Paola Pampaloni – La casa in mezzo al prato in Boscoverde di Rocca Pietore
La casa in mezzo al prato in Boscoverde di Rocca Pietore
da: LXXVIII Quaderno di PragliaCenacolo di poesia“Insieme nell’umano e nel divino”18 gennaio 2019
Consonanti accordi-ricordi con Marisa nella casa in mezzo al prato
Immersa nella lettura della raccolta poetica “La casa in mezzo al prato”, di Maria Luisa Daniele Toffanin, i noti accordi-ricordi di un “prima” di dolcezze montane, in luoghi altri, per me, da Rocca Pietore, mi balzano in cuore come pupazzi a molla da una scatola a sorpresa; né mi è possibile frenarne l’impeto.
E il singhiozzo improvviso è in me gioia di caro ritorno: del tepore odoroso del latte, del soffice andare pel bosco, del greve accalcarsi dei mughi.
Percorre Marisa, nel suo testo, un cammino non solo d’anni, ma di folti pensieri; fili conduttori di un’esperienza interiore vissuta, tuttavia, in conviviale processione, che da “la prestanza di prima” la conduce “a quota per noi ormai elevata”, fino all’inatteso “arboreo lutto” dei recenti eventi.
Quasi in fusione panica con una natura che è epifania dell’anima e con la quale, con stupore disincantato ma passione di fanciulla, entra in assidua risonanza, Marisa rievoca suoni, sapori, soprattutto colori, per potersi concedere ancora “uno scampolo alfine di gioventù”, per far fronte alla devastazione dell’oblio, al lacerante dolore di perdite cui non si rassegna senza rimboccarsi le maniche ed andare oltre.
Così, “ribelle coscienza del mio rapido passare” ella affida la memoria a Giulia, sua “capriola”, ad Alex “scoiattolino” affamato d’esperienze, alla gioventù fuggita dai luoghi delle avite memorie, per procurare a se stessa “ancora voli di vita” e donare ai posteri altre occasioni lungo “la strada ormai murata ai prodigi dal meccanico progresso”.
Dunque il dramma umano, che in queste pagine vive mimetizzato dalla suggestione affabulatoria, non si consuma nel ripiegamento che mozza le ali alla speranza, ma trova consolazione nel trionfo di una natura che, titanico dono, quale fuoco contro le tenebre, risarcisce l’oltraggio della consapevolezza e del”bene perduto”.
Così, non v’è quasi composizione in cui non compaiano il verde, l’azzurro, il lilla, il giallo, il turchese, come il bianco, l’ocra, il carminio, il pervinca, il nero ed il rubino, l’oro e l’argento.
E quand’anche non si faccia ricorso a simili sostantivi, ritroviamo note di colore nelle aggettivazioni: verdeggiante, luminoso, plumbeo, smeraldino, candido, corallino, bigio, vermiglio.
Altrove le tinte affiorano nel richiamo alla rosa canina, al ciclamino, all’anemone, all’asclepiade, all’erica, alla genziana, all’epatica, al colchico, ai ribes, ai mirtilli, ma anche al vespero, all’iride, alla cincia, al pettirosso, al ramarro, alla ghiandaia, agli occhi azzurri capaci di catturare ancora.
Ho letto Marisa con il capo affondato nel lucido frinire dell’erba.
Ho letto Marisa china sui torrenti che liquefanno i cieli.Ho letto Marisa aggrappata alle nubi di passo.
Ed ho trovato conferme, inviti all’attesa, alla pienezza di vita, anche alla nostalgia.
Ma Marisa non fa del passato una reliquia; esso è lievito che fermenta il presente, poiché nulla può tendere al cielo senza avere inghiottito la terra.
Tuttora frequento le nostre valli, i nostri sentieri montani, la bianca dolomia del Monte Cristallo, delle Marmarole, del Sorapis, la singolare audacia delle Tre Cime di Lavaredo e talvolta m’imbatto nella stridente proposta di infelici caricature del passato che rivelano solo il patetico intento di attrarre i gitanti.
Non così si perpetua la tenacia di un dialogo che, divenuto monologo, interdice d’essere “parte ancora viva dell’eterno miracolo “.
E chi non ha il conforto dell’ascolto, chi vede disattese le proprie necessità profonde, chi cova realizzazioni mancate finisce per impazzire ed insorgere.
Allora rompe gli argini, devasta il bosco, solleva flutti, frantuma graniti con irruenza incontrollata e devastante.
Eppure sarebbe così semplice. Ce lo suggerisce Marisa stessa che esprime, col suo canto, ciò che la natura le detta, ciò che la vita stessa, la “vita fringuella”, le chioccola all’orecchio.
Ed è incredibilmente suadente, tanto che ella finisce per credere che il suono che ha catturato e che ora esce dalle sue labbra sia davvero il suo (Zufolo del pastore).
Ma il dialogo dell’autrice, lungi dal consumarsi esclusivamente con l’ambiente montano, è intrattenuto, con un’attenzione che nessuno strumento tecnologico sa distogliere (smarriti nella frenesia di social e messaggini), anche con coloro che hanno popolato (Care Mie Assenze ovunque in me presenti) e popolano i suoi giorni in quei momenti dedicati alla vacanza che non interrompono l’affettivo quotidiano ma lo alimentano e ne sono i garanti.
E ciascuna delle figure che Marisa presenta è allogata come una pietra di pregio nel castone che le compete per varietà e taglio ma, nel contempo, è parte di una collezione, un tutto coeso (l’insieme si compatta) dalla fatica e dal gioco, dal coraggio e dalla pazienza, dalla spontaneità e dal rispetto, dalla solerzia e dall’attesa, dalla generosità e dalla gratitudine, dalla rassegnazione, quando occorre, e dall’intraprendenza ma soprattutto dalla fede nel “Provvido divino cosmo che in abbraccio di Luce illumini il dolore di ogni umana storia con offerte… Sempre”.