Giuseppe Ruggeri – Diario pandemico al vento dei fiori

In La Nuova Tribuna Letteraria – n. 153, anno XXXIV

Che fa il vento ai fiori? Ne accarezza i petali, facendone sprigionare gli effluvi della vita. Ogni fiore ha la sua storia e, da solo, racconta la storia del mondo perché è dalla terra, ove affondano le sue radici, che i fiori traggono nutrimento, come qualunque altra forma arborea in natura. È un cosmo colorato quello che, fin dalle immagini di fronte e retro copertina (realizzate da Luciana Filippi), Maria Luisa Daniele Toffanin racconta ai suoi lettori assidui – come me, almeno – nel cogliere ogni volta il suo richiamo a non perdere di vista, nelle tempeste della vita, la pura bellezza del Creato. Un Creato entro cui tutti noi siamo immersi e del quale, contro ogni ragione, sperdiamo sovente il significato, violentandolo oltre limite con spietata sistematicità.

La ragione, già, il lume che dovrebbe rischiarare le azioni degli uomini evitandone la deriva ferina, quei comportamenti cioè che li mettono gli uni contro gli altri in nome della prepotenza, del sopruso. Mentre
appare, viceversa, del tutto ragionevole unirsi per fronteggiare gli assalti della contingenza, degli eventi esterni cui tutti siamo esposti, per trovare soluzioni ma, soprattutto, per assumere coscienza dell’essere comunità, avamposto di forza contro le avversità. Una di queste avversità – da molti creduta la peggiore possibile, salvo pronta e amara smentita prodotta dal susseguente scoppio di conflitti su scala internazionale proprio alle porte d’Europa – è stata, nel 2020 e i due anni a seguire, la pandemia da Covid-19. Un evento alla cui portata e diffusione non si era preparati e che è piombato, con inaudita violenza, nell’intimità di ciascuno di noi, sconvolgendo abitudini e modi d’essere e sentire. Dinanzi al forzato isolamento, alle misure restrittive e, soprattutto, alla paura, Maria Luisa Daniele Toffanin ci insegna
con questa sua opera a far leva sui valori fondanti della civiltà dell’uomo che, poi, sono i valori della natura.
Natura, dunque, che occupa un ruolo di fondamentale importanza nella progressiva – e necessaria – purificazione, in un processo che non può che passare dal mondo vegetale. Come ad esempio quell’“ibisco promessa di vita” tra le cui “foglie di speranza” la Toffanin si rifugia sognando nel suo “giallo ardente” per raggiungere una “catarsi di luce”. O anche quel “fior di clematide / occhio pervinca del cielo / posato sulle foglie”, metafora di un ideale ponte tra cielo e terra, in un’empatia di sensi che correlano tra di esse le varie specie viventi.

Un moderno panismo, insomma, capace di riunire echi diversi, promananti tuttavia da una sola origine in
grado di giustificarli e dare loro un motivo unitario: perché il Creato, secondo la Toffanin, è anche “conforto”, grazie ai suoi riti che si ripetono “inesausti” nel rinnovellare le esistenze che, con immutabile ciclicità, vi si succedono. Simbolo – e custode – assoluto di questa ciclicità è la memoria. Tradotta nei ricordi, colori della mente che si accende di ogni loro guizzo nel buio dei giorni tristi. Memoria intesa, essenzialmente, come ritorno in luoghi noti che riportano al beato periodo dell’infanzia e della fanciullezza, quando le figure adesso non più presenti nella loro fisicità – ma pur sempre presenti, e in modo prepotente, nel ricordo – svolgevano un ruolo strutturale nella formazione della personalità. In questi luoghi, striati delle tinte inconfondibili dei fiori, la Toffanin rivive, nei mesi dell’isolamento pandemico, esperienze ineffabili e senza tempo. Muta di parole dinanzi al “mistero virale” che trasforma le giornate in crogiuoli d’attese e timori, ricostituisce la sua interiorità religiosa, il suo legame con il Trascendente. La sua esistenza, lungi dall’essere un’“isola deserta”, comincia così ad arricchirsi dei motivi che la rendono degna di essere vissuta perché sempre più identificata nella misura divina. È, quest’ultima, un annuncio d’eternità di cui è fulgida figura Rosapineta “ove tutto è ancora stupore / nell’umano
incontro / meraviglia nel procedere del Creato”. Una distesa sterminata di giardini accoglie questa coscienza rinnovata, vivificata dai colori e dai profumi, in uno “squarcio di meraviglia in sequenza”
di cui è immagine la valle Pettorina “chiusa nel silenzio del suo riserbo / confidente avvolgente il gran canyon / morbido di acque muschi e verzura” perché “nella vita un sorriso / può velare sottesi affanni”. Il tributo al sorriso della natura è una costante della Toffanin, che ivi riprende i temi cari al conterraneo Andrea Zanzotto, il suo lirico identificare il paesaggio con il corpo, in una fusione di elementi paesistici con immagini che rimandano a sintomi fisici legati all’essere psichico. E ove gioca un ruolo di primo piano il rapporto che, come la Toffanin, il poeta di Pieve di Soligo sempre intrattenne con i beneamati Colli Euganei, in cui ebbe a scoprire “la primula e il calore / ai piedi e il verde acume del mondo”.
Colori, colori e ancora colori. Che colpiscono lo sguardo come, gli effluvi, le narici. E che riportano a mondi mai sopiti che abitano la memoria. La quale è memoria dei luoghi, certo, ma anche e specie memoria dell’anima per quella rara capacità, che Maria Luisa Daniele Toffanin possiede, di creare un’osmosi indefettibile tra il Sé e l’Altro ove quest’ultimo è, come nel caso in esame, il grande libro della natura. Un libro che, almeno da quando noi la conosciamo, la Toffanin sfoglia con assorta meraviglia, riuscendo a penetrare nei suoi più reconditi meccanismi secondo la lezione lucreziana che, ragionando, insegna ad amare e, amando, a ragionare. In questo libro, come in un’immensa tavolozza, la Toffanin intinge il suo pennello dipingendo la vita dei fiori, del tutto speculare a quella del fiore che è in ciascuno di noi e che aspetta solo di essere colto e annusato, per capire com’è fatto il mondo che ci circonda.