Emilia Perassi – Parole e autori migranti
dall’intervento della prof. Emilia Perassi (Università di Milano)
coordinatrice della tavola rotonda “Parole e autori migranti”
tenutasi all’Università di Udine il 24 ottobre 2007,
in Oltreoceano 2, Udine 2008.
Apparentemente distanti da questi universi nomadici sembrano quelli di Maria Luisa Daniele Toffanin e Rocío Oviedo, l’una patavina, l’altra madrilena. Se dovessi scegliere la cifra più appariscente con la quale introdurre alla loro peculiarità letteraria, indicherei nella vastissima declinazione dell’idea di “luce” quella evocata dalla poesia di Daniele Toffanin, mentre suggerirei come più intrinseca ai versi di Oviedo quella dei toni variegatissimi che può assumere l’idea di “malinconia”. Entrambe stendono questi colori sui loro territori: territori che paiono assai certi, sostanzialmente inagiti dal movimento fisico, prossimi e ben identificati. Daniele Toffanin, nelle sue molte raccolte, da Dell’azzurro e d’altro a Per colli e cieli insieme mia euganea terra, da Dell’amicizia- My red hair a Iter ligure e Fragmenta, per dire di alcune, insinua come eloquente simbolo attorno al quale far convergere la sua esplorazione del mondo quello della casa: la casa-sfera, la casa come crocevia di memorie e di sguardi, piena di sacralità, di cui “gran fiamma” è la madre. La riconoscibilità e familiarità di un luogo d’appartenenza come la casa-cuna non impedisce tuttavia la ferocia del tempo in azione, del movimento disgregatore della morte, così come non vieta, anzi, accoglie, l’opposto e fecondo gesto della vita in atto perenne e permanente. Non si uscirà in fondo mai da questa casa, perché essa, in realtà, coincide perfettamente col mondo. Essa è casa-cosmo, miniatura perfettissima che ogni cosa contiene, sempre che lo sguardo indagatore del poeta riesca a scavare sino all’atomo più sottile che compone la materia dell’uomo. In casa siffatta è possibile ritrovare sempre ogni cosa: gli affetti, i volti, la memoria. Il percorrerla e ripercorrerla incessantemente è gesto significativo, poiché i limiti concreti dell’edificio in sé vengono trascesi e compresi quali vasti paesaggi della mente e del ricordo. L’operazione di sconfinamento dalle frontiere del proprio mondo e l’ingresso in scenari che connettono questo stesso mondo con l’esperienza dell’essere tout court appaiono in speciale evidenza in una poesia come “Dolce rituale”, contenuta in Fragmenta. Qui è la nebbia ad assumere il ruolo di figura del ricordo effettivo (i gesti della madre nel sistemare lini e lenzuola) ed insieme la funzione di simbolo che eccede lo spazio limitato del soggetto, proiettandolo su un orizzonte più propriamente cosmico:
E’ questa nebbia mia
dalla mia terra nata
che alberi e case, ora senza presente, sfuma,
e l’anima rimena
a trame di foschie confuse.
E chiusa in quest’opale
– densa malinconia matura –
smuovere mi sento gesti d’altre mani
vive in ricordi acerbi
morbide su lini e ruvidi cotoni
ad accarezzare l’intima sostanza
memoria sensibile alla pelle
nel cuore ricomposta
a rinsaldare radici
di fragili stagioni […] (20).
Dunque ciò che per eccellenza è fermissima radice – la casa, appunto – diviene in realtà spazio disposto al movimento: il movimento del punto di vista, che a seconda del tempo o momento della vita in cui scelga di installarsi, muta planimetrie e contorni, ristabilisce perimetri, altri ne sgombra. E la casa si fa prisma, caleidoscopio, sfera rutilante immagini : mobilissima, dunque, liquida, in atto permanente di creazione. Il viaggio, di norma italiano (vedi le raccolte dedicate a Tindari, ai Colli Euganei, alla Liguria), non è avventura che abbandoni la casa: suona semmai a itinerario circolare, mosso da forze centripete, il cui vettore è diretto sempre verso il centro di sé, in approfondimento costante del proprio sentire. E la lingua si incarica di articolare e rendere sconfinato il luogo in apparenza circoscritto dell’io. Cromatica, antica, colta e pensosa, la parola dettaglia ogni sfumatura del rapporto di comunione fra poeta e mondo. Bel simbolo ne è l’agave, che vive radicata allo scoglio – mi spiega la poetessa – , ma tutta tesa verso lo spazio celeste, a respirare la gioia del mare e a difendersi con le sue radici profonde dalla furia dei marosi:
D’agave, poeta, è il nostro giorno
radicato così allo scoglio irto
nel delirio mai finito d’azzurro
struggente amore del vivere.
E linfa succhia dura di roccia
e respira il mare la sua gioia
con braccia magre di fatica
e ne gusta il sale filtrato
solo da maestrali aspri
grondanti lacrime di pioggia.
D’agave oscillante anche nel sole
fragile d’improvviso a oscurarsi
e, all’urlo delle onde, difesa
dalle forti sue radici
fino ad aprirsi in candelabro
di corniola- idea pura di fiore
con amore acceso al cielo,
fino a chiudersi nel respiro estremo.
Un morire di speranza
nel virgulto nuovo,
scaglia lucente-smalto verde.
Vita a perpetuarsi nel ciclo eterno.
(“Al poeta”, Fragmenta: 25)
Bibliografia citata
A New Map: The Poetry of Migrant Writers in Italy. Los Angeles: Green Integer. 2007.
Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano. Ed. Mia Lecomte. Firenze: Le Lettere. 2006.
Daniele Toffanin, Maria Luisa. Dell’azzurro e d’altro. Padova: La Garangola. 1998.
Per colli e cieli insieme mia euganea terra. Padova: Parco Regionale dei Colli Euganei. 2002.
Dell’amicizia- My red hair . Frosinone: Edizioni Eva. 2004.
Fragmenta. Venezia: Marsilio. 2006.
Iter ligure. Pisa: Edizioni ETS. 2006.