità concreta, come necessità estrema di misurarsi con
l’entourage per farlo suo, e trasferirlo sulla pagina come coscienza dell’essere
e dell’esistere: «In gomitoli di luci | si snodano i riti. | Da angoli di buio |
tremuli barbagli | divampano lontani | in luminoso falò: | per magia, la Casa.
[…] | Ali-parole di angeli | aleggiavano intorno, | […] | Splendeva cometa
d’oro | in occhi puri di padre | […] | cerco la Cuna d’amore | per dissetarmi
di luce» (Casa-cuna dall’opera Dell’azzurro ed altro).
Fin dalla prima poesia di Iter ligure si evince la continuità
stilistica personale della Toffanin; il suo stilema vario, articolato, con
alternanza di versi brevi a più ampi, da settenari a doppi settenari, in un
pentagramma di note in stretta simbiosi col dipanarsi delle suggestioni
dell’autrice. «Eccellente uso del significante metrico» direbbe Luciano Nanni.
La lirica si apre con una unità sintagmatica laconica ma di grande respiro che
ci introduce in una sinfonia di colori e suoni in cui esplode la varietà
mediterranea della natura ligure: «Roccia-araldo solare | che squilli colori
nativi | in viluppi di aloe | fico d’India rosmarino | dai gialli suoni celesti
corallo | sfilati nell’azzurra filigrana» (Umano e selvaggio). E ancora
unità sintagmatiche o univerbazioni tipiche della cifra stilistica di queste
pagine. Inizia la fusione panica, l’amalgama della poetessa col mondo che
rappresenta, e il procedimento è lo stesso; abbondanza di aggettivazioni, novità
stilistiche con invenzioni creative personali, anastrofi, serie di versi a
crescere o a diminuire o a rattenere il fluire emotivo, per farlo poi esplodere
in endecasillabi, improvvisi ed isolati, come vere cascate d’armonia: «Ti invoca
il cuore del poeta | che in te sola riposa e si consola» (Umano e selvaggio).
C’è in questa pièce tutto l’ardore, con la centralità corale di una natura che
la poetessa fa sua, ama per venire ripagata da un dialogo con ambiti asprigni di
marine, e terre rivierasche aperte ai venti, araldi di sole (Roccia-araldo
solare). Sinestesie di grande efficacia visiva, derivate da metabolizzazioni di
illuminazioni cromatiche ed espanse che la stesura di una
morfosintassi regolare e troppo umana non è sufficiente a narrare: «fico
d’India rosmarino | dai gialli suoni celesti corallo | sfilati nell’azzurra
filigrana».
E qui, in questa natura opulenta, totalizzante,
cromaticamente divina, che l’anima dell’autrice trova riposo, quasi si annulla
donando tutta se stessa in una metamorfosi di trascendenza metafisica:
«S’azzurra alfine l’anima mia | d’oro e rosa si colora | si scolora e si smemora
| nella magia dell’ora» (Trame d’armonia). «E pastore di sorgive | mi disseto di
pace ancora | simbiosi fra l’umano e il divino». E case, reti, seni verdi,
conchiglie, slarghi di cielo, prodigio-incontro, le barche,
scaglia
lucente-smalto verde, l’agave si fanno tanti segmenti di un esistere che si
raffigura nel mondo che la poetessa ama, si concretizzano in forme di un panismo
vivo, per cui la natura non è mai motivo di semplice idillio, ma umanizzata si
fa allegoria simbolica di un esistenzialismo totalizzante: «E canta il cuore
all’uomo | nuovo nell’uomo altro | in un unico sentire | prodigio-incontro col
divino | estasi nell’onda sapiens d’armonia | avvolta nell’arco d’un coro
ligneo» (Nell’antico coro ligneo). «Delicato pallido fiore | languore-forza di
una rosa | che non cede all’aria al sole | per non sfiorire così | dans l’espace
d’un matin» (Manarola). Ossimoro, anafora, concentrazione di termini di alto
spessore lessicale, nello spazio di un mattino in francese per una maggiore
armonia resa con suoni di suggestione poetica (direbbe P. Eluard: «Je vois des
hommes vrais sensibles bons utiles | rejeter un fardeau plus mince que la mort |
et dormir de joie au bruit du soleil»); e tutto contribuisce a personalizzare un
dire di grande efficacia introspettiva.
E così che il linguaggio della Toffanin non si limita mai alla semplice
descrizione, ma è alla ricerca continua degli spigoli, delle asprezze, delle
solarità, o degli ampi spazi che, tutti assieme, tanto rassomigliano al
dipanarsi della vita. E non è che il suo panorama esistenziale si esaurisca
tutto in questo appagamento dello spirito nell’universalità dell’amore, o nella
grandezza di un nume creatore che dimostra la sua eternità
in una «Vita a perpetuarsi nel ciclo eterno». C’è in questi versi, anche se in
maniera ridotta nei confronti dell’opera Dell’amicizia, il quesito dell’essere,
il dubbio eracliteo dell’esistere e del divenire, la coscienza della fragilità e
della caducità delle cose umane: «per non sfiorire così | dans l’espace d’un
matin». E quanto liricamente avvincente e umana è la poesia Al poeta! E l’agave
che più ci assomiglia: vive, radicata allo scoglio secco, ma protesa verso gli
smisurati spazi celesti; respira il mare che più di ogni altra cosa sa d’eterno;
è difesa da radici profonde contro la violenza dei marosi, candelabro corniola-idea «fino a chiudersi nel respiro estremo». Quanto saporito di vita è
questo spazio poetico, quanto simbolismo lirico: «D’agave, poeta, è il nostro
giorno | radicato così allo scoglio irto | nel delirio mai finito d’azzurro |
struggente amore del vivere» (Al poeta).
Se Keats nell’ode l’Autunno esprime il desiderio di
essere nella vita un uomo e di ritornare un giorno «nelle radici della natura,
da cui ci stacchiamo come frutti sfacentisi, non per perire, ma per verdeggiare
di nuovo al sommo dei rami dell’albero della vita e respirare insieme con la
natura», la Toffanin attende dalla stessa una risposta chiara: «Sono una donna |
che seduta sul molo a Monterosso | nell’aria muta di colori, | si dondola in
pensieri con le barche | poi raccoglie la sua anima dal mare | e dal sole
attende risposta chiara» (Sono).
Il linguaggio comunicativo, arrivante, impreziosito da
un lessico altamente suggestivo e vario e da accorgimenti metrico-stilistici
quali ossimori, sinestesie, geminatio, enjambement, assonanze e invenzioni
fonico-significanti, tende a slargarsi con illuminazioni creative per accostare
le vibrazioni di un’anima che dalla superba bellezza del caduco azzarda voli
verso alture di slarghi di cielo. «E Venere dallo smeraldo fluttuante | pura
rinasce, o poeta, | col suo primo sorriso | e nella tela immortale s’eterna»
(Golfi di poesia).
Arena Metato, 18 febbraio 2006
Presentazione a
Iter Ligure
Nazario Pardini
Anima mia
trattieni come viatico
la sinfonia che passa.
Silloge varia e articolata questa della Toffanin, che,
composta di 56 pièces, si suddivide in tre sottotitoli indicativi ai fini di una
esegesi organica dell’opera: Trame d’armonia, Suoni – colori, Pause. Significano
chiaramente l’intenzione della scrittrice di potenziare i vari aspetti del suo
rapporto interattivo con un ambiente che assurge, nella gradualità progressiva
della silloge, da bellezza visivamente ed emotivamente vissuta a bellezza
contemplativamente idealizzata come tappa finale di riflessione esistenziale:
«Ma è già reliquia del vivere | l’effervescenza prima-gioia fanciulla |
d’inventare incantesimi | terre apriche d’irreali celestri | echi leggeri d’età
perduta» (Illusione di felicità). «E pastore di sorgive | mi disseto di pace
ancora | simbiosi fra l’umano e il divino | e del segreto viatico mi nutro |
per seguire il dissacrato tratturo» (Basilica dei Fieschi). Fanno parte della
prima sezione componimenti realisticamente ritratti con tinte e colori di
invenzione linguistica di personalissima fattura: Cinque Terre, Riomaggiore,
Manarola, Corniglia, Vernazza. Nella seconda l’autrice sembra distaccarsi in
parte da una pittura di stampo impressionista per cogliere aspetti più generali
e più intimi: Nell’antico coro ligneo, Catarsi e scoperta I, II,
Sono, Al
poeta; un trait d’union tra la prima e l’ultima parte, dove ci si prende una
pausa per meditare anche sul senso del vivere: Quesito, Quel battere delle ore,
Era il tempo, Illusione di felicità.
Iter ligure, viaggio non solo panoramico, ma odissaica
ricerca di misteriosi echi che combacino coi battiti del cuore. Mi piace
esordire con la motivazione stilata in occasione del Premio «Il Portone»
dell’anno 2003, per l’opera Per colli e cieli insieme mia euganea terra: «La cosa che colpisce maggiormente,
leggendo questa nuova opera di Maria Luisa Toffanin, è la profonda simbiosi
panica tra il corpo delle immagini e l’anima dell’autrice. Il verso scorre
limpido e musicalmente effusivo, facendosi a mano a mano icastico, in supporto
ai contenuti, col ricorso a univerbazioni, a unità sintagmatiche di
aggettivo-sostantivo o a invenzioni creative di grande rilievo. Sono tenerezza
fantasia | che così incanta | quell’onda tua viola | se improvvisa si defila
l’energia | in alate figure | altro tempo-vita che ancora migra. L’uso di
anastrofi, di una serie di doppi trisillabi che fanno risaltare certe sincronie
naturali, e di una metrica in cui i versi di varia misura si alternano a
significare le modulazioni interiori, denota maturazione stilistica e
concretezza immaginativa in questa fusione di realtà complessa fra anima e
natura». Credo metta in risalto quelle che sono le caratteristiche essenziali
del percorso artistico della Toffanin: esistenzialismo panico, vicissitudine
memoriale, realismo affettivo, combinazioni fonico-stilistiche a sostenere e a
dare consistenza alle vibrazioni dell’anima. Confesso di essere particolarmente
attratto dalla sua poesia, e di aver letto con grande partecipazione i suoi
testi: Dell’azzurro ed altro, Per colli e cieli insieme mia euganea terra,
Dell’amicizia. E quindi il rischio c’è che la mia recensione risenta di una
visione non troppo oggettiva per questa mia affezione. Il fatto sta che
l’autrice è in possesso di una grande malizia versificatoria, alimentata però da
un altrettanto grande spirito icastico-contemplativo, da una ispirazione che
trova la sua substantia in una natura resa vivente dall’afflato partecipativo
dell’autrice.
Se di Decadentismo rinascente si può parlare nei suoi versi, credo lo si
possa fare, sotto un profilo assolutamente positivo, in quanto eredi di una
tradizione musicale avvincente, sinuosa e certo anche voluta. E le tecniche per
conseguire questi effetti sono tante: anastrofi, costrutti per inversione o per
aumentazione, alternanza di versi brevi (soprattutto senari e settenari) a
endecasillabi con il compito di creare impennate melodiche dal sapore di romanza
pucciniana: «Oh giorni di sorrisi tersi | per schiudersi in corolle nuove |
l’infanzia nostra, rosa ormai sfiorita» (Amaro incantesimo dal libro Dell’azzurro ed altro).
Un importante gioco versificatorio che si conclude nella melodia sottile
dell’endecasillabo finale ad accompagnare il senso della fugacità della vita
«rosa ormai sfiorita». «Ma non valse l’ebbrezza della danza | il trillo dei
cristalli | le stelle esplose nella notte | non valse umano sortilegio | a
trattenere il filo del suo vivere» (Non valse umano sortilegio dall’opera
Dell’Amicizia). I tre versi a crescere, racchiusi da due endecasillabi, offrono
un pentagramma di note varie che soprattutto con l’endecasillabo sdrucciolo
finale accentuano il sentimento di caducità dell’essere.
In Per colli e cieli insieme mia euganea terra, ancora
più visivi si rendono i sentimenti col ricorso alle sembianze naturali e più
evidente appare l’utilizzo delle immagini esterne per concretizzarli: «Conforto
sia il lampo dentro | al rapido risalire | oltre il fumoso spazio. | Ma tu |
conducimi su al sempreverde: | limpido tra i rami | traluce il sole | ed è
miracolo | d’azzurri colli | sublimi | dall’opale che svapora» (XVII dalla
stessa). Più ci si avvicina a quella che è la caratteristica dominante di Iter
ligure. Direbbe Zanzotto: «La letteratura ha bisogno del paesaggio per parlare».
Il titolo di questa silloge è già una porta d’ingresso al mondo poetico della
Toffanin: continuità stilistica, compattezza e organicità poetica, naturismo mai
fine a se stesso, ritrattazione di un sentire in parvenze che concorrono insieme
all’analisi psicologica dell’autrice più che ad una descrizione psicologica. Pur
mantenendo ciascuna opera il suo valore di unicità per contenuto, valore
estetico e frangente storico, le pagine di Iter confermano quella
sostanziale continuità tecnico-ispirativa. Anche qui si avvalora il progetto
critico secondo cui nell’autrice c’è una ricerca linguistico-letteraria volta a
dare corpo a un mondo di pensieri e sentimenti che tendono a trasferirsi dal
particolare all’universale e a trovare nella poesia un edenico nirvana nello
sforzo di ricercare quella parte di noi che più si avvicina all’irraggiungibile.
Ma certo la poesia della Toffanin non ambisce a sperimentazioni che fanno della
tecnica e della parola l’unico obiettivo letterario, una trasgressione nei
confronti della tradizione. C’è al contrario uno spontaneo equilibrio tra dire e
sentire, e la lingua nelle sue elaborazioni sta a
significare piuttosto una insoddisfazione continua nel dare corpo a un
patrimonio di sentimenti che il semplice linguaggio è insufficiente a
soddisfare. E c’è tanto, al contrario, in lei della tradizione, anche se
rivisitata da una coscienza etica ed estetica che la rende personalissima. Fino
a poter impostare, senza presunzione, una teoria critica che la porrebbe (a
parte le novità tecnico-lessicali e strutturali del suo personale stilema) come
autrice di un neodecadentismo o neoimpressionismo per le stesse motivazioni che
improntano la corrente: panismo, simbolismo, musicalità nascosta quasi di stampo
baudelairiano, e figure impiegate con malizia in funzione soprattutto di tale
musicalità. Addirittura la musicalità si fa fisica e la natura si trasforma in
una vera orchestrazione dove ruvide pievi–nicchie e dune d’ulivi e
vigne-violini
diventano strumenti accordati da mani esperte di musicanti. E il risultato è una
grande sinfonia che rasserena l’anima e l’avvolge in un vellutato arabesco: «la
sinfonia di pace esalata | da ruvide pievi-nicchie silenti | respiro mistico |
al viandante che riposa, | raccolte fiorite fra le dune | d’ulivi e
vigne-violini | accordati insieme da mani musicanti. […] | Anima mia |
trattieni come viatico | la sinfonia che passa» (Sinfonia di pace). Quasi
dannunziano lo direi questo passo, dove si attua una vera metamorfosi dall’umano
al naturale. Per non dire dell’altra caratteristica fondamentale del
Decadentismo europeo: il senso del mistero, dell’arcano, che compenetra di sé
ogni aspetto del creato: un’esigenza di profondità, di estensione anche per le
distanze più brevi. «Ma la figlia | del limo lontana, | la rana, | canta
nell’ombra più fonda, | chi sa dove, chi sa dove!» recita il D’Annunzio ne La
pioggia nel pineto composta nella pineta di Marina di Pisa quando il gracidare
della rana non poteva essere che a pochi passi. «Muta di colori è l’aria | e
arcana la malia del mare | come richiamo dall’ignoto» recita la Toffanin nella
poesia Sono. E ancora: «Mano di scoglio inventata | da ignoto profondo» in
Manarola o ancora «ignare trame di storia». Ma proprio questa fusione
simbiotica tra essere e realtà, questa icastica del pensiero in un mondo
familiare a lei caro, convalidano sempre più questa teoria. D’altronde la
Toffanin nell’opera Dell’azzurro ed altro si serve di bagliori, di giochi di
luce, di lampi abbaglianti in risalto su angoli di buio, in quel suo sforzo di
dare all’anima un’identità concreta, come necessità estrema di misurarsi con
l’entourage per farlo suo, e trasferirlo sulla pagina come coscienza dell’essere
e dell’esistere: «In gomitoli di luci | si snodano i riti. | Da angoli di buio |
tremuli barbagli | divampano lontani | in luminoso falò: | per magia, la Casa.
[…] | Ali-parole di angeli | aleggiavano intorno, | […] | Splendeva cometa
d’oro | in occhi puri di padre | […] | cerco la Cuna d’amore | per dissetarmi
di luce» (Casa-cuna dall’opera Dell’azzurro ed altro).
Fin dalla prima poesia di Iter ligure si evince la continuità
stilistica personale della Toffanin; il suo stilema vario, articolato, con
alternanza di versi brevi a più ampi, da settenari a doppi settenari, in un
pentagramma di note in stretta simbiosi col dipanarsi delle suggestioni
dell’autrice. «Eccellente uso del significante metrico» direbbe Luciano Nanni.
La lirica si apre con una unità sintagmatica laconica ma di grande respiro che
ci introduce in una sinfonia di colori e suoni in cui esplode la varietà
mediterranea della natura ligure: «Roccia-araldo solare | che squilli colori
nativi | in viluppi di aloe | fico d’India rosmarino | dai gialli suoni celesti
corallo | sfilati nell’azzurra filigrana» (Umano e selvaggio). E ancora
unità sintagmatiche o univerbazioni tipiche della cifra stilistica di queste
pagine. Inizia la fusione panica, l’amalgama della poetessa col mondo che
rappresenta, e il procedimento è lo stesso; abbondanza di aggettivazioni, novità
stilistiche con invenzioni creative personali, anastrofi, serie di versi a
crescere o a diminuire o a rattenere il fluire emotivo, per farlo poi esplodere
in endecasillabi, improvvisi ed isolati, come vere cascate d’armonia: «Ti invoca
il cuore del poeta | che in te sola riposa e si consola» (Umano e selvaggio).
C’è in questa pièce tutto l’ardore, con la centralità corale di una natura che
la poetessa fa sua, ama per venire ripagata da un dialogo con ambiti asprigni di
marine, e terre rivierasche aperte ai venti, araldi di sole (Roccia-araldo
solare). Sinestesie di grande efficacia visiva, derivate da metabolizzazioni di
illuminazioni cromatiche ed espanse che la stesura di una
morfosintassi regolare e troppo umana non è sufficiente a narrare: «fico
d’India rosmarino | dai gialli suoni celesti corallo | sfilati nell’azzurra
filigrana».
E qui, in questa natura opulenta, totalizzante,
cromaticamente divina, che l’anima dell’autrice trova riposo, quasi si annulla
donando tutta se stessa in una metamorfosi di trascendenza metafisica:
«S’azzurra alfine l’anima mia | d’oro e rosa si colora | si scolora e si smemora
| nella magia dell’ora» (Trame d’armonia). «E pastore di sorgive | mi disseto di
pace ancora | simbiosi fra l’umano e il divino». E case, reti, seni verdi,
conchiglie, slarghi di cielo, prodigio-incontro, le barche,
scaglia
lucente-smalto verde, l’agave si fanno tanti segmenti di un esistere che si
raffigura nel mondo che la poetessa ama, si concretizzano in forme di un panismo
vivo, per cui la natura non è mai motivo di semplice idillio, ma umanizzata si
fa allegoria simbolica di un esistenzialismo totalizzante: «E canta il cuore
all’uomo | nuovo nell’uomo altro | in un unico sentire | prodigio-incontro col
divino | estasi nell’onda sapiens d’armonia | avvolta nell’arco d’un coro
ligneo» (Nell’antico coro ligneo). «Delicato pallido fiore | languore-forza di
una rosa | che non cede all’aria al sole | per non sfiorire così | dans l’espace
d’un matin» (Manarola). Ossimoro, anafora, concentrazione di termini di alto
spessore lessicale, nello spazio di un mattino in francese per una maggiore
armonia resa con suoni di suggestione poetica (direbbe P. Eluard: «Je vois des
hommes vrais sensibles bons utiles | rejeter un fardeau plus mince que la mort |
et dormir de joie au bruit du soleil»); e tutto contribuisce a personalizzare un
dire di grande efficacia introspettiva.
E così che il linguaggio della Toffanin non si limita mai alla semplice
descrizione, ma è alla ricerca continua degli spigoli, delle asprezze, delle
solarità, o degli ampi spazi che, tutti assieme, tanto rassomigliano al
dipanarsi della vita. E non è che il suo panorama esistenziale si esaurisca
tutto in questo appagamento dello spirito nell’universalità dell’amore, o nella
grandezza di un nume creatore che dimostra la sua eternità
in una «Vita a perpetuarsi nel ciclo eterno». C’è in questi versi, anche se in
maniera ridotta nei confronti dell’opera Dell’amicizia, il quesito dell’essere,
il dubbio eracliteo dell’esistere e del divenire, la coscienza della fragilità e
della caducità delle cose umane: «per non sfiorire così | dans l’espace d’un
matin». E quanto liricamente avvincente e umana è la poesia Al poeta! E l’agave
che più ci assomiglia: vive, radicata allo scoglio secco, ma protesa verso gli
smisurati spazi celesti; respira il mare che più di ogni altra cosa sa d’eterno;
è difesa da radici profonde contro la violenza dei marosi, candelabro corniola-idea «fino a chiudersi nel respiro estremo». Quanto saporito di vita è
questo spazio poetico, quanto simbolismo lirico: «D’agave, poeta, è il nostro
giorno | radicato così allo scoglio irto | nel delirio mai finito d’azzurro |
struggente amore del vivere» (Al poeta).
Se Keats nell’ode l’Autunno esprime il desiderio di
essere nella vita un uomo e di ritornare un giorno «nelle radici della natura,
da cui ci stacchiamo come frutti sfacentisi, non per perire, ma per verdeggiare
di nuovo al sommo dei rami dell’albero della vita e respirare insieme con la
natura», la Toffanin attende dalla stessa una risposta chiara: «Sono una donna |
che seduta sul molo a Monterosso | nell’aria muta di colori, | si dondola in
pensieri con le barche | poi raccoglie la sua anima dal mare | e dal sole
attende risposta chiara» (Sono).
Il linguaggio comunicativo, arrivante, impreziosito da
un lessico altamente suggestivo e vario e da accorgimenti metrico-stilistici
quali ossimori, sinestesie, geminatio, enjambement, assonanze e invenzioni
fonico-significanti, tende a slargarsi con illuminazioni creative per accostare
le vibrazioni di un’anima che dalla superba bellezza del caduco azzarda voli
verso alture di slarghi di cielo. «E Venere dallo smeraldo fluttuante | pura
rinasce, o poeta, | col suo primo sorriso | e nella tela immortale s’eterna»
(Golfi di poesia).
Arena Metato, 18 febbraio 2006