Selìm Tietto – Per colli e cieli insieme, mia euganea terra

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Punto di Vista nr. 36/2003

È molto raro incontrare versi così puliti, così anche formalmente ineccepibili, così densamente fascinosi, coinvolgenti e al tempo stesso attenti a filtrare luoghi, situazioni, sentimenti per restituirli segni e atmosfere di un “rito che s’eterna | a mutare radici”. Radici dove “il presente | è tempo di ieri | iterato che s’infutura” e che, pertanto, creerà “trame di nidi | per voli altri di vita”. È luogo che apporta significato e che contemporaneamente transignifica, è poesia che si dà a creazione e a ripetuta ri-creazione, dove le modulazioni vengono rivelate dal verso (da ogni singolo verso) e dove la visione rispetta l’etimo profondo che la fa teoria (thea-visione, radicale ghor-vedere). Anche il silenzio è perciò abitato, e genera prospettive di contemplazione, e la penetrazione dell’immagine descritta si rivela scoperta di un invisibile nel visibile, con un intrinseco ordine che esprime periodi di grazia. Né davvero importa allora la categoria dell’emozione di caso in caso prevalente perché la filosofia tende a sofia: “il Tempo si condensa nel silenzio | di mani accordate | sulle vigne e sui codici miniati”.

È un canto, questo, che elabora attraverso la parola nova una terra antica, coniugando in reciproco riconoscimento possesso affettivo e gratuita oblazione e implicitamente varcante orizzonti dati per incontrare il segreto guizzo (ben percepito però) di un ordine altro, di scale altre, che non possono mai essere compresi a livello mimetico, grafico, grammatico. Per questo ognuno appunterà particolari attenzioni e asterischi. Per Mario Richter, ad esempio, “le cose sono portate alla vita tramite un vigoroso atto d’amore”; per Luciano Nanni, va sottolineata l’integrazione tra conoscenza tecnica e “fervida inventiva pregna di significato esistenziale”; per Andrea Zanzotto è “urgenza di laus vitae”; per Gerardo Vacana “in questo libro […] c’è tutto il ricco, multiforme corredo del mito orfico”, mentre Silvio Ramat farà risaltare “il novenario, di rintocco pascoliano, tradotto in terra euganea”. Come si può notare, ognuno apporta la propria tessera, estrae la propria quota di verità: ed è bene così, poiché si ha di fronte poesia non agevolmente aggettivabile, e il farlo in termini tassativi suonerebbe riduttivo, anche nel plauso.