Giuseppe Ruggeri – Pensieri nomadi
“Ogni viaggio” incisivamente osserva Maria Luisa Daniele Toffanin “è di per sé la ricerca del senso del nostro esserci e insieme scoperta di realtà altre paesaggistiche, storiche, culturali, esistenziali, ma questo, via mare e terra, è rivelazione di impensabili, indicibili verità. Traghettando la notte vivi l’immenso acceso dalla luna, il silenzio dello spazio ritmato solo dal meccanico andare del traghetto e rifletti sul destino di quell’acqua-mare-vita perennemente macinata dal tempo”.
Possono nascere solo così quei “pensieri nomadi” che titolano il saggio dedicato alla poetessa euganea curato da Silvana Serafin e pubblicato nel luglio 2011 per i tipi della Studio T2, all’insegna di un viaggio per mare e per terra dal quale l’animo lirico trae ispirazione per fissare, da una proda all’altra del suo traversare, gli eterni “archetipi” – la vita, la morte, il dolore, il tempo – che punteggiano l’esistenza. E cos’è dunque il verso, in questo costante dinamismo trascorso per le diverse regioni dello spirito, se non un tentativo, ancorché sublime nel suo ingenuo protendersi verso l’infinito, di tradurre l’attesa in momento perenne? Cos’altro se non un modo per “dilatare la propria anima” (v. p. 79) aprendola a quell’Eterno, all’Amore creante che ha dato senso e compimento a ogni cosa? Un ambito, questo, nel quale trova spazio e ragione una “poesia che ha ragione d’esistere se ha la capacità di farsi stimolo alla ricerca del bello, all’armonia presente nell’intero universo” (v. p. 80) qualcosa, cioè, che trascolora oltre i facili confini dell’epoca in cui viene scritta, di là dalle barriere di un contesto post-moderno aperto a ogni possibile – e inquinante – influsso magari di moda, di maniera. Sicché, alla chiacchierata iniziale in cui la Toffanin rivela i motivi della sua poetica piegandoli, come di necessità, alle vicende particolari della sua vita, all’esigenza di trovare sfogo ai drammi – anzi al dramma – esistenziale, subentra la parola dei critici, primo tra tutti Andrea Zanzotto, voce alta della poesia contemporanea da poco mancato, che vi intravede una “consustanzialità” con i Colli Euganei, espressione e simbolo a un tempo della profonda aderenza della poetica toffaniniana al dolce profilo delle colline che recingono la valle natia, quasi a chiudere a cerchio il grumo di affetti e ricordi della sua vicenda umana. Una ricerca che è poi quella che io definirei d’una geografia dell’anima, che avvicina appunto al viaggio, il quale da astratto assume una fisicità ben precisa, identificabile.
Ma non è soltanto il viaggio nella vita, quello intrapreso dalla Toffanin, ma anche e specialmente il viaggio della vita il quale, conformemente ai grandi canoni classici – da Omero a seguire – si impernia sulla dualità mare-terra, a significare il senso stesso della “traversata” (passare per) che poi, per converso, permette di giungere al “trapasso” (passare attraverso) con tutta la sua densa simbologia ultraterrena. Una visione metastorica dell’esistenza, insomma, incentrata sulla negazione del tempo quale esclusiva condizione per sfuggire alla morte. Il viaggio mare-terra, per la Toffanin, diviene allora pretesto per impregnare di trascendenza una poetica che nasce e si evolve, di passo in passo, per celebrare il canto di una Creazione gioiosa e illimitata. Non a caso il titolo della raccolta che chiude il testo – “Di traghetto a traghetto per non morire” – esprime in tutta la sua forza quest’assunto, così come la stessa Toffanin ha modo di spiegare annotando che il viaggio è “rivelatore del significato dell’esistenza, nel suo profondo legame con il creato e con il suo Creatore, e della poesia come ricerca-volo verso l’infinito” (v. p. 174).
Così il mare e l’isola, archetipi anch’essi di tanto migrare, acquisiscono ben presto un valore immanente insostituibile, nel loro figurare l’immagine di un’eternità silenziosa che veglia sugli uomini, spie di un tutto che non si estenua di avvolgere delle sue ali protettive il loro destino. Ma c’è pure, in questa equorea raccolta toffaniniana, un omaggio a quel Sud immobile nel pensiero e nel mito delle generazioni qui esemplificato dalle Pelagie che, agli occhi dei traversanti, si rivelano in tutti i loro “cromatici riverberi” evocatori del “fascino-mistero isolano” (v. p. 180). Lampedusa e Linosa, come a suo tempo Tindari, rappresentano in altre parole per la Toffanin ulteriori “archetipi” di un’identità che rivela – mi si consenta – l’empatia profonda che la lega alla Sicilia, scrigno di splendori e contraddizioni il che per i poeti, si sa, da sempre costituisce ricco “pabulum” ispirativo. Sicché il viaggio posto in essere diviene, giocoforza, strumento di esplorazione di quella “metafora” di sciasciana memoria alla quale tutti, per un verso o per l’altro, si finisce prima o poi per approdare.