Silvana Serafin – La poesia di M.L.D.T. tra passione e razionalità

in: Giampaolo Borghello
Per Teresa dentro e oltre i confini.
Studi e ricerche in ricordo di Teresa Ferro

Editrice Universitaria Udinese, Udine 2009

Nell’ambito della poesia contemporanea italiana, Maria Luisa Daniele Toffanin1 offre un contributo originale e di sicuro interesse. Originale non esclusivamente nel senso romantico del termine, ma di ‘origine’ – in quanto essa trae la propria specificità dall’interno di sé –, dalla particolare percezione pittorico-musicale della natura, dalla lingua, dall’educazione, dalle letture…; in poche parole dalla paideia individuale. Originale, infine, perché rompe il ‘silenzio’, fa sentire la voce dell’anima, prendendo contatto con la realtà che la circonda ed operando, attraverso la parola, un processo di differenziazione, d’identificazione, di comunione, di realizzazione del soggetto.

1 Maria Luisa Daniele Toffanin, poetessa padovana, oltre a promuovere iniziative culturali e di orientamento scolastico nell’ambito dell’Associazione Levi-Montalcini, si dedica alla presentazione dei suoi libri con Associazioni culturali di Padova e di altre città italiane, dà vita a momenti di poesia nelle scuole e a laboratori di scrittura. Collabora a riviste letterarie. Partecipa a convegni realizzati dall’Università di Udine e a iniziative promosse dal CILM – Centro internazionale letterature migranti ‘Oltreoceano’ – dell’Università di Udine.È vice presidente del Centro studi on. Sebastiano Schiavon. È socia del PEN club italiano. Ha ottenuto numerosi premi e lusinghieri consensi di critica sia per l’inedito che per l’edito. Sue poesie figurano in antologie e riviste nazionali ed internazionali quali Oltreoceano Studi di letteratura Latinoamericana / Estudios de literatura Latinoamericana. Ha pubblicato i seguenti volumi: Dell’azzurro ed altro (1998 e 2000 con antologia critica); A Tindari (2000 e 2001 Premio Sorrentinum); Per colli e cieli insieme mia euganea terra (2002); Dell’amicizia – my red hair (2004, 2006 Premio Venafro); Iter ligure (2006 a conseguimento di numerosi premi in diverse edizioni del Premio letterario Il Portone), Fragmenta (2006), opera ampiamente premiata (Premio Histonium di Vasto, Premio Santa Margherita di Arcola / Lerici, Premio Città di Pompei, Premio Il Portone di Pisa, Premio Maestrale San Marco di Sestri Levante, Premio l’Aquilaia di Arcidosso, Premio Santa Maria di Vecchiano – Pisa).

Sei sono i volumi di poesie sinora pubblicati: Dell’azzurro ed altro (1998-2000), A Tindari (2000-2001), Per colli e cieli insieme mia euganea terra (2002)preziosi anche per il corredo di disegni, a china e a colori, eleganti ed essenziali nell’immediatezza espressiva, opera di Marco Toffanin, i quali instaurano un dialogo aperto e continuo tra espressione e comunicazione grafica. Seguono Dell’amicizia – my red hair (2004-2006), Iter ligure (2006), Fragmenta (2006).

È opportuno delineare almeno nelle tracce essenziali le varie sillogi che testimoniano l’evoluzione di una passione in grado di trasformare l’esperienza in linguaggio, di manifestare, attraverso i simboli, i segni dell’anima che, rimettendo a un’esistenza/assenza, sono riconoscibili da ognuno come propri.

Dell’azzurro ed altro
Padova, La Garangola, 1998, 2000.

La raccolta è strutturata come un viaggio interiore nel passato e nel presente, attraverso quattro momenti: AcquerelliLe stagioni dell’azzurroAssonanzeEd altro, stretti insieme da un continuo stupore per la natura rivelatrice di attimi d’eterno – «Ma è già per l’animo/ grido di gioia […] l’istante catturato/ oggi all’Eterno/ dalla pineta/ lungo il mare stesa» [Grido di gioia, p. 41] – e da una sincera attenzione per le persone incontrate dall’autrice nel suo cammino. Come dimenticare le mani dell’amica «sospese nell’aria/ a ricamare operose/ i nostri ricordi» [Sono le tue mani, p. 76], o lo zio Nino insegnante «rapito ad inseguire echi/ d’etereo canto antico e/ svelarne l’armonia di note./ E menti ancora acerbe/ aprirsi allo stupore del/ divino qui raccolto […]» [Nel cielo dei ricordi, p. 73]?

Da tutto ciò nascono profonde riflessioni sui valori della vita contenuti negli affetti, custoditi dalla memoria. Del padre, filosofo antico, ricorda «l’umile splendore/ delle note pure/ su cui modulare/ il canto maturo» [Per filosofo antico, p. 70] e della madre «la gran fiamma» che dà calore alla casa, avverte l’incolmabile assenza con parole pregne d’angoscia: «Ora che il non averti/ è certezza di cristallo,/ mio vuoto cupo si spande/ in onde solitarie d’angoscia:/ mistero dei giorni da contare» [Madre, p. 67].

Soffusa è la presenza di Dio – «mio mistero/ sembianza lontana da ombre velata/ presenza attesa/ nel vuoto invocata [Nell’ora che, p. 54] –, che con l’incessante ricerca di risposte all’incognita vita-morte – «Ci sarà un dove/ splendente di luce/ acceso di sole:/ là, strappate le maschere d’argilla/ ci parleremo liberi col cuore» [Ci sarà un dove, p. 79] – , s’insinua in ogni verso come una sorta di motivo conduttore. Una scrittura, intesa quale impegno sacro di trattenere sulla pagina l’impalpabile dono offerto da ogni incontro umano che l’autrice custodisce preziosamente e trasforma in esigenza di comunicare la propria interiorità: «e dentro sento/ un brulicare denso/ di colori e guizzi/ di stemperarli/ in acqua ardente/ di parole nuove» [Acquerelli d’amore, p. 13].

Non è un caso se Ferdinando Camon coglie nell’opera un afflato poetico di grande intensità, in quanto, egli scrive:

Le poesie sono visionarie e descrittive, cariche di un sentimento naif e naturale, dolcemente fuori-moda e fuori-tempo: sono poesie scritte per amici-lettori o per lettori-amici come dovrebbero essere sempre le poesie. Sento in esse la semplicità di un mondo appartato e perduto [Lettera privata].

Mario Richter, da parte sua, nota nella prefazione al volume:

A Maria Luisa Daniele Toffanin è riuscita una cosa davvero rara: ha raggiunto una lingua lirica sua, evidente risultato di una felice conquista, di una lunga meditazione di altri poeti lirici del nostro tempo, da Valeri a Cardarelli, da Solmi a Montale, ma tutto sempre saggiamente controllato da una educazione letteraria che non consente gli eccessi e lascia trasparire una misura che ha radici antiche e profonde negli strati più eletti della nostra tradizione poetica. La sensibilità della Daniele Toffanin passa attraverso un’osservazione impressionistica del mondo. I colori, le luci, i movimenti delle cose visibili sono colti nell’incanto del loro immediato e fugace apparire. […] si caricano del denso spessore del tempo vissuto, ricuperano tutto un mondo di memorie, risuscitano emozioni remote e come spente […] quella meraviglia fuggevole dell’attimo, arricchito di tutti gli attimi che l’hanno preceduto acquista quasi – già nella parola poetica presente – un valore di eternità…[dalla Prefazione]

Significativo in proposito è il seguente esempio: «Corre l’azzurro/ sul filo del prato:/ il tuo sguardo di allora/ – due gocce di cielo –/ lo stesso di ora./ Tanta erba/ cresciuta/ tagliata/ al sole bruciata./ Profumo intenso/ infanzia lontana/ che mi porto dentro» [L’azzurro, p. 33].

Non meno colpito dalla freschezza di una poesia che giunge direttamente al cuore del lettore è Bino Rebellato, come possiamo cogliere dalle seguenti riflessioni:

Leggendo i suoi versi sento accostarmi subito ad un animo di singolare e schietta sensibilità, di nobili ed umani ideali. Una sua intima genuina innata umiltà davanti alla realtà e al mistero della vita contrassegna la presenza della poesia in lei e nella sua scrittura… Mi piacciono le spontanee variazioni della sua parola: la purezza lirica dell’improvviso fiorire dei ciliegi, lo stupore dei nuovi incontri, i solitari muti lamenti. Ma nella grande varietà degli eventi, c’è sempre una drammatica domanda, ininterrotta, cui manca sempre la risposta, cui nessuno ha mai risposto e forse mai risponderà. Non resta che affidarci alla «zona segreta del cielo» che lei e pochi altri sanno vedere [Lettera privata].

Volutamente ho insistito nel proporre alcuni giudizi critici che salutano l’apparizione dell’opera di Maria Luisa Daniele Toffanin, per evidenziare l’originalità del discorso poetico in cui costante è la considerazione per le piccole cose, per i sentimenti e per la natura in un perpetuo rimando ai grandi ed insoluti problemi ontologici che sorgono dalla sonorità di versi colorati. In essi profondo è il senso della tradizione, intesa non tanto come risultato di un percorso che sta alla base di una unità tra il passato e il presente, ma nel suo significato più ampio di trasmissione (tradere) della conoscenza, dei miti, delle letture, delle strategie narrative, della memoria. Una continuità che non è certo strumento di conoscenza rigido e inflessibile, ma trasferisce – confermando in tal senso la sua etimologia – alla posterità ciò che la storia ha conservato all’interno dei suoi canali. Ne sono un esempio significativo non solo la seconda raccolta A Tindari, di seguito presentata, ma tutte le sillogi successive che sviluppano una coerente ed approfondita evoluzione del tema.

A Tindari
Patti, Nicola Calabria editore, 2000, 2001

Pubblicata nel Duemila, A Tindari è frutto delle impressioni di viaggio in Sicilia, terra che ha colpito profondamente la poetessa per la magia di suoni, di colori, e di storia millenaria intrisa di mitologia classica.

I quindici componimenti suddivisi in due sezioni – A TindariVisioni – sorgono sull’onda del ricordo del passato, connotato di stupore metafisico e di forti emozione dinnanzi alle bellezze naturali, la cui presenza è significativamente caricata di valori simbolici insiti nella quotidianità di uomini e di oggetti attuali.

Inevitabile il ricorso al mito, travalicante i confini del reale, ma al contempo pregno di fisicità. I «gesti flessuosi» di «fanciulli» e «fanciulle» intenti a bagnarsi gioiosamente nel mare di Patti, riportano come per magia antichi riti, intrisi di sensualità pagana, sfumando via via in una visione d’eternità: «Fanciulli vidi/ bagnarsi di onde/ leggeri corpi di luna/ e fanciulle vidi/ alzarsi da schiuma/ con ali di cigno/ e unirsi insieme/ in cerchi di acqua.// Forme composte/ con gesti flessuosi/ di membra di mani/ in crateri di argilla/ a propiziarsi con riti/ l’arcano ignoto silenzio/ e vivere eterni nei miti.// E noi con l’anima confusa/ ormai in catene di acqua e luce» [XI, p. 21]. Come osserva Richter,

[…] il passato remoto rievocato come personale esperienza riconduce al presente di «noi» separati, certo, ma ormai anche irrimediabilmente coinvolti, anche se con «l’anima confusa», nel miracolo della visione fatta di «acqua e luce» in una realtà trasformata, sospesa nella suggestione di un tempo senza tempo [M. Richter, La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin, in «Il bianco e il nero», 11 (2009), pp. 85-100].

Non può essere altrimenti, perché il processo di formazione della conoscenza, inserito all’interno di una dinamica viva, pulsante e significativa, fissa al contempo elementi ‘eterni’, riproposti in una circolarità infinità. La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin sia pur profondamente determinata dall’emozione, non manca certo di razionalità, visibile nell’esigenza di fornire risposte agli interrogativi che da sempre assillano l’individuo.

Il ricorso ad immagini classiche è un espediente felice per fissare l’attimo gravido d’eternità. Numerosi sono gli esempi disseminati all’interno della raccolta in cui, parafrasando Stefano Valentini,

[…] il paesaggio millenario si fonde con la coscienza dell’osservatore, la bellezza si congela nella fissità immobile dell’attimo. Sembra di trovarsi sull’orlo d’una apocalisse mistica, incantesimo cosmico che libera dalla caducità e dalla schiavitù: ma non accade nulla e subito riaffiora la materia sensibile, la serenità della quiete e della pace sconfitte e contraddette nella storia [S. Valentini, Recensione, in «La Nuova Tribuna Letteraria», XI, 64 (2001), p. 37].

Per colli e cieli insieme mia euganea terra
Padova, La Garangola, 2002.

Il poemetto nato da un senso quasi di consustanzialità nei confronti di questi luoghi già frequentati dall’autrice nell’infanzia e in altre età, sviluppa un percorso, in trentadue canti, ad iniziare dalla casa-sfera «che solo a guizzo d’amore si muove», attraverso i colli e i cieli d’autunno per ritrovare armonia, energia nella natura, per «inseguire la gioia/ che al fulvo balzo di lepre/ si accende/ in sentieri di salvie/ e di corbezzoli» [VII, p. 23].

Ovunque, infatti, appaiono prodigi: le api in riti d’amore, gli uccelli infiniti sui fili in partenza, i cachi splendenti d’oro… E i topinambur si trasformano in «esotico suono/ che a danza ci muove/ nel sogno del giallo […] nel cielo di passo »21. Sono attimi d’eterno che confortano l’anima turbata nel suo cammino dal doloroso esistere umano. E pure l’arte la consola col suo messaggio d’eternità «[…] e dalla Parola vinto s’arresta/ il Tempo e si condensa nel silenzio/ di mani accordate/ sulle vigne e sui codici miniati/ voci oranti chiuse/ nell’armonia del sacro canto […]» [Abbazia di Praglia, p. 47]. Daniele Toffanin ha fatto dell’arte valore imprescindibile della sua vita, scoprendo con abilità indagatrice il senso delle cose, la ragione stessa dell’arte, il suo ordine necessario, la sua legge, celata nelle strategie della mente e dell’intelligenza.

Il viaggio prosegue in una ricerca, oltre la nebbia fisica ed esistenziale, di ‘luce’ in grado di penetrare l’oscurità dell’anima e della realtà: «[…] ma tu/ conducimi su al sempreverde:/ limpido tra i rami/ traluce il sole/ ed è miracolo/ d’azzurri colli/ sublimi/ dall’opale che svapora […]. E il pensiero/ da cascame ora libero/ più ne leggerà/ il profilo e il profondo/ nell’immenso specchio/ offerta di luce»23. Solo la fedeltà all’arte può rendere ‘autentico’ il compito dell’artista che, parafrasando Rella, è quello «di elevarsi sopra la ‘cattività della natura’, oltre i suoi limiti, oltre il bordo della mera sensibilità, oltre la sua mancanza di spiritualità» [F. Rella, L’enigma della bellezza, Milano, Feltrinelli 1991, p. 110]. Allora è possibile davvero cogliere l’eterno gioco delle corrispondenze, trovare il punto di contatto degli oggetti. In altre parole, comprendere i segreti della natura è il senso dell’arte: conoscere, pensare, inventare per ricercare nuove verità è anche la meta ultima di Maria Luisa Daniele Toffanin.

L’esplorazione di sé conduce, pertanto, alla creazione: nell’avanzare fisico vi è una graduale conoscenza metafisica che apre oltre gli occhi del cuore quelli della mente. Scrivere è comunque viaggiare tra memoria e pre-conoscenza, nella luce di quanto è noto e nella penombra di quanto potrebbe esserci rivelato. Per tale motivo il binomio tenebre e luce ha da sempre costituito la base di ogni creazione artistica, come ben insegna la grande poetessa del barocco messicano Sor Juana Inés de la Cruz (1651-1695) che sull’argomento ha scritto un vero e proprio gioiello poetico. Si tratta del Primero sueño (1690), un ‘papelillo’ di novecentosettacinque versi incentrati sul viaggio onirico dell’anima che esce dal silenzio universale, dal buio notturno dell’ignoranza per appropriarsi, con il trionfo del sole, della luce diffusa dalla conoscenza.

In particolare la scrittura oscilla tra ciò che si desidera comunicare e quanto scaturisce dal suo stesso ‘atto’, dai possibili percorsi che la lingua individua, rivelando al soggetto potenzialità impensate, affiorate dalla profondità del subconscio dove anima e corpo si fondono. Tale ricerca coinvolge inevitabilmente anche il senso della «luce d’oro» che a sera si stende sui colli dopo il temporale: è segno della presenza divina nel nostro ‘esserci’ e nelle cose, è forza dell’amore «leitmotiv che tutto percorre l’universo» [La luce d’oro, in: Per colli e cieli…, p. 55]. E di questa luce risplende anche la casa-sfera al ritorno del figlio: «Ma ora che suonano le spente stanze/ al tuo ritorno figlio/ è uno sfavillio di sfera/ che danza l’attesa saziata/ e tutta si apre alla tua vita…/ E nell’ora ritrovata/ insieme ancora si forma corolla/ con l’infinito in petali/ di luce di rugiada» [XXVIII, p. 54].

Un viaggio lungo il pendio dei colli euganei, tra sentieri ombrosi e radure di sole, interrotto da pause meditative, da divagazioni sul tempo che migra, sul dolore e sulla morte, frammisto a memorie culturali della civiltà del luogo, a ricordi personali e a ritorni alla casa-sfera, unica vera certezza degli affetti. Rima o metro non solo richiamano altre inattese parole, ma sono in grado di dirigere l’intero sviluppo del discorso, orientato verso una intrinseca positività che spalanca le porte all’amore universale.

A ragione Stefano Valentini sostiene che:

[…] questo libro ha tutte le caratteristiche per poter diventare un classico della nostra letteratura veneta […] non è una semplice raccolta, bensì un vero poema percorso […]. Un poema che pur […] fitto com’è di descrizioni e osservazioni tratte dal concreto, rivela però al suo interno una ricchissima trama di significati che dal mondo personale dell’autrice si diramano fino a farsi discorso sul cosmo, sull’esistenza di tutti […]. Un libro di poesia acuto e stimolante come pochi [S. Valentini, Recensione, in «Atlante letterario italiano», 2005-2006, p. 89].

Non meno entusiasticamente Andrea Zanzotto osserva:

Piace in questa raccolta di versi, così fortemente motivati, il senso quasi di consustanzialità nei confronti dei Colli Euganei, terra nativa, vissuta dall’autrice nelle sue più varie fascinazioni paesistiche in cui l’umano si instaura con pari energia. Figure della terra vulcanica o selvaggia e figure del lavorio della storia nel suo emergere qui come particolarissima civiltà, si equilibrano felicemente intrecciandosi ed espandendosi in un loro irrefrenabile entusiasmo, pur se talora con qualche ridondanza. Ma ciò che conta è però questa urgenza di laus vitae che si esplicita nelle descrizioni anche minuziose dei caratteri dei singoli luoghi e delle loro fantasie vegetali, e inoltre nel brillare di gruppi umani coi segni delle loro attività, per culminare poi in vari singoli personaggi nella loro esperienza interiore. Il lettore si sente subito cooptato a questo convito di vitalità: dai mirabili profili stessi dei colli al loro sempre imprevedibile e pur stabile manto, sino appunto alla confidenza dei sentimenti che si raccordano e chiamano il lettore lasciando un forte spazio nella espressione dell’autrice, anche a una intensità etica oltre che estetica. Si sente che questo discorso già nutrito continuerà col più costante senso di amore-dovere provvedendo in un necessario cammino [A. Zanzotto, Quarta di copertina, in Per colli e cieli…].

Dell’amicizia – my red hair
Venafro (Isernia), Edizioni Eva, 2004.

Se il titolo è di per sé significativo del contenuto dell’opera, la Praefatio esplicita le intenzioni che hanno determinato l’urgenza della scrittura. Non vi sono dubbi: si tratta di un canto/ spartito dedicato ad un’amica prematuramente scomparsa, ma il cui ricordo è vibrante testimonianza in «note lucenti d’amicizia» [p. 11].

L’immediatezza dei sentimenti espressi in libertà, senza pudori, né pregiudizi, rivela la necessità di estrinsecare, attraverso la parola poetica, un dolore che urla dentro, tanto improvviso quanto inatteso. In fondo con l’amica se n’è andata una parte di vita dell’autrice stessa, privata di una presenza complice, con cui condividere sensazioni che solo l’animo femminile può comprendere in profondità, proprio perché si riflettono come in uno specchio.

L’immersione nella coscienza individuale, funge, in tal modo, da terapia: nel sedare la ferita dell’anima, viene meno il timore di contemplare la morte «nell’anfora viola del lutto/ lo sguardo la voce struggente/ al nostro comune destino/ nel grande mistero divino» [p. 33]. Due vite parallele intrecciano sentimenti, sensazioni, emozioni interscambiabili, tese a cogliere l’ordine segreto delle cose, la bellezza come fonte di sapienza, l’amore nelle sue diverse forme, tutte comprese nell’intrinseca armonia, la verità volta al dominio del discorso che conduce alla scoperta di sé, al suo divenire soggetto del logos.

La comune ricerca del significato da attribuire all’esistenza, è scandita da momenti chiave ben fissati nella suddivisione della raccolta poetica: Parte I. Il nostro tenero tempoParte II. Il nostro tempo maturo. Un percorso formativo, alimentato e motivato da una lunga amicizia, nata «nella dimora d’umana cultura » [p. 16], «nel bucolico spazio là/ un po’ fuori dalla terra/ con l’asina sempre al balcone» [p. 17], a contatto con «allievi quasi amici», pronti a recepire e a far propri gli insegnamenti etici. I legami si stringono nel condividere la quotidiana attività: la casa, i giochi dei bimbi, gli incontri conviviali, le telefonate serali… Un tempo irripetibile, definitivamente confluito nel rimpianto della perdita non solo dell’amica, ma del sistema di vita, dell’ambiente naturale, di quel microcosmo armonioso dove l’uomo vive in simbiosi con lo spazio circostante, al ritmo di una natura rassicurante.

Non contrapposizione tra campagna e città, ma tra un allora vitale di tradizioni e un oggi privo d’identità in cui gli antichi costumi, rurali o cittadini che siano, si sono perduti. La mutata fisionomia di una città, non più identificabile, è resa con efficacia ed incisività dai seguenti versi «lavava le vecchie botteghe/ vivaci intarsi allora di vita/ battito ora spento di patavinità» [p. 45].

Costanti ed immutati, sono il senso d’inquietudine, l’ansia di verità «alla voce di un’etica stella» [p. 18], la ricerca del bello e del giusto – cui si contrappone il mistero insondabile del «non giusto» [p. 30] e del male –. Essi danno unità al testo, acceso dai bagliori della rossa criniera (my red hair del titolo, doveroso omaggio all’insegnante d’inglese, appassionata cultrice del mondo anglofono), dotata di vita propria ed autonoma. Secondo l’emotività del ricordo essa è, infatti, frizzante, docente, smarrita, radiosa, amorosa, pudica, ospitale, operosa, euforica…, identificandosi con l’essenza stessa dell’amica. Per meglio dire, attraverso l’evocazione, la poetessa stimola emozioni e riporta nel lettore il riferimento all’oggetto e ai suoi elementi costitutivi che conducono all’unità della persona.

Martellante, infine, il verbo ‘lavare’ ripetuto come una nenia per sottolineare le qualità intrinseche del soggetto, all’insegna della trasparenza morale e della pulizia intellettuale, ma anche per cullare il lettore nel lamento di un canto funebre.

Un’amicizia ben più profonda della solidale appartenenza di sesso, la quale «vola alto oltre il vento/ della brughiera d’inverno/ e non si perde» [p. 55], perché sorta da una comunione d’intenti, di aspirazioni e d’orizzonti d’attesa tra due persone che vivono simultaneamente in una pluralità di presenti, di paesaggi, di situazioni. Esse sono presentate nella loro intrinseca verità e autenticità, con il carico di inquietudini, di perplessità, d’amore e di speranza nella vita. È soprattutto la memoria ad annullare la distanza temporale, a tessere un filo lineare e ininterrotto tra passato e presente, pregni delle emozioni trascorse e delle pulsioni del momento.

In sostanza il testo, anche se apparentemente lontano dalle precedenti raccolte, fornisce una visione d’insieme sul tema dell’amore per la propria terra, costantemente rafforzato dall’evolversi dei ricordi, all’interno di una fitta rete di sensazioni che spostano l’attenzione dai fatti al contesto in cui sono inserite. In questo modo, spazio e tempo si compenetrano, offrendo una visione globale o circolare dei ricordi. Emozioni che cadenzano la giovinezza e la maturità della stessa autrice e tecnica compositiva si fondono in una complessa e sapiente unità estetica, costruita su una contiguità di elementi tematici. La verità poetica, intesa come sapere per la vita, emerge, pertanto, dal pathos e dal complesso dell’esperienza umana.

Iter ligure
Pisa, Edizioni Ets 2006, p. 51.

Iter ligure segna un’ ulteriore tappa di un viaggio reale e metaforico attraverso spazi fisici e tempi della memoria. Si tratta di un raffinato volumetto di cinquantun pagine – corredato da pregevoli disegni in china di Marco Toffanin – che confermano, oltre alle doti stilistiche del tutto personali, il particolare approccio dell’autrice con le tematiche della natura, vissuta in stretta simbiosi. La bellezza del paesaggio, pervasa di sentimento panico, viene progressivamente assorbita e interiorizzata per poi espandersi nell’armonia metafisica dell’esistenza.

Significativi in proposito sono i seguenti versi: «E il suono d’aria e d’acqua/ pure si sfila leggero/ in trame di note mute// ma vive dentro dal prima/ memoria di sfere musicanti/ all’origine del cosmo» [Trame d’armonia, p. 19]. La visione della realtà si converte qui in un autentico mondo primigenio, custode di valori positivi resi palpabili dalla profonda coscienza collettiva dei miti, dalla certezza dell’identità individuale e da una vita che pulsa al ritmo del cosmo.

Le tre sezioni che compongono l’opera, PrefazioneSuoni-coloriPause, sono costituite rispettivamente da undici, nove e dodici poesie che cadenzano impressioni del momento, vissuto sempre con intensità emotiva e visualizzato da un verso agile e sonoro, ora ampio e pacato, ora conciso e tagliente, perfettamente in consonanza con il ritmo interiore. Slanci d’entusiasmo, smorzati da toni riflessivi e meditanti, creano una sinfonia verbale di grande impatto sul lettore, a sua volta costretto a soffermarsi sul senso della vita e della sua fugacità «per non sfiorire così/ dans l’espace d’un matin» [Manarola, p. 23]. Nel dominio della natura, ricomposte le dissociazione interno/esterno, pensiero/realtà e ritrovata l’armonia con il sé, è possibile, pertanto, orientarsi nel mondo, dando significato alle azioni quotidiane.

Le doti affabulatrici di Maria Luisa Daniele Toffanin, si consolidano nella continua elaborazione di doppi e tripli sintagmi, di metafore evocatrici, di dettagliate e vivaci descrizioni che trasformano la metonimia in poesia dai forti accenti personali, prorompente per musicalità e colori. Ciò riconduce all’antico e indissolubile legame di parola e musica, di vita e poesia di una donna «che seduta sul molo a Monterosso/ nell’aria muta di colori,/ si dondola in pensieri con le barche/ poi raccoglie la sua anima dal mare/ e dal sole attende risposta chiara»41. Su tutto, aleggia la funzione salvifica del poeta che, «nel delirio mai sfiorito d’azzurro/ struggente amore del vivere» [Sono, p. 33], è sempre in grado di dare voce all’esigenza interiore, manifestando sensazioni universali, contrastando il dissidio tra una ratio sottesa al corso del mondo e una ragione dell’io che ad essa tenta di opporsi o con cui cerca di misurarsi. Indispensabile è cogliere l’ordine segreto delle cose, la bellezza come ricerca della sapienza, l’amore nelle sue diverse forme, tutte comprese nell’intrinseca armonia, la verità che tende al dominio del discorso, il linguaggio universale che come osserva la scrittrice italo-argentina Syria Poletti «[…] posee un dulce poder sobre el corazón de la gente. Esa esa la razón del arte, que no tiene fronteras ni edad» [S. Poletti, El misterio de las valijas verdes, Buenos Aires, Plus Ultra 1979 (1a ed. 1978), p. 57. Ulteriori sono i testi in cui è visibile tale concetto. Un esempio è dato dai seguenti riferimenti. «[…] los artistas saben leer en el corazón de la gente antes que nadie» [ID., La fuente mágica, in Marionetas de aserrín, Buenos Aires, Editorial Abril 1983 (1a ed. 1980), p. 56]; «[…] Necesito andar por un largo y solitario camino: el que me lleve al corazón de los que aún creen en el poder de los sueños y en la vigencia de las profecías» (ID., …y llegarán buenos aires, Buenos Aires, Editorisal Vinciguerra 1989, p. 60).].

Fragmenta
Venezia, Marsilio Elleffe, 2006.

È nota la particolare disaffezione del lettore italiano per i testi poetici, forse perché ritenuti di difficile comprensione per le impliciti e non sempre evidenti allusioni culturali, o per una sorte di discrezione. Penetrare nei pensieri del poeta, sia pure universali, superare la barriera della riservatezza di sentimenti del tutto personali, può provocare a volte un senso di disagio. Al di là di tali considerazioni, sta di fatto che se diamo uno sguardo ai cataloghi delle case editrici di maggior diffusione in Italia, balza immediatamente agli occhi il divario consistente di titoli di narrativa e di saggistica, rispetto a quelli più strettamente poetici.

Fa eccezione, in tal senso, il diverso orientamento di alcuni editori: ricordo tra gli altri Passigli di Firenze che annovera opere in traduzione di Neruda, Le Lettere, sempre di Firenze, il cui interesse è diretto ancora una volta alla poesia straniera, in particolare latino-americana,Viennepierre di Milano e Marsilio di Venezia con la collana Elleffe, diretta da Cesare Ruffato. All’interno di essa, figura l’ultima silloge di Maria Luisa Daniele Toffanin, allusivamente intitolata Fragmenta in quanto coglie vari momenti della ricerca condotta tra il 1995 e il 2005. Coriandoli di vita, resi graficamente in copertina da una serie infinita di pallini di due colori contrapposti, ma uniti da un filo leggermente ondulato, che alla continuità dell’esperienza assegna un’implicita diversità. La stessa che si evidenzia nella struttura del testo, suddiviso in due parti, precedute da una Introibo a mo’ di introduzione sulle motivazioni di scrittura. La prima parte Archetipi è a sua volta ripartita in tre sezioni: Negli occhi del cuore formata da diciassette poesie, In stanze della vita – trentun poesie –, Nel vento del mito – diciannove poesie –, mentre la seconda Attese consta di un’unica sezione comprensiva di ventun poesie. L’apparente squilibrio tra le due parti è del tutto intenzionale: si avverte la volontà di esaltare come in un luogo a sé stante, quello degli archetipi che più esprime il senso della vita «Miracolo, poeta, l’infinita nostra attesa» [L’infinita nostra attesa, p. 119].

La poetessa padovana ripropone ora tematiche a lei care, come quelle relative alla vita e alla morte, all’amore per la natura e per le sue incantevoli espressioni. Una bellezza che è sinonimo di conoscenza, di sapere, in quanto permette di cogliere l’incorporeo nel corporeo, l’essenza delle cose nella loro totalità. A ciò si affianca una rinnovata e matura visione dell’esistenza, in cui il concetto di salvezza trova vigore negli archetipi, «Presenze scorci/ stretti insieme, poeta/ da forza follia d’amore/ che ci trascina avanti/ pur chiusi in lacci di sangue»  [Archetipi, p. 7], in grado di rivitalizzare il «muro sgretolato/ dal non senso delle cose » [Introibo, p. 5]. Ad essi si associano il senso dell’attesa «che lievita effervescenza fanciulla in ricarica di stupore/ ardisce in fantasiose trame a mirare oltre la siepe » [Ib.] e della natura «che a noi commisurata affabula magia-prodigi-energie» [Ib.].

Mondo di sentimenti, altalenante tra la quotidiana percezione di avvenimenti concreti da cui si librano alto il pensiero e la malinconia del ricordo di persone amate che continuano a vivere nella gestualità dell’autrice: «E chiusa in quest’opale/ – densa malinconia matura –/ Smuovere mi sento gesti d’altre mani/ vive in ricordi acerbi/ morbide su lini e ruvidi cotoni/ ad accarezzarne l’intima sostanza/ memoria sensibile alla pelle/ nel cuore ricomposta/ a rinsaldare radici/ di fragili stagioni» [Dolce rituale, p. 20].

Presenze femminili s’impongono per forza d’animo ed energia vitale attraverso le varie tappe della vita: dall’attesa del figlio, ancestrale richiamo «ad una maternità-immensa coltre/ che avvolge il proprio e l’altro in misura simile dissimile, ma offerta costante riparo» [L’attesa, p. 90], alla quotidiana presenza familiare che, sin dal mattino «con occhi di sole» si veste «di vita e di gioia» per cingere «la sera-magia d’affetti/ in corolla scarlatta» [Tu mattino, p. 22], al lavoro di cucito («Cuce ricuce la Bice/ scampoli di vita da anfratti segreti/ rimossi al guizzo-moda dell’ora/ e al suo pensiero creativo/ da antica seta reinventa veste frusciante» [Creativamente, p. 26]) che alimenta sogni e fantasie. Donne che si aprono alla vita «si fanno farfalle/ in voli d’amore/ in guizzi segreti/ a brezza di suoni» [Sortilegio, p. 31], che spalancano gli occhi curiosi sul mondo («l’iride tua fiorita/ dei più rosati sogni/ umida di riflessi puri/ rapita dal giocoso impegno» [Per sempre, p. 49]), che maturano «Sotto il crespo di spose» [Ivi, p. 53], che muoiono, ma il cui ricordo sopravvive alla fragilità del vivere «aprendo spiragli insperati di vita/ a chi permane custode del mistero» [Ti ho vegliata madre, p. 61] e si trasforma in mito, immortale presenza consolatoria.

Vita e morte insieme «luoghi e momenti prossimi e remoto/ come in un dolce infinito presente» [Ib.] si aprono sul mistero dell’esistenza, costantemente indagato alla ricerca di risposte e di consolazione, di «una pietà trapunta di viole» [Empietà, p. 63], per dare un senso all’ontologico esilio dell’uomo. Il ricorso ai miti è, in fondo, la necessità d’inserire l’ansia personale in un discorso universale, superando barriere temporali e spaziali, senza condizionamenti di sorta, in libertà di pensiero come «anima che vola in sentieri di cielo» [L’infinita nostra attesa, p. 119]. La funzione del poeta è proprio questa e Maria Luisa Daniele Toffanin l’ha colta nella sua profonda essenza etica ed estetica.

Il verso, pertanto si ampia in un fraseggiare di grande respiro, rompendo la tradizionale struttura metrica, facendo ricorso a un’ originale forma sintattica resa da bi- e trisintagmi, alla sonorità di metafore che aprono spiragli di speranza, alimentati dal potere della parola, ricercata nei significati antichi per penetrarne l’essenza più recondita. Significativo è la rivitalizzazione di termini latini – introibo, praesente, cotidie – che oltre a testimoniare una sottile e profonda conoscenza del mondo classico – tra l’altro evidenziata anche nel riproposizione dei miti – rendono con maggiore incisività i concetti, colti nell’intrinseche sfumature di significato. Da inanimate e fredde, le parole divengono vitali, quasi antropomorfe, sino ad essere fonte unica di piacere.

Senza dubbio, in quest’ultima raccolta poetica, si sono definite con forza e originalità le qualità stilistiche di Maria Luisa Daniele Toffanin, più che mai attenta ed efficace nel porgere attraverso il gioco di metafore e di metonimie, un ideale ponte fra ambito personale, quotidiano e le forme dell’esistenza collettiva.

Il viaggio poetico dentro e fuori il sé

Nel tempo ambivalente dell’arte, la poetessa padovana destruttura le coordinate spazio-temporali percorrendo, tramite il viaggio semiotico, contemporaneamente sentieri diversi che confluiscono nei contorni ontologici di un essere in situazione, il quale si trova e si ritrova attraverso la propria opera. Un essere che, per usare le parole di Ricoeur [P. Ricoeur, Sé come altro, a cura di D. Jannotta, Milano, Jaca Book 1993, p. 41.], è costantemente ‘compromesso’, cioè promesso insieme all’altro a tessere le fila del suo essere-nel-mondo. Da qui la ricerca di una chiave universale, in grado di aprire continuamente nuovi sentieri alla conoscenza e all’immaginazione, instaurando un rapporto poietico dell’uomo con la natura.

Attraverso i paesaggi della storia (Tindari, I Colli Euganei, la Liguria) essa riporta in auge le memorie del passato «per accendere limpido il presente» [A Tindari, cit. p. 16]. Nell’altrove lontano nello spazio e nel tempo, ma ravvivato dal ricordo, trovano consistenza archetipi rassicuranti, come le antiche tradizioni, la natura, le cose semplici, che danno significato all’esistenza. La coscienza sociale, in accordo con il mondo reale, sottomette a sé tensioni individualistiche garantendo armonia tra individuo e comunità, tra uomo e natura. Miti e leggende di terre culturalmente lontane o più familiari, tradizioni, usi e costumi di collettività intere legate dalla magia ancestrale dei riti del lavoro, dall’esperienza di vita, sono evocati con metafore dotte e non per questo meno dirette.

Il ricorso ai miti classici, la raffinata costruzione formale che non lascia nulla al caso, la sperimentazione tecnica, frutto di una sedimentazione stilistica rielaborata dal proprio ‘sentire’ ed espressa nell’uso sapiente del significante metrico, confermano l’attività interpretativa dell’esperienza estetica, mai pura contemplazione passiva dell’oggetto, proprio perché implicita è la ri-creazione. Un’elaborazione linguistico-stilistica, che lontana dall’essere esclusivamente puro tecnicismo, si fonda sull’abilità poetica in grado di amalgamare valori sensibili, modalità etiche ed invenzioni fantastiche.

La razionalità, pertanto, non prevale sul piacere, sull’emozione, sulla passione che si coglie, soprattutto nel viaggio all’interno della natura. In un tripudio di luci, di colori, di musicalità, scoppiettano metafore gioiose, metonimie pittoriche che evidenziano il lirismo della vita. In fondo già Benedetto Croce [Per un approfondimento cfr. B. Croce, La poesia: introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, Bari, Laterza 1953 (1936).], nel trasportare il termine ‘lirica’ dalla classificazione empirica alla sintesi estetica, coglie il motivo da cui sorge la poesia, la passionalità, il sentimento, la personalità che si trovano in ogni arte. Il connubio felice tra immaginazione e realtà è rafforzato, dunque, dalla linea metaforica che procede verso il teorico e l’astratto, e da quella metonimica che affonda maggiormente nel pragmatico e nell’esperienza.

Tramite le cose, Maria Luisa Daniele Toffanin muove, infine, alla ricerca della conoscenza di sé, in un viaggio interiore dove sogni, ricordi, sensazioni, dubbi esistenziali rimettono a una supposta potenza che sembra governare il mondo («ove un Disegno/ a noi si svela in graffiti di luce»64). Sia la divinità sconosciuta («E questo Dio/ mio mistero» [Per colli e cieli…, cit. p. 27], cui la poetessa si affida fiduciosa («Mi voto a te/ mio dio antico» [Dell’azzurro…, cit. p. 54]), sia la forza ignota («Ma quale ignota forza sei/ che accendi/ il sempreverde/ il graffio della luna/ i nostri pensieri/ inerti alla sera/ i nostri sospiri/ dal profondo limite dell’immanenza?» [Per colli e cieli…, cit. p. 51]) comunque, regola l’azione umana, orientandola a soddisfare un fine incomprensibile che obbliga il soggetto ad essere se stesso e il contrario di sé.

Il processo di memorizzazione diviene sempre più libero ed indipendente, determinando l’interferenza di piani temporali lontani, ma anche più attuali, poiché la poetessa si basa su di un legame associativo tra passato e presente in un visibile percorso a spirale della narrazione, suscettibile a un tempo di espansioni e di ritorni o di approfondimenti su se stessa, seconda una struttura polifonica che intreccia ad un io lirico un io narrativo, immerso nel flusso temporale dell’esperienza. Ciò è reso possibile proprio da quello che Bachtin definisce ‘cronotopo’ [Per un approfondimento cfr.M. Bachtin, Estetica e romanzo,Torino, Einaudi 1979.], ovvero dall’interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali.

Nella coscienza non esiste linearità, in quanto nessuno vive il presente in modo stabile («E ancora presente/ è il tempo di ieri iterato/ che già s’infutura» [Per colli e cieli…, cit. p. 42]), proprio per l’insieme di aspettative e di ricordi confusi, per la ricerca di un qualcosa di appagante che ha come punto di riferimento l’infanzia. È un po’, come accade nelle opere di Proust, in cui l’incursione nel passato è concepita come un sondaggio nella profondità della coscienza, una mise en abîme che ha una funzione regressiva, nel senso che fa riflettere,ma ugualmente è protesa in avanti, in quanto rimanda la propria immagine ‘modificata’ nel futuro.

Un futuro volutamente luminoso («in assenza di tenebre» [Ivi, p. 53]), per dare significato alla vita: la poetessa/ Ulisse può affrontare il viaggio oltre il limite della conoscenza umana, e salire con il suo Virgilio, l’amato compagno di una vita, «la scala del tempo» [Ivi, p. 30], sorda persino al nóstos, perché la casa-cuna è ora la casa-sfera, un microcosmo d’amore e d’attesa che vaga in un altrove di luce e di speranza.

La poesia e in senso lato l’arte, introducendo nella vita quella libertà che viene meno quando le idee si concretizzano nella realtà, proietta l’individuo verso il futuro, verso ciò che deve ancora accadere… in poesie successive, capaci di rompere «il silenzio di nebbia» [Ivi, p. 36]. Da qui il valore salvifico assegnato al potere della parola, «al canto d’oro dei sogni» [Dell’azzurro…, p. 44], al poeta («Voce dal dio ispirata » [Per colli e cieli…, p. 55]) il quale, penetrando quei congegni, delicati e sottili, che sono il cuore e la mente degli uomini dove si celano i segreti dell’esistenza, rende meno cupo «il buio di chi vive» [Dell’azzurro…, p. 43]. Il mondo esterno rivissuto, pertanto, nell’interiorità della coscienza, assume l’aspetto proteiforme del simbolo, quale modello ermeneutico della vita.

Intervista a Maria Luisa Daniele Toffanin

È sempre interessante verificare direttamente alla fonte se l’idea sorta e rafforzatasi dalla lettura trova conforto dall’intenzione del creatore. Per tale motivo propongo la seguente intervista da me rivolta alla poetessa, in grado di far conoscere al lettore i percorsi mentali ed emotivi che hanno prodotto poesie tanto vibranti ed intense, in quanto parafrasando Emilia Perassi, «Cromatica, antica, colta e pensosa, la parola dettaglia ogni sfumatura del rapporto di comunione fra poeta e mondo» [E. Perassi, Parole e autori migranti, in S. Serafin (a cura di), Scrittura migrante. Parole e donne nelle letterature d’oltreoceano, in «Oltreoceano», 2 (2008), pp. 113-126.].

1. Da quando hai avvertito la vocazione alla creatività e in particolare alla scrittura? E dove affonda le radici questa tua vocazione?

Per rispondere a questa domanda devo ritornare ai pomeriggi della mia infanzia trascorsi a Padova nei salotti e nei giardini di Via Gabelli con gli amici dei miei genitori: Giannina Facco poetessa, scrittrice di romanzi per bambini e adolescenti, la sorella Maria pittrice, la pianista Ada, lo zio Leone cultore dei classici italiani e latini ed altri. Pomeriggi per me bambina mitici per i racconti di vita scolastica (erano tutti insegnanti), di viaggi, per l’atmosfera di vera amicizia, per gli argomenti resi in modo semplice coinvolgente anche per noi fanciulli, ma di uno spessore tale che andava ben oltre il vivere modesto di quel tempo. Ho ancora i libri che Giannina ci regalava in varie occasioni e ancora ricordo il poeta Giulio Alessi che abitava nella casa vicina. Qui ho respirato la prima poesia della vita: l’amicizia a cui ho dedicato un’intera silloge. Devo ritornare ai pomeriggi, alle serate con i cugini a Natale e Pasqua sempre in questa atmosfera accesa di attese. Qui ho appreso il senso della casa dei suoi riti sacri in particolare dell’ospitalità «e la casa…/ ora si dilatava ancor più all’universa famiglia/ nell’oro puro della festa/ in musicali accordi limpidi amicali/ in umili fraterni doni/ come di pastori in veglia di gioia» [M.L. Daniele Toffanin, La stanza bassa, inedito]. «Era sera d’aria fibrillante di festa/ che il vaso di Pandora si ricolmava/ di cori montani gentili/ tuttinsieme zii cugini in magica aurea indicibile» [Parva attesa, in Fragmenta, cit. p. 95].

E devo ritornare alle gite in campagna dai nonni paterni, in bicicletta con mio padre. Attraverso i suoi occhi ho imparato l’amore per la natura e insieme un senso etico della vita. «E alla campana vesperale… bambino ti ridestavi accanto a me/ in devozioni al creato per le messi l’erba/ pel dono della terra da seminare/ d’energia interiore-pane da spartire/ in un vivere onesto con l’altro» [La sinfonia incompiuta, ivi, p. 82].

Ma devo ritornare soprattutto alla stanza bassa cioè al piano terra della villetta in periferia costruita a rate e con risparmi infiniti. Questa è stata il primo osservatorio e insieme laboratorio di emozioni mie, ormai adolescente, e di altri coetanei.

E la grande protagonista di questi pomeriggi diversi era mia madre che nella stanza bassa organizzava recite con le sue allieve, con noi figlie e cugini. Ore di stupore infinito che mi sono rimaste dentro «Nella casa delle tende/ là si recitava sempre/ e lei madre-magistra-regista/ era burattinaia di una compagnia/ d’attori stravaganti, ognuno al suo comando/ sprigionando insieme un magma/ prorompente dal sipario di cretonne» [La stanza bassa, cit.].

E là nella stanza bassa ho seguito le orme di mia madre facendo teatro con i miei coetanei, poi sono diventata burattinaia per mio figlio, i suoi cugini e amici. «Ma per te, bambino, serbai/ dall’estro delle cose/ limpido un angolo di meraviglie… ove burattinaia rinascevo per te Andrea Federico» [Ib.].

E ho continuato a organizzare a casa e a scuola feste e recite. E di tutto ciòrimane il mio amore per il teatro. Ora in questa particolare atmosfera familiare si è sviluppata la mia creatività, in particolare nella stanza bassa. Una creatività intesa come capacità di trasmettere in modo originale argomenti diversi.

Hanno contribuito a svilupparla anche i miei studi umanistici, la mia passione per i programmi radiofonici e per la lettura, elementi che permettono di ricreare in libertà situazioni fantastiche ed altro. E da insegnante, come ho già detto, ho seguito ancora questa mia vocazione dando spazio a varie forme di creatività: teatro, lezioni gestite dagli alunni, in particolare su tutti gli aspetti culturali del Novecento.

Ma andando alla scrittura io l’ho sempre amata come desiderio di avvicinarmi agli altri: ne sono testimonianze lettere, biglietti scritti in occasioni diverse in particolare a mio figlio, come se la parola scritta potesse esprimere in maniera più partecipe i miei sentimenti di gioia, dolore ecc. D’altra parte anche nei miei versi c’è sempre un tu a cui mi rivolgo: «E tu/ conducimi al sempreverde…» [Per colli e cieli…, p. 39] e A Tindari parlo come se fosse una donna: «Ti guardo/ in altre sere di malia/ ma remota appari tra veli» [A Tindari, p. 13].

O perfino ricorro a epistulae come mio genere poetico. Penso quindi che questa vocazione alla scrittura in genere e poi alla poesia sia una delle tante facce di un poliedro quale è la creatività sviluppata in me dall’ambiente in cui sono nata ed è avvenuta la mia prima formazione.

2. Hai sempre scritto o qualche esperienza è stata determinante perché tu proiettassi all’esterno la tua interiorità?

Come ho già detto, scrivo da sempre (genere epistolare – filastrocche per mio figlio – appunti di viaggio), ma il mio scrivere in versi è nato improvvisamente quando ho avvertito nella mia casa-sfera il presagio di qualcosa che stava per accedere, quando la paura ha turbato l’usuale procedere delle cose e sono entrata nel tunnel del dolore, come si può avvertire credo in questa poesia:

Io petalo piuma fiore

Dentro in antico coccio
schegge di pruno
farfalle di pesco
sogni di primavera
a ruvidi stecchi librati
senza più estive promesse.
Fuori nevica l’albero
piume d’uccello
e corolle stroncate
da vento crudele
che non lascia fiorire
attese raccolte
nel calore del cuore.
Io petalo piuma fiore
ora in turbine pazzo di dolore.
Dimmi, ti prego,
nel tepore segreto
si potrà preparare ancora
nido di nuova gioia?

[Fragmenta, p. 112]

Un modo per trovare conforto nella scrittura purificatrice e negli altri che ascoltano.

3. Quando ti senti maggiormente ispirata nella gioia, nel dolore o in altre situazioni? O ci sono luoghi particolari per la tua ispirazione?

La mia poesia è nata dal dolore come ho già detto e spesso in analoghe situazioni si è rivelata, si rivela come urgenza interiore di catarsi, terapia della sofferenza, conforto speranza per me e per gli altri che leggono (così mi dicono).

Ed ecco che alla morte di mia madre è stata per me proprio una terapia scrivere Sottovoce a mia madre quadernetto inedito in parte. «Ci sarà un dove/ splendente di luce/ acceso di sole:/ là strappate le maschere d’argilla,/ ci parleremo liberi col cuore. Ci sarà questo dove/ corona dell’esistere./ E la festa non avrà fine» [Poesia riportata anche in: Dell’azzurro…].

Ed è un modo di continuare il colloquio tra chi rimane e l’amica che ci lascia:

Commiato

Poter fermare
quell’attimo
in punta di vita
e ridirti, amica,
immutato ancora
il mio bene
pur nell’ora più greve
e sentir spuntare
i fiori
in fremito-risposta.

[in: Dell’amicizia…, p. 56]

E così pure:

Nel vento

E ricordi Laura
quella fuga nel vento
dal casale
dal giogo delle abitudini
quella fuga
nel vento dei girasoli
– un sogno negato sognato –
giù verso il canneto
l’ombelico di quel mondo
l’alveo del fiume oscuro
vita che scorre-mistero
l’arcano del dopo crudele?
Ma allora fu solo
tuo gioioso momento
con Massimo nel vento.
Non provò il mio cuore
moti rivali
ma fu con te-entusiasmo.

[in: Fragmenta, p. 27]

Ma diviene anche piacevole esigenza quasi fisica di cantare la vita cogliendo l’attimo di eterno riproposto dalla natura. Da Per colli e cieli insieme mia euganea terra, «[…] Topinambur esotico suono/ che a danza ci muove/ nel sogno del giallo […] dono tardivo/ d’estate matura/ ancora viva/ in canti intarsi […]./ Ma beati all’eterno/ che in attimi si svela/ già siamo fiori di luce […]/» [in: Per colli e cieli…, p. 24].

E così noi abbiamo l’illusione di vincere il pensiero della morte che l’autunno ci porta. E ancora:

Stupore d’ali

E uccelli infiniti sui fili
vivace stazione di attesa
di quel fischio dentro
insieme a migrare
nel rito che s’eterna
a mutare radici.
E ancora il presente
è tempo di ieri iterato
che già s’infutura.
In noi rimane l’attimo
stupore di un filo
d’ali infinite
insieme raccolte
quasi dischiuse.
Un attimo ancora.

[Ivi, p. 42]

Diviene esigenza di cantare il miracolo dell’infanzia: «e prodigio quel tuo computer/ di tenera carne: programma produce meraviglie./ Mia canarina cantarina/ in una gabbia di sole/ viva nell’inconscia gioia di vivere./ O forse la tua linfa già vibra/ gemmando dentro emozioni/ ai nostri sicuri raggi d’amore?/ Sento linfa spenta di canti/infanzia bruciata in deserto d’affetti» [Briciole, inedito].

Esigenza di cantare anche la forza dell’amore: «[…] Tu, foresta di castagni i più dolci/ favi di nettare offerti/ da braccia morbide di fronde/ ove sempre avvolgo e rotolo/ il mio cuore così ardente/ a parlarti con segrete rime/ istanti rapiti al mondo […]» [in: Iter ligure, p. 40].

Diviene esigenza di ricordare figure, luoghi, sentimenti, esperienze del passato stratificate e lentamente ora riemerse in un linguaggio proiezione del mio personale vissuto e anche del lessico familiare, esperienze che così diventano parola poetica.

Poi ci sono i luoghi dell’anima in cui più mi sento in simbiosi con la natura, ritrovo l’uomo-storia nel suo procedere, risento la voce dei grandi poeti. Ecco in A Tindari l’incontro con la Sicilia di Quasimodo: «A soave parola del poeta/ da un profondo ignoto/ allora tu sorgevi/ nuova al mio cuore/ visione di venti e magici suoni/ di rupi pensili sul mare, evocata con dolce maliconia/…e tu mi ritorni morbida in questa sera-ametista/ invocata terra di poesia […]» [in: A Tindari, p. 40].

E in Per colli e cieli insieme mia euganea terra risento la voce del Foscolo, l’eco di San Benedetto «[…] Miei colli/ desiato rifugio a poesia:/ ancora pei sentieri Jacopo/ invano a Teresa recita amore./ Echi lontani, vivi a svanire mai/. E dalla Parola vinto s’arresta/ il Tempo e si condensa nel silenzio/ di mani accordate/ sulle vigne e sui codici miniati/ di voci oranti chiuse/ nell’armonia del sacro canto […]» [in: Abbazia di Praglia, in: Per colli e cieli…, p. 40].

In Iter ligure ritrovo la Liguria di Montale e Sbarbaro. Leggo qua e là da Al poeta: «D’agave, poeta, è il nostro giorno/ radicato così allo scoglio irto/ nel delirio mai finito d’azzurro/ struggente amore del vivere… D’agave oscillante anche nel sole…/ difesa dalle forti sue radici/ fino ad aprirsi in candelabro/ di corniola-idea pura di fiore… fino a chiudersi nel respiro estremo… un morire di speranza/ nel virgulto nuovo,… Vita a perpetuarsi nel ciclo eterno» [in: Iter ligure, p. 34].

Tutto ciò che amo della mia casa-cuna, della casa-sfera, tutto ciò che scopro dai miei diversi laboratori di osservazione, è occasione di poesia purché quella scintilla di stupore accenda il magico profondo che in me si apre in una colata di parole che dicono la mia emozione.

4. Quale rapporto tra la tua scrittura e la vita?

Stretto è il legame fra la mia vita e la mia poesia: l’una vive dell’altra. La scrittura si nutre della vita che esonda in me fuori di me nelle sue molteplici forme.

La mia vita ritrova se stessa nel fare poesia, meditando sul dono dell’esistere sui rapporti umani, sulla consolazione della natura e dell’arte, del mito, della memoria. In particolare esalto, come già detto, il dono dell’amicizia, a cui ho innalzato un altare ricordando trent’anni di amicizia con una mia collega, nella scuola, con le nostre famiglie. E ricostruendo questo spazio-tempo con il novenario per renderlo quasi leggenda, ho superato la sua morte e ho ritrovato un inatteso equilibrio interiore. Ecco alcuni versi su un nostro soggiorno montano: «Mai ci fu ora di amicizia/ uguale tra noi e la natura/ con la gioia dentro accanto/ che rara così si respira/ età d’oro della vita/ nel dopo sempre fabulata/ come tempo senza tempo/ leggenda solo/ delle Dolomiti agordine» [in: Dell’amicizia…, p. 27].

Scrivere mi dà armonia ed energia le stesse che provo quando cammino per i miei Colli Euganei. Scrivere è anche momento di conoscenza mai esaurito di me stessa, degli altri, nella ricerca perenne del senso della vita. «Sono una donna/ che seduta sul molo a Monterosso/ nell’aria muta di colori,/ si dondola in pensieri con le barche/ poi raccoglie la sua anima dal mare/ e dal sole attende risposta chiara» [in: Iter ligure, p. 33].

E altrove chiedo: «[…] non rapitemi l’orizzonte dei sogni/ cintura splendente di gemme/ che regge il fuoco del mondo/ che ci trattiene sospesi/ acrobati felici d’infinito/ gli occhi bendati d’immortalità,/ ché il tempo impietoso/ avanza dilaga devasta/ l’attesa di un valzer mai finito» [in: Fragmenta, p. 115].

E sul senso della vita sostengo: «L’amore è la luce d’oro/ leitmotiv che tutto percorre l’universo […]» [in: Per colli e cieli…, p. 55] e definisco la memoria «linfa di vita per voi che leggeri andate a sforare il futuro» [Ib.]. E questo alla fine del mio viaggio collinare.

E in Fragmenta di fronte all’Empietà dei media per la vita e la morte, di fronte al progresso che sfugge all’umana briglia, affermo l’attesa di un nuovo umanesimo e la riscoperta quindi del valore-Parola. Sento talora in questo ricerca come un migrare dell’anima verso luoghi sempre nuovi del pensiero, dello spirito in una tensione verso il divino a cui mi rivolgo: «[…] Dio, solo così in umiltà di petali/ ti dico l’anima mia grata […]» [in: Fragmenta, p. 111].

5. Quali sono i temi ricorrenti nella tua poesia?

Ho già evidenziato alcuni dei temi ricorrenti nella mia poesia: la casa, gli affetti, la natura, i luoghi. Mi soffermo ora sui contenuti dell’ultima raccolta Fragmenta, Marsilio, 2006. Dominante è la ricerca sugli archetipi della vita e della morte vissuti in una tensione verso il bello, nutrimento dello spirito, verso il mito come luogo ideale, verso l’attesa come tempo miracoloso. E questo in un rapporto continuo con le creature e con il creato, rapporto capace di rivelare la realtà dell’anima e della natura. È quindi un riconoscimento di segni che possano confermare il valore della nostra identità oggi minacciata. Da Introibo: «Tramonta l’ora spenta di corallo sul muro sgretolato/ dal nonsenso delle cose, sullo specchio della beltà/ ormai incrinata da bagliori sinistri inverecondi […]» [Introibo, p. 5].

Il tutto polarizzato sulla figura femminile come energia di contrasto e difesa dei valori autentici dell’esistere. Evocata come vestale della casa,dell’amore,della parola in varie stanze e rituali, specialmente nella maternità «E questa maternità che concentra/ nel suo rotondo d’uovo immenso/ il senso dell’esistere/ si ricolma ancora viva inesauribile/in diversa attesa della tua persona» [in: Fragmenta, p. 91].

6. Il tuo linguaggio e il labor limae

Il linguaggio, come già accennato precedentemente, nasce sempre da un magma profondo ed è l’insieme di tanti linguaggi, familiare, culturale in particolare poetico, appresi nel tempo fusi in un amalgama personale perché è il tuo vissuto che si fa parola, parola capace di tradurre spontaneamente in immagini i moti dell’anima. Ed ecco l’uso di voci latine (prae-senteantiqua matercotidie…) o francesi (ma tantemon amiedans l’espace d’un matin…) o di espressioni miste (tecnoafasia interiore). Ecco interventi diversi filosofici, artistici, storici ed altro che rendono il linguaggio più pregnante e più universale il discorso interiore. Il tutto controllato dal pensiero vigile nella ricerca di quella parola unica che esprima il concetto in assonanza con l’insieme. In particolare si notano nello stile – come rileva anche Nazario Pardini [Cfr. N. Pardini, Prefazione a Daniele Toffanin, Iter ligure cit.] –, abbondanza di aggettivazioni, un lessico vario e suggestivo, il ricorso a univerbazioni, a unità sintagmatiche di aggettivo e sostantivo, l’uso di accorgimenti tecnici quali ossimori, sinestesie, geminatio, enjambement, assonanze e invenzioni fonicosignificanti.

Il verso nasce libero con l’alternanza di senari, settenari ed endecasillabi, modulato in modo tale da rendere le vibrazioni dell’anima.

Il ricorso al novenario nella silloge Dell’amicizia – my red hair vuole realizzare una atmosfera mitica, un tempo senza tempo in cui avvolgere questa storia unica di vita. Un’operazione quindi ad ampio raggio nel dare corpo al patrimonio interiore, sempre sorretta dal labor limae che non è artificio, ma una meditazione ulteriore sulla parola in una continua ricerca di verità.

7. La poesia può oggi migliorare il mondo?

Dato che considero la poesia uno strumento per comunicare, penso che oggi più che mai si possa con essa diffondere i valori in cui profondamente si crede, proprio con la speranza di dare un contributo per migliorare il mondo, con la certezza di confortarlo. E così come dico ne La stanza bassa continuerò ad «elevare altari di poesia/ sull’orlo del naufragio dei giorni/…con l’energia-parola/ che solo di e mail/ lo spirito è stella collassata/ luce che muore» [La stanza bassa, cit.].

Grazie tante cara amica per aver reso ancor più affascinante e stimolante l’approccio al tuo mondo d’affetti e di pensieri.