Graziella Corsinovi – saggio Iter Ligure

Iter ligure, la geografia di un’anima

Capita raramente, oggi, di leggere libri di poesie come Iter ligure di Maria Luisa Toffanin, in cui la densità umana e spirituale trova espressione in versi di sinuosa bellezza, di raffinata tecnica espressiva, sorretta splendidamente dalla cifra evocativa di un discorso lirico sorvegliato, attento, classicamente moderno.

Diviso in tre sezioni, “Trame d’Armonia”, “Suoni-Colori” e “Pause”, il volume sviluppa la sua orditura poetica utilizzando il paesaggio ligure come falsariga per un viaggio dentro lo spazio dell’anima, filtrando, nella dimensione psicologica personale, la realtà dell’esperienza e delle vibrazioni del cuore, permeate di dense riflessioni esistenziali.

Se, come diceva Angelo Conti, critico illustre e amico di Gabriele D’Annunzio, ‘leggere un libro è come viaggiare’, il libro della Toffanin è una ghiotta occasione per viaggiare due volte: nella splendida natura della Liguria e dentro il mondo interiore dell’autrice.

Modulato sulle caratteristiche morfologiche, ambientali, cromatiche della Liguria, in particolare delle Cinque Terre, l’iter è anche uno sprofondamento nell’area durativa della coscienza, nei suoi trasalimenti emotivi e nei suoi movimenti speculativi. Adagiando il suo sguardo di poetessa sulla realtà paesaggistica ligure, per riceverne i succhi e restituirli nel fiore, veramente raro, della poesia, la Toffanin disegna di fatto una suggestiva geografia dell’anima.

Se, come sosteneva Goethe, ‘la poesia nasce dalla vita e non dai libri’, il volume della Toffanin ci offre l’esempio luminoso di una poesia nata da un vissuto che, nelle Cinque Terre, si è dipanato, nella sua esperienza di donna, di moglie, di madre, di insegnante.

Conquistata e posseduta dal paesaggio ligure, vi ha aderito profondamente, facendo della natura il fulcro portante di questo splendido volumetto di versi.

A proposito del rapporto dell’autrice con la natura, il prefatore, Nazario Pardini, parla di panismo; ma il panismo implica la dispersione dell’io nella natura, mentre, in questo caso, l’Io poetico domina e conquista la natura, restituendocela trasfigurata dalla dimensione lirica. La corrispondenza di ‘amorosi sensi’ tra l’Io e il mondo della natura si trasforma in perfezione di immagini, in essenzialità espressiva, in cui rigore e precisione dello stile, capacità di scelta della parola, del ritmo, del suono, sostengono il tessuto metaforico-emozionale in liriche tecnicamente perfette.

Ma, come sempre, il modo migliore per rendere giustizia alla qualità della poesia è lasciare parlare i testi: solo così risaltano, immediate, la pulizia, l’eleganza, la proprietà espressiva che riescono a restituirci intatto e sublimato l’incanto della natura delle “Cinque terre”;

Verdi dune sospese
nell’amore
di cielo e mare insieme
senza confini azzurri.
Amore tenero che sa donare
ancora fiori a mazzi
posati sulla roccia aspra

sbordati lungo le pendici
ché anche la terra viva
questo struggimento
che intorno palpita immenso.
Amore vergine
che sa svelare
in celestri trasparenze

lontane vestali apuane
bianchi i ventagli
a filigrane marmoree,

ché anche l’anima avverta
il fremito profondo
dell’universa materia.
E noi echi del miracolo d’amore.

La conclusione, di un solo verso, sembra recuperare la tecnica di chiusura dell’aprosdoketon (effetto finale inaspettato) praticata dai latini e dai greci, rivelandoci la sapienza poetica della Toffanin che, in quella presenza umana –noi echi del miracolo d’amore–, sintetizza, in maniera fulminea, il fremito che percorre l’universa materia.

Analoga abilità di strutturare l’organismo poetico troviamo anche in “Riomaggiore”:

Liscio un fischio alla pelle delle case
ma lacerante il cuore-antico borgo
e un’onda uscita dal profondo
di suoni variegata
tutte voci d’un giovane universo.
Solo eco di canti
da mare e coltivi lontani.

L’incipit è qui dell’amore
sentiero-richiamo
all’andare insieme uniti
all’azzurra vertigine precipite
senza cedere alla malìa
e allo scoglio del vento
ove soffre l’agave alle radici,

a nutrirsi là d’energia e umano calore
camminando nello sciame
che confonde tanto il fiore,
ma inebria di quel nettare il pensiero.

L’inizio –«Liscio un fischio alla pelle delle case»– è onomatopeico, e dimostra come l’autrice sappia utilizzare il lessico per catturare e restituire, come per un’eco interna, il suono del sibilo del treno, attraverso il gioco delle sibilanti e delle liquide, della ‘i’ e della ‘o’.

Anche il tema dell’amore, non è soltanto legato alla specificità della suggestiva natura di Riomaggiore, ma si dilata in simbolo della dimensione psicologica e spirituale di tutti coloro che hanno provato l’amore, quello stato di inebriante smemoramento che esso produce, soprattutto nella prima incantata fase dell’innamoramento, appunto quella condizione magica di amore che confonde tanto il fiore, ma inebria di quel nettare il pensiero.

Non diversamente la lirica “Manarola”, poesia di grande delicatezza e originalità, con il suo incipit straordinario («mano di scoglio inventata / da ignoto profondo […] per l’umana avventura […]») trova (come quasi tutte le liriche della Toffanin) il suo movimento iniziale nel paesaggio oggettivo, ma, come negli Idilli di Leopardi, il paesaggio si trasforma in colore dell’anima, proiezione dell’interiorità che avvolge il reale nel suo assorto stupore.

Mano di scoglio inventata
da ignoto profondo
di vita accesa da energia

per l’umana avventura
sgradinata sull’avara terra.

Mano di case rosate
diafane vele al salmastro
sempre sul vento posate

–fragile nostro esserci
che c’insicura dentro–.

Ma insieme strette alzate
a uguale radice radicate
–noi così altri sradicati–
per non lasciarsi sperdere
dalla furia dell’evento.

Delicato pallido fiore
languore-forza di una rosa
che non cede all’aria al sole
per non sfiorire così
dans l’espace d’un matin.

La bellissima e originale metafora della ‘mano di scoglio […] sgradinata’ (‘sgradinare’, come in altra sede ‘rondinare’, è verbo denominale, di notevole efficacia) si snoda nella visione di «mano di case rosate / diafane vele al vento salmastro / sempre sul vento posato» che apre, come per un approdo naturale, alla riflessione sulla fragilità dell’uomo –nostro fragile esserci–. Dunque, un flusso di sentimenti e pensieri che muovono dal paesaggio per giungere alla riflessione sulla brevità e precarietà della condizione umana.

L’immagine delle «[…] case insieme strette, / alzate da uguale radice radicate» sfrutta l’allitterazione della ‘r’ e la geminazione interna, (radice-radicate) per dare, anche nell’esito fonico, il correlativo della stabilità solida e affratellante delle case, e mette in evidenza come la parola, la metafora, il concetto, nella vera poesia, sappiano e debbano fondersi con il flusso melodico, realizzando un tutt’uno di pensiero sentimento immagine suono.

Le case di Manarola, così solidalmente radicate per non lasciarsi sperdere dalla furia dell’evento, sembrano implicitamente accusare noi così altri sradicati, incapaci di appoggiarci gli uni agli altri per difenderci dal vento della vita e forse, non a caso, il vocabolo evento allusivamente racchiude anche la parola vento.

Un linguaggio più colto, più aulico rispetto ad altre poesie, contraddistingue “Corniglia”; c’è una sorta di rarefazione linguistica, un alleggerirsi del linguaggio nella direzione alta, meno aderente alla realtà del quotidiano, come indicano i termini ‘inesprimibile’, ‘orofiamma’, ‘infimo limite’:

È quando un desiderio
è solo l’orofiamma
d’un guizzo subito spento.

Non si fa ardore
a bruciare l’infimo limite
che ci congela dentro.

Ma là ove s’incontrano i colori
di cielo aria acqua e terra
elementi primi in assonanze inesprimibili
là sempre l’anima s’infiamma
a risentire l’invisibile.

Un registro traslucido è presente anche in “Vernazza”, dove sembra esserci il dominio del colore madreperlaceo, colore che significativamente innesca l’incipit della poesia:

Nell’alba madreperla sei fiore di scoglio
lucente superbo in stelo roccioso
che morbido all’onda ti pieghi
sfogliando memorie di gloria.

Ma all’ultima eco di luce
sei falò di case acceso sull’acqua
da arditi ragazzi a sfidare il sole.

E a notte sei pieno incanto di luna
a noi dal prima ancora smagati
sei pieno incanto-argento di sirene
in abbraccio di schiume flautate.

Procedimento sapientemente sfruttato dalla Toffanin e tipico della poesia, è la sinestesia. L’espressione ‘eco di luce’ trasferisce una sensazione fonica, l’eco, a quella visiva, la luce. (Famose le sinestesie di Leopardi ‘dolce e chiara la notte senza vento’, di Dante, ‘dolce color d’oriental zaffiro’). La sinestesia è una delle

figure retoriche più suggestive della poesia, e la Toffanin la sfrutta con molta efficacia, modulandola, in questa lirica, anche in successione temporale: dalla madreperla dell’alba al falò del tramonto, alla notte piena di incanto e di luna.

L’accostamento uninominale di due termini, (incanto-argento) praticato nel Novecento anche da altri poeti, impiega la ‘n’, la ‘o’, la ‘a’, per catturare un suono che intride le parole di un senso fluido e sognante –pieno incanto-argento di sirene– quasi necessitato a concludersi in un abbraccio di schiume flautate.

La poesia “È Monterosso” apre significativamente la sezione intitolata “Suoni-Colori” poiché, cifra fondamentale della lirica, è uno spiccato cromatismo, dalle tonalità accese e squillanti.

È Monterosso
mosaico d’arditi colori
tessere d’oro e carminio
accese in case di sole
in verde di rocce scalinate

ancorate al nero scoglio
dal vento salmastro scomposto
composte a sera da brezza di terra
e là bloccate nel sogno di cobalto,

tastiera d’umani suoni
moto morbido di cose:
avvolto dal tunnel dai carruggi
il fischio che ripassa

lieve l’onda sui ciottoli sul molo
garriscono le ore intorno al campanile
si versano ovunque
cornucopie di esotiche parole.

Omnia stemperata dall’aria fra le dune
irripetibile fascinazione clonabile mai.

L’accensione cromatica –«Monterosso mosaico d’arditi colori d’oro e carminio», «case di sole», «verde di rocce», «nero scoglio», «sogno cobalto»– è però combinata con una suggestiva scansione fonica, segnalata dal fischio dei carruggi che ripassa, dal garrire delle ore –«garriscono le ore»–.

Quest’ultima singolare metafora, rende animato l’inanimato, trasferendo sinesteticamente la vita a ciò che apparentemente non la possiede, attraverso una visione della realtà che potremmo definire cosmoteandrica, visione cioè che percepisce la presenza di Dio dentro alla natura e all’uomo, riunendo nel medesimo indistinto palpito vitale, Dio-natura e uomo.

Questa particolare dimensione percettiva è stata rilevata nel mondo poetico e nella Weltanschauung del frate –poeta Agostino Venanzio Reali (1931-1994) (frate cappuccino autore di poesie bellissime, ma anche pittore, scultore, teologo, traduttore dall’ebraico del Cantico dei Cantici)– e credo possa essere estesa alla prospettiva poetica della Toffanin.

Anche la Toffanin percepisce, seppur in modalità diverse, l’appartenenza dell’uno al tutto e del tutto all’uno, con una circolarità cosmoteandrica, e la esprime animando, con originali sinestesie e metafore, la realtà anche inanimata: nel caso specifico, le ore.

Le ore che garriscono sono divenute esseri viventi di quella misteriosa vita che pervade tutto l’universo, in un processo di ricodificazione del reale che appartiene alla sensibilità e personalità dell’autrice, ma che è soprattutto segno distintivo della vera poesia.

Altro esempio emblematico al riguardo è la poesia “Un rondinare bianco”; attraverso un abile gioco cromatico si ribadisce una sorta di percezione cosmoteandrica, anche se Dio appare sostituito da un principio di energia universale che attraversa e avvolge il cosmo in unico élan vital.

E nel borgo rosso di case e giallo
strette da nastri d’azzurro, a sera
un rondinare bianco d’ali e piume
archi rigonfi a sfiorare la terra
trilli di corde tese a nidi vivi
frecce nere virate
là in slarghi di cielo
ove più denso odora il mare.
E l’anima ad alare in bianche piume
lieve a carpire ai voli ai nidi
vivi i segreti del cielo.

Appare ormai evidente: l’ iter ligure è un viaggio dentro la Liguria che si configura però come sostegno metaforico privilegiato di un mondo interiore, ricchissimo e articolato, denso di sentimenti e di riflessioni filosofico-esistenziali, come emerge in maniera emblematica nella poesia “Passeri”:

Già bastano passeri
con semplici note
a smuoverci dentro
canti di foglie

frenesia estiva
di aria di verde
e di solari
richiami infiniti.

E noi trasaliti
tagli di cielo
fronzuti d’aghi e pigne,

noi nuovi echi di vita
laudi di gioia
per l’attimo eterno.
Dolce sentire audace
pur acuta la coscienza del tempo
che rigido così passa.

L’acuta coscienza del tempo che passa ha trasformato un volo di passeri in una sofferta e inquieta meditazione esistenziale, e si fa anche più esplicita in “Quel battere delle ore”:

E ci smuore la sera d’ametista
un’altra tra le mani d’acqua

e noi barche là sopite
nel torpore della luna
a vaneggiare nel sale delle onde

di quel battere struggente delle ore
su trame di vita già consunta:

schiuma che subito si scioglie
naufraga nel profondo mare

ove alla comune ratio
così scompare il senso delle cose.

La musicalità di questa lirica è, per così dire, una musicalità ‘speculativa’ poiché la riflessione si snoda in versi di grande sinuosità melodica. Il battere delle ore, la sera d’ametista, e la splendida similitudine –«noi siamo come barche sopite nel torpore della luna a vaneggiare»–, dichiarano apertamente la consapevole certezza della brevità e della precarietà dell’esistenza. Il verbo ‘vaneggiare’, che etimologicamente significa muoversi nel vuoto, è perfetto per indicare quel fugit hora che già il Petrarca (tra gli altri) aveva espresso –«La vita fugge e non s’arresta un’ora»– cui corrisponde, qui, il vano battere struggente delle ore.

Anche in questo caso, l’accostamento di ‘battere–struggente–ore’, nello scontro consonantico e nella ripetizione onomatopeica della ‘r’ e della ‘e’, restituisce il ritmo insistente delle ore che ci incalzano senza scampo. La vita fugge e, mentre ‘vaneggiamo’ inutilmente come le barche, per noi «scompare il senso delle cose».

Nella poesia “Un uomo e una donna” anche il rapporto di coppia subisce fatalmente l’erosione del tempo e, ahimè! non è esente dalla consunzione e dal mutamento, inesorabili.

Seduti in un tondo d’ombra
assorti nel grigiore dello sguardo
ad ascoltare suoni assordanti

seguire l’ansimare meccanico
della gru-voce di ferro gelida
soffocante il respiro del mare
dietro così frizzante vivo.

Seduti sulla panchina a Chiavari
assorti nel grigiore dei capelli
–chiusi ormai al rumore della gru–

e sentire palpitare l’anima
giovane nelle vene dei ricordi
l’anima del mare, ora di altri,
in ore inventate sulla rena.

Mare che svanisce lento nella sera
dei rimpianti come Portofino
scoglio d’oro della perduta età.

Seduti in un tondo d’ombra
assorti in fondali antichi
senza risposta alcuna.

La tecnica della ripresa dello stesso verso, a inizio e fine, «seduti in tondo d’ombra», tipica della poesia classica, si associa ad una ripetizionecon lieve variatio –«assorti nel grigiore dello sguardo […] assorti nel grigiore dei capelli»– una ripetizione piena di malinconia per la raggiunta tarda età.

Se l’anima, anche invecchiando rimane giovane dentro, non corrisponde più al fuori, a ‘come eravamo’. Possiamo solo rimpiangere e ricordare, come dice la Toffanin, «Portofino lo scoglio d’oro della perduta età».

Pessimismo, malinconia esistenziale? Sì, forse, ma anche e proprio per questo, grande amore per la vita, per tutto quello che offre, per esempio lo splendore della Liguria, e per tutto quello che ci consente di offrire, per esempio la poesia, che resistendo all’usura del tempo sconfigge anche la morte e ci consola dell’umano stato. Questo è il compito e il privilegio del poeta, soprattutto di chi sa parlare al cuore e alla mente di un vissuto individuale che si fa universale attraverso la magia del linguaggio poetico.

Le esemplificazioni sulle doti e sulle peculiarità del discorso lirico della nostra autrice potrebbero continuare e confermerebbero il suo tocco lieve ed elegante, la sua padronanza del mestiere e soprattutto il suo spessore umano.

Ma ci limiteremo a concludere con una poesia, “Sono”, che sembra raccogliere in sintesi le caratteristiche più specifiche della poesia della Toffanin: il cromatismo, l’armonia, la bellezza del paesaggio ligure, che si esprimono nella morbida musicalità dei versi, percorsi però sempre da una sottile nervatura filosofico-speculativa.

Muta di colori è l’aria
e arcana la malìa del mare
come richiamo dall’ignoto
dal grembo immenso della vita
come rinata memoria
di risposte invocate dal profondo.

E il pensiero si perde.
Sono una ninfea salmastra
che fragile si apre al mattino
e galleggia sul senso del suo giorno
con l’infinito in petali di luce
ma a sera già il sogno è spento.

Sono l’onda che insegue il mare
aspra tutta schiumata d’ansia
senza capire l’armonia del ritmo
e muore sulla battigia così, amara.

Sono una donna
che seduta sul molo a Monterosso
nell’aria muta di colori,
si dondola in pensieri con le barche
poi raccoglie la sua anima dal mare
e dal sole attende risposta chiara.

Anche questa poesia, con la sua eleganza, la sua ricchezza di similitudini e di metafore non si sottrae ai quesiti esistenziali se, dal sole, attende una risposta chiara.

In essa sembra racchiudersi il senso complessivo di una silloge che, attraversando una luminosa Liguria, ci consegna un viaggio nell’interiorità, dominato dalla consapevole appartenenza dell’uno al tutto («sono onda, ninfea, rondine, sabbia, virgulto, roccia») confluenti circolarmente nel «gran mar dell’Essere» .

Ma, ovviamente, solo la capacità trasfigurativa della parola poetica può trasformare una descrizione geografica in una suggestiva geografia dell’anima.

Maria Luisa Toffanin, poetessa di grande qualità espressiva, di acuta sensibilità e di densa meditatività, ha saputo dunque ‘ricreare il creato’ (Goethe ), offrendoci l’incanto di una Liguria avvolta nello stupore di quel sogno che è la poesia.

Perché, è vero, come dice il mago Cotrone ne I giganti della Montagna: Ci vogliono i poeti, per dare coerenza ai sogni.