Silvana Serafin – Diario pandemico al vento dei fiori

Fin da tempi lontani il diario, una delle basilari e semplici forme di scrittura autobiografica, registra la quotidianità privata, intima che, tuttavia, finisce con l’annotare fatti storici e spaccati sociali. Inizialmente lo scrivono soprattutto le donne riversando sulla pagina bianca sensazioni ed emozioni, nate dall’osservazione del mondo circostante o dalla necessità di penetrare negli interstizi del sé per dare significato alla propria esistenza. È un modo per ricavarsi lo spazio in cui rifugiarsi, trasgredendo le leggi inflessibili della vita reale, divenendo sovrane dell’agognata stanza tutta per sé.

È anche un mezzo per comprendere il mondo, per ritrovare il filo conduttore dell’esistenza, per cogliere le diverse sfumature dell’agire, per ricuperare dalla nebbia della memoria volti sfumati, affetti indeboliti dal trascorrere degli anni, per apprezzare l’unicità della nostra vita e della nostra storia. Si tratta di considerare, cioè, la propria identità non come la definizione di un essere unico, singolare, ma come una somma di esperienze, di determinazioni sociali, storiche, sessuali, linguistiche in continuo dialogo con il mondo passato e presente, con la natura, fonte d’incanto e di stupore.

La realtà di riferimento, infatti, è costante motivo d’ispirazione per riscattare sensazioni perdute, le medesime che scaturiscono dalla lettura di Diario pandemico al vento dei fiori. In un alternarsi di poesia e di prosa, la scrittura scorre agile affidandosi a una logica che nega e al tempo stesso afferma l’incommensurabilità tra le due forme letterarie, opponendosi attivamente alle relazioni dominanti tra l’una e l’altra. Viene messa in atto una poetica basata sulla distanza e sulla trasformazione di senso, attraverso una serie di significanti che creano un sistema di equivalenze tra piani verbale diversi, trasformando il discorso poetico in discorso narrativo e viceversa. In tal modo Maria Luisa Daniele Toffanin, priva di costrizioni, esprime in piena autonomia il proprio vagare nei meandri della memoria e della fantasia, ripercorrendo gli anni che vanno dal 21 febbraio 2020 al settembre 2022, in quel lasso di tempo in cui «si sta sospesi/ in un limbo/ come foglie d’autunno» (p. 101) e che  «ci ha tolto l’ultima illusione di immortalità, rivelandoci in modo brutale la nostra fragilità » (p. 12).

Nelle esperienze di solitudine e di abbandono create dalla pandemia, le tecniche utilizzate trovano coesione e unità nell’intrinseca logica poetico-narrativa, retta sulla relazione di parole, legate in una catena di causa-effetto, il cui abbrivo è dato dall’osservazione di oggetti quotidiani, di fiori, di panorami, di colori e di suoni. Sul duplice binario dell’individuale e del collettivo si fa strada la ri-costruzione di un archivio, indispensabile per colmare il vuoto dell’assenza, per ripercorrere il doloroso cammino della separazione e  per potere paradossalmente trasmettere un messaggio di speranza:  «Ascolta, è da sperare ancora nel nuovo giorno» (p. 27),che si apre a un insieme rassicurante. Questo leitmotiv ripercorre l’intero volume: accanto alla voce narrante, s’innalzano altre voci come quelle di amici e di parenti che comunicano da lontano, «Voci voci sul filo del telefono/ ricupero di felicità/ quota minima ora concessa/ in orizzonti di comune speranza/ colmati di primule e viole» (p. 24). Oltre al telefono, esse emergono anche attraverso uno strumento ormai desueto, come la lettera scritta dall’amata nipote Giulia per porgere gli auguri alla nonna il giorno del suo compleanno, o la corrispondenza intercorsa con numerosi amici o quella rivolta a coloro che se ne sono andati e il cui ricordo si ravviva nella scrittura.

La confessione autobiografica è incontenibile, retta da tematiche ricorrenti quasi ossessive: vita e morte, presente e passato, amore, memoria antica ‒ costanti che caratterizzano l’intera produzione poetica di Maria Luisa Daniele Toffanin ‒ offrono lo spunto per espandere il discorso personale a divagazioni metafisiche. Gli oggetti quotidiani perdono l’identità reale e si trasformano in momenti di rimembranza, in epifenomeni delle intime aspirazioni individuali e collettive, per esaltare una storia condivisa nella volontà di rendere consistente il passato e di ricuperarne l’eredità culturale attraverso manufatti creati da abili mani come, ad esempio, quelle di zia Pina o della nonna…

Non meno importanti sono la fede, la natura, la speranza nel futuro condensata nella rinascita dell’albicocco il cui primo fiore è «premura di vegetale certezza/ presenza iterata nei riti/ al delirio virale del vento» (p.15). Nel domani che ritornerà a palpitare, cadenzando il trascorrere del tempo in un susseguirsi di giorni e di stagioni, il linguaggio acquisisce una funzione emotiva e simbolica. Per meglio dire, attraverso l’evocazione, la poetessa  stimola emozioni, proprio come sostiene Platone, e riporta nel lettore il riferimento all’oggetto e ai suoi elementi costitutivi. Questi ultimi conducono all’unità della terra e all’individuo che si espande nella «natura-stupore sempre» (p. 107) e dove attinge  conforto,  rinnovata speranza nel futuro. Eloquenti sono i versi che seguono «Brillerà ancora per noi la sera/ nell’arazzo carminio di un tramonto fiorito/ in adagio di rose purpuree ireos vellutati/ miosotis vaganti nel profumo di zagare// brillerà nell’attesa della notte stellata/ di candide margherite dormienti/ nel mio prato in un gioco musicato/ a petali d’amore» (p. 129).

Raffinato è il gioco poetico che traspare con grande maestria in versi pregnanti e ricchi di suoni e di colori, capaci di colmare le assenze, dando risposte ricuperate dalla memoria con  pazienza e con amore in un coerente intreccio di identità e di ricordo, di natura esterna ed interiore, di tempo personale e tempo storico. Tuttavia, nel momento in cui l’immagine penetra nella coscienza, nel bergsoniano tempo soggettivo della coscienza da intendersi come “durata”, il tempo si fa irreversibile frantumandosi in istanti unici.

Per non cadere nella trappola della dispersione, riporto  le tredici sezioni che costituiscono il calendario pandemico e che rimandano direttamente alle diverse  tematiche. Dopo la prefazione di Stefano Valentini, seguono: Introduzione (composta da 8 testi),  Parole e gesti (11), Sostanza affettiva ed altro (6), Dad e altro (4), Scuola viva (7), Reinventarsi la vita. Il progetto camicie (10), Altro modo di reinventare la vita (3), La preghiera (15), Figure di riferimento (12), La benedetta estate (38), Tempo di vaccini (19), Percorso a ritroso ed altro nella primavera ucraina (21), Verifica. Se la parola s’accende tra noi… Lo squilibrio delle parti all’interno del volume rivela i livelli di ansia e di preoccupazione per i tragici avvenimenti che sconvolgono i nostri giorni, tra epidemie e guerre, di gioia e di solidarietà nel condividere l’impegno sociale, l’amore per familiari ed amici, la certezza del passato, la sospesione del presente, «il mistero del vivere del morire» (p. 143), la speranza di un domani reso migliore dalla poesia e in senso lato dalla scrittura «grande  terapia per l’anima più ispirata dal paesaggio, dai nuovi rappori umani» (p. 112).

In sostanza, poesia e prosa si alternano rivelando la propria complementarietà per fornire del medesimo tema una visione d’insieme, costantemente rafforzata dall’evolversi della storia, all’interno di una fitta rete di relazioni che spostano l’attenzione dai fatti al contesto in cui sono inserite. Ogni cosa è afferrata, compresa, udita e nominata e l’esperienza artistica si carica di un carattere totale cercando di captare l’effimero, di ponderare sulla condizione umana considerata in sé e nel suo carattere sociale. Spazio e tempo costituiscono, pertanto, un unicum ‒ secondo la ben nota teoria bachtiniana del cronotopo ‒ in grado di offrire una visione globale degli avvenimenti fissati in successione cronologica e delle aspettative di ogni essere.

Pertanto, Diario pandemico al vento dei fiori va assaporato in ogni sua pagina in quanto conquista il lettore, non tanto per l’accuratezza cronachistica anche se documentata e minuziosa, quanto per la libertà d’immaginare, di pensare e di sentirsi vivi, per convertire le esperienze negative in valori unificanti e per modellare la propria identità attraverso spazi differenti.

Silvana Serafin – Università di Udine