Giuseppe Ruggeri – La stanza alta

Davvero difficile abituarsi alla poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin anche perché, anno dopo anno, silloge dopo silloge, la soavità del suo verso tornito, rischiarato dall’intensità che solo una cifra artistica consolidata può conferire, acquista una dirompenza sempre nuova e trascinante. Specie quando – “tra mito e storia” come lei stessa sottotitola nella sua più recente raccolta – la Nostra si accinge, proustianamente, a raccontarsi. Iniziando proprio dalla patavina “stanza alta dell’attesa” dov’è nata, in quel “letto grande ove si compie il rito dell’amore, nasce la vita nuova e l’ultimo respiro si spegne”.

Perché ricordarsi ancor prima di ricordare? La poesia ha di queste intuizioni, e la Toffanin bene lo spiega in queste pagine “prosimetriche” – come acutamente le definisce Nazario Pardini nella sua post-fazione – ove la musicalità della prosa si fonde e significa con l’onda leggera della poesia, strutturando un genere in grado di collocarsi al di qua tanto dell’una quanto dell’altra.

Ospiti di questa storia ripercorsa con l’afflato dell’infanzia e la consapevolezza della maturità, i personaggi di una famiglia unita e numerosa che, assumendo movenze quasi di sogno, danno corpo poco per volta a un affresco epocale – l’affresco della commedia-dramma della vita, sublimata nello spartito unico di un rinovellare che non conosce deflessioni di sorta, intento com’è a descrivere quelle “stagioni” che hanno dato un senso e un nome alle cose di oggi.

E che dire delle varie – e tante – coordinate geografiche che questo cammino interseca? Linee che disegnano, con tinte sfumate di pastello, una città e un territorio che sopravvivono solo nell’energia affettiva di un ricordo tenace il quale non si è mai lasciato irretire dalle lusinghe della modernità. Un lungo, continuo paesaggio dell’anima, in altri termini, che s’intravede in filigrana dietro la scrittura.

L’attesa – “ritmo che cadenza la vita e della natura e dell’uomo” – l’ineffabile protagonista dei fatti che si dispiegano dall’arcolaio della memoria della Toffanin; attesa come sospensione temporale, diaframma che divide l’immanente dall’imminente, rifugio di promesse, base della parabola.

Un modo – come altri – per difendersi dagli assalti degli anni? Può darsi, ma chissà, forse anche il presagio dell’eterno presente che ci attende.