Marco Baiotto – Appunti di mare
“Amore all’antica cala mi chiami | e sempre il teso respiro mi plachi | con visioni di mare-cielo e | terse sillabe dolcemente dischiuse: | più sereno l’andare insieme così | nell’arcano cobalto | che bruma l’anima d’inquieto”, questa è, in buona sostanza, la ratio filosofica ed esistenziale a sostegno e fondamento di Appunti di mare, raccolta di poesie che include le sillogi A Tindari e Da traghetto a traghetto per non morire.
La natura è vastità che incute terrificante meraviglia, che spaesa la ragione prostrandola in trepida supplica rivolta a “quella bussola interiore | puntata su orizzonti sconfinati | in un’avventura unica”, affinché “ di noi sia traccia solo su rotte d’Amore”.
La poetessa si sente investita dalla responsabilità missionaria (intesa come pratica di auto, e al contempo universale, aiuto e orientamento interiore) che la attrae magneticamente (“Preziose memorie | per accendere limpido il presente. | Ne sarò vestale”), per mezzo dell’amorevole lume o fiaccola amorosa, “a indagare il mistero”, quelle “grotte d’altri umani arabeschi | l’acquario minuto dei nostri anemoni”.
Sono i luoghi marini (Tindari e Lampedusa, in particolare), visitati nel viaggio fisico e metaforico, con le loro bellezze aspre e fatali, eteree ed evocative, ad alimentare questa visione finalistica; tuttavia ci si vorrebbe, in questa sede, allontanare dall’aspetto “paesaggistico” e dalle sue implicazioni poetiche, in quanto già ampiamente e magistralmente indagate da Stefano Valentini nella prefazione all’opera.
Diciamo soltanto che si tratta di bellezze che più si fan aguzze d’incerti destini, più alimentano una sorta di reazione ascetica (“uno stile di vita quasi vicino all’atarassia”, come ci dice la stessa autrice) nei cuori degli uomini che sussistono in questo scenario il cui filmico scorrere pare rallentato, quasi screziato da impurità e graffi sulla pellicola non restaurata del ricordo, eppure così densa di suoni e colori e, proprio per questo, quando non indugiano in retoriche gabbianesche ed esplosioni demografiche di ali e vele, autentici e pungenti.
Splendori mitici che affascinano l’autrice, e per la proprietà transitiva che ella sa infondere attraverso le maglie versicolari oculatamente intessute, anche i lettori, avvolti da un’aura di sensualità rituale che affiora come geode d’aria dalla intensità del blu più profondo ed abissale, per sbocciare alla superficie dell’immaginazione accesa: “E a riva si andava | complici del buio | adorando l’antico mare | vivo di luci e voci, | come selvaggi immobili nei riti | con onde fruscianti sulla pelle”, “Forse audaci ninfe e delfini | usciti da musive acque | a far festa alla luna piena?”, o ancora “Roccia di antiche rughe sei | generata da profondo Nettuno. | Altare per parola di dei. | Ispirano | profumo di zagare | e sogni di arance d’oro | a notti su dirupi senza luna. | Invocano | catarsi per l’amata terra | segnata da dorsali | di storia oscura | lacerata da voragini | di nuovo sangue | e offrono coralli d’aurora | a vergini conquistatori”.
La poetessa vive della sua linfa poetica, generata dall’astro ispiratore della Natura attraverso la fotosintesi creativa, diversamente abile alla vita secondo i suoi talenti, in uno scontro che oppone parole ordinatorie al titanico “dio barbuto custode del tempo”, quasi porgendogli in primordiale sacrificio, “scintille a noi d’infinito | da tenere deste dentro | insieme da consumare | in fuochi d’entusiasmo | attimi-vita-irripetibili”, per allontanare da sé timori taglienti che le aleggiano alla mente: “Io sono scoglio | che incerto del vivere | si agita invano | sono isola | che lontana vaneggia | terra ferma di quiete. | Sono ala franta | tradita dall’aria | sono cicala riarsa | senza canto”.
Con vena che perigliosamente sfiora, tuttavia senza eccesso, l’autocelebrazione, delineando nella lirica Forme-suoni-immagini, pregevoli figurazioni emotive di sè, ella brama una fusione interiore, una sorta di rappacificazione atomica tra proiettili quantistici di realtà impazzita e separati da un cosmico Big Bang: “Sono una goccia salmastra | dal vento sollevata sulla roccia | che con guizzi d’iride | chiede del suo essere là | perla di luce riflessa. | Sono l’onda più ardita | inquieta l’irsuta criniera | agitata dall’abisso | arcano insoluto quesito. | Sono l’onda piatta-pecora d’acqua | che là nella cala bela | al suo insicuro vivere | ma sullo scoglio presto tutta si terge | dalle sue scorie intime purificata. | Sono l’eco smeraldo | dell’acqua più pura | che invoca il tuo corpo | all’amplesso del mare”.
Una certa sensibilità generale, quanto animalista in particolare (in un accezione sensibile e non abbarbicata su dirupi fondamentalisti, talvolta, peraltro necessari) pervade alcuni passaggi.
A questo proposito, il primo estratto su cui merita portare degno approfondimento é quel: “Fu allora che un aski” (sic, peccato per il refuso) “più mite di altri | improvviso mi leccò piedi e gambe | mi posò fraterno gentili zampe | alte sulle mie spalle | con occhi umani e un sorriso | come a volto riconosciuto tra tanti”, passo in cui l’autrice associa junghianamente l’affettuosità dell’animale con il desiderio di riportare in vita la figura paterna (“Certo era mio padre in mutate forme | venuto dall’alto per essermi accanto”), identificando il concetto noto come sincronicità, per mezzo della perifrasi (involontaria rispetto alla premessa?) “strane convergenze vegetali animali”, per poi riconoscere che, al di là delle sue proiezioni inconsce, “Forse gli animali riescono a esprimere, senza parole, quello che gli uomini non sanno o non voglio dire” (noi diremmo, “ammettere”, seguendo le orme di Javier Marìas).
Il secondo aspetto di questa sensibilità (rivolta ai nostri fratelli animali, ma non solo) lo incontriamo quando la poetessa intende mettere in risalto la consapevolezza che l’epopea del mare, così come appassionatamente narrata dai pescatori ad ogni porto, cela contrasti e contraddizioni spesso taciuti, spesso inconsapevoli o ritenuti fatalisticamente inevitabili: “E tu che sul mare | lucido di tonni | trascinavi | la tua casa-immensa nave | in giorni lunghi | senza umani suoni | e solo all’onda alta | attraccavi al molo”, mentre “del tonno tradito | da placide acque chiare | a lui così gradite | che nella camera di sangue | moriva atrocemente | tacevi”, o ancora quando, ricordando Hemingway, “in gara con pesci | tu vecchio che stringevi | nell’amo la forza del mare. | E parlavi parlavi | di prede abboccanti | abboccate al filo dell’acqua | e parlavi parlavi | incantando il silenzio. | Ma la notte che solo eri teso alla lenza | a cogliere con reti di sogni sempre inseguite | ti girò intorno improvviso | un vortice pazzo | e la cernia inghiottì | e la tua forza che era tutta del mare”.
Il terzo passo significativo rispetto al tema poc’anzi delineato, si ritrova nella lirica Lampedusa, in cui l’aspetto microcosmico della vita animale (di conigli e tartarughe) e di quella vegetale (di “ombre-vigne minute | fichi contorti e carrubi negli orti”), si uniscono a rappresentare il macrocosmo dello spirito-entità dell’isola, con rara delicatezza: “Sei tenera di orme segrete: | a sera un soffio di pelo lascia | odore selvaggio nell’aria ovunque e | nell’isola dei tuoi conigli. | E segreto-prodigio hai di uova | appena dischiuse là nella sabbia | riti di vita armonia di natura | ancora difesa da te | gran madre delle careta careta”.
C’è poco spazio, in queste liriche, per il dolore rappresentato con l’intenzione di trasmetterlo empaticamente al lettore (più che altro per scelta volontaria, ci sembra di poter dire, e non per mancanza di profondità di pensiero), malgrado in pochi ma emblematici guizzi, esso si palesi esso come antitesi al sapore gioioso che fa da sfondo a tutta l’opera: “O Lampedusa | quel mare di gabbiani | ora liquida terra | ove galleggiano croci”, o ancora in tutta la lirica Vivono uomini, in cui emerge l’amarezza della vita dura, ma anche selvaggiamente armoniosa, di questi uomini che vivono nella “Magia di quell’azzurro fremito | che tutti li stringe intorno e li invade | nel vivere isolano insieme profondo | in ardui coltivi d’uguali nostalgie | rimpianti e teneri fili d’affetti”, eppure sembrano racchiudere in sé anche il rimpianto caustico e doloroso in quanto essi “vanno amari seminando sale”, fino a quegli “altri uomini ancora | che da amate terre rifiutano il vivere | sospinti da parole di vento -inganno | di caini-nuovi caronti di scafi – | naufragano qui tra gli scogli lucenti | la vita tradita in cimiteri d’acqua”, con evidente riferimento ai migranti che regolarmente sbarcano sull’isola, o, infine, quando l’autrice fa riferimento a “quell’armata acerba di giovani che rischia | muore con sfida dispregio alla vita | nei labirinti della droga”.
Una poesia che trova la sua rappresentazione aforistica nell’espressione “viaggio-volo-poesia”, in cui il viaggio, come spiega la stessa autrice, è “occasione per leggere altre pagine di vita, ascoltare altre voci dagli abissi, dall’etere, cercare risposte definitive agli eterni quesiti, affidate a persone che, al nostro sentire, vivono in una dimensione umana diversa”, occasione che la poetessa affronta come una sfida investigativa, attraverso l’oblò grandangolare della cabina-coscienza con cui si trova a viaggiare sul traghetto delle anime, con coraggio “da traghetto a traghetto, nell’esperienza dell’isola e del mare, a oscillare nel dubbio e a procedere con illusorie risposte, seminando il pelago di infinite domande”.
Nel complesso una poetica che sa offrire, in un contesto di maniera classica, che per questo rifugge scopi anche filosoficamente avanguardistici , diversi spunti lessicalmente coinvolgenti, tanto più apprezzabili quanto più si dimostrano, il più delle volte, in grado di rinnovare, a colpi di sapiente bulino, superfici semantiche, già da molti e grandi autori, più e più volte levigate.