Aldo Cervo – Per colli e cieli insieme, mia euganea terra

In simbiosi con il paesaggio nativo

Maria Luisa Daniele Toffanin, poetessa patavina residente in Selvazzano, stabilisce col paesaggio nativo un rapporto simbiotico. E il paesaggio nativo che alita nella ispirata silloge poetica in esame è quello dei Colli Euganei, già teatro (or son due secoli e oltre) delle turbolenze sentimentali del giovanissimo Foscolo. Chi ne scorre le dense, pregnanti pagine non s’imbatte nel puro e semplice paesaggismo, in pennellate più o meno riuscite di sola portata descrittiva. Dirò anzi che tale dimensione artistica (che pure non manca) è – tutto sommato – accessoria, di minor peso ai fini di una valutazione piena del complessivo spessore del testo.

Si trova invece – il lettore avvezzo a tal genere di poesia – di fronte a una rappresentazione dell’oggetto (i Colli Euganei, come si diceva) che si colora e si carica dell’onda emozionale risalente dal fervido “sottosuolo” culturale e umano dell’autrice. Ne deriva un susseguirsi concatenato di quadri naturalistici di grande bellezza, connessi all’annuale avvicendarsi delle stagioni, non altro che proiezione – nelle cose – di un io creativo. che ama tutto ciò che è vita, che tende a far propri gli elementi d’ambiente in cui è immerso, per coglierne fino in fondo la vitale sapidità. Passi da menzionare a mo’ d’esempio sarebbero tanti. Ma si legga a pag. 22: E t’invade il cuore | un’onda viola mite | di odori antichi | onda di vita che | paziente si fa nuova | in riti di fiori e di ali | a eternare dono d’amore | in anelli di sapienza infinita. Oppure (ma sempre scegliendo a caso) a pag. 35: E ci sorprende talora | in questo andare | tra tronchi predati di foglie | un sapore di nebbia | dal profondo | che oscura l’anima | in confuse trame umane. Il fruitore attrezzato. che abbia almeno una qualche dimestichezza con le nozioni fondamentali di critica letteraria, si rende facilmente conto che siamo vicini ai più alti vertici della poesia panica.

Il volume. che si srotola in una serie di canti a metro libero, con rarissime chiuse di strofa, e di verso, del genere sdrucciolo, non esibisce una veste strutturale riconducibile alla tradizione – per così dire – predecadente della nostra storia letteraria. L’impianto logico-sintattico, pur inglobando non rari costrutti classicheggianti con presenze di iperbati (E dalla parola vinto s’arresta | il tempo … pag. 47), mostra varchi nuovi, e dilaga in originalissimi tracciati dove la portata rappresentativa e significante dell’insieme è da ricercarsi non tanto (o almeno non sempre) nel messaggio compiuto del senso, quanto piuttosto nel gioco dei fonèmi sapientemente accostati (o scissi), nell’armonia di suoni e immagini, con la parola che si riappropria del suo ruolo preminente, della sua autonomia.

Tra le figure stilistiche più ricorrenti si segnalano l’analogia e la sinestesia, fiancheggiate – se mi si passa il termine – da un copioso corredo di metafore fuor di codice. uniche, pertanto, e irripetibili. La Toffanin, presenza già nota – e ambita – negli ambienti culturali del vivace Molise, vincitrice del premio Città di Venafro del 25 aprile 2004, si colloca a pieno titolo tra le voci autorevoli della poesia italiana contemporanea. con sue ben robuste radici e ascendenze. I versi (come è giusto che accada in chi non suole avventurarsi con troppa disinvoltura per avia Pieridum loca) veicolano echi di passate letture, di trascorsi innamoramenti letterari, lasciando percepire, qua e là sparse, vaghe suggestioni pascoliane, dannunziane, ungarettiane – per dirne solo alcune delle più rilevanti – .

Ma tanto non ne inficia l’autenticità. Che ne esce, al contrario, decisamente irrobustita proprio in virtù delle fonti che vi si possono reperire, metabolizzate e fatte rivivere con strumentazioni linguistico-espressive visibilmente personali e inedite. Il senso complessivo del testo, nell’interpretazione figurativa che ne dà Marco Toffanin, si condensa nel disegno di copertina dall’eloquente titolo “Dal caos all’armonia”.

E lo stesso autore visualizza poi in gradevoli “schizzi” sparsi fra le pagine momenti di particolare intensità trasmissiva colti nell’incontro interattivo col verso.

XXIII

Figura sfumata vagantenell’aria più spessa più rarao corallo ardente nel solePraglia* è mistero splendore d’energia

da secoli esplosa in nobile argilla.Su erosi gradini il Tempo camminaspalanca parete di luce accesada intarsi d’antica trachite,abbraccia i colli da millenniimmobili, sopito l’arcano ardore.

Miei collidesiato rifugio a poesia:ancora pei sentieri Jacopoinvano a Teresa recita amore.Echi lontani, vivi a svanire mai.

E dalla Parola vinto s’arrestail Tempo e si condensa nel silenziodi mani accordatesulle vigne e sui codici miniatidi voci oranti chiusenell’armonia del sacro cantodi madonne e angeli sospesiin tenui pastelli a volute.

E noi tutti presi da un’onda mited’ulivi e cipressi e di germogli lieta,nell’incanto-incontro d’arte e creatorinasciamo immacolati come la prima alba.

* Il riferimento è all’Abbazia benedettina Santa Maria Assunta di Praglia, in Bresseo (Padova), abbazia che sorge ai piedi dei Colli Euganei nei pressi dell’antichissima strada che conduceva ad Este. Di tale Abbazia ha scritto Toffanin: ‘E’ un luogo della memoria religiosa, artistica. letteraria dei colli stessi, che sempre sono stati attraversati dalla cultura. Già antichi poeti e scrittori come Marziale, Giovenale ed altri li conoscevano perché venivano a curarsi nella zona termale. […] L’Abbazia. con la regola benedettina, custodiva codici antichi ed era centro di cultura. Ricordiamo altri autori che hanno vissuto i Colli: Goethe, Shelley, Foscolo, Fogazzaro. Valeri e Zanzotto con il suo celebre sonetto sui colli. […].”