Mario Richter – La poesia di Maria Luisa Daniele Toffanin

Fra le innumerevoli voci che arrivano a farsi sentire nell’affollato mondo della poesia d’oggi, nel grande e spesso disorientante brusio letterario, dà conforto riconoscere ogni tanto parole di verità, ascoltare accenti sinceri di vita, ritmi che si accordano spontaneamente con i palpiti del cuore e della natura. Dopo aver passato i suoi più giovani e trepidi anni nell’ascolto, nel calore degli affetti familiari, nella contemplazione delle segrete liturgie celebrate nel grande tempio della realtà naturale, nello studio sensibile dei nostri maggiori poeti antichi e moderni oltre che nell’insegnamento vissuto con la responsabilità della più delicata delle missioni, Maria Luisa Daniele Toffanin ha quasi improvvisamente e imperiosamente sentito prorompere in sé, dal profondo, come un’inattesa fioritura in stagione avanzata, tutto un mondo di sensazioni, di emozioni, di ricordi, di immagini, di luci, di suoni e di voci, di affetti.

Ciò è avvenuto fra il 1995 e il 1998, l’anno in cui è stato offerto al pubblico il suo primo libro, quello intitolato Dell’azzurro ed altro, nel quale la Toffanin ci ha messo subito di fronte a una lingua lirica già chiaramente formata, una lingua sua, evidente risultato, appunto, di una felice sotterranea conquista, di una lunga meditazione di altri poeti lirici del nostro tempo (da Valeri a Cardarelli, da Solmi a Montale…), ma tutto sempre saggiamente controllato da una educazione letteraria che non consente gli eccessi e lascia trasparire una misura che ha radici antiche e profonde negli strati più eletti della nostra tradizione poetica.

Ciò che risulta subito evidente è che la sensibilità della Daniele Toffanin passa attraverso un’osservazione impressionistica del mondo. I colori, le luci, i movimenti delle cose visibili sono colti nell’incanto del loro immediato e fugace apparire. Ma queste rivelazioni del mondo non si risolvono nel piacere epidermico e sterile del loro stesso rivelarsi. Sono soltanto un punto di partenza, un’iniziale, una necessaria accensione. L’autrice ne è consapevole. Fin dall’inizio si presenta al lettore con versi che sembrano anche l’esito conclusivo (alludo naturalmente all’attacco con la congiunzione “E”) di una lunga gestazione, fatta di un “brulicare denso | di colori e guizzi” e finalmente risolta in “parole nuove”. Così:

E dentro sento
un brulicare denso
di colori e guizzi
di stemperarli
in acqua ardente
di parole nuove

(“Acquerelli d’amore”, p. 13)

Sono “parole nuove” perché quei colori e quelle luci subito si caricano del denso spessore del tempo vissuto, ricuperano tutto un mondo di memorie, risuscitano emozioni remote e come spente. Per questa operazione che chiamerei ‘resurrezionista’, diventa essenziale il particolare movimento dei versi nel loro concatenarsi, nel loro accordarsi, quell’arpeggio trepido e delicato che lascia avvertire scansioni codificate (soprattutto il settenario, qualche volta l’endecasillabo…) senza cedere alla loro suggestione normativa, ma sempre tenendosi nel particolare “pentagramma” che la Daniele Toffanin si è costruito e che le consente gli effetti ritmici idonei a riportare alla vita emozioni lontane. Si legga la poesia intitolata “Grido di gioia” (p. 41). È articolata in tre agili strofe:

Abbacinava il sole
la pineta
schioccante perle
d’ambra resinosa
nel canto riarso
– nenia ossessione –
di cicale in riti
delle ore calde

Visioni arcane
sempre presenti
a noi donate
per un istante.

Ma è già per l‘animo
grido di gioia,
e anche le voci
del silenzio scuote,
l’istante catturato
oggi all’Eterno
dalla pineta
lungo il mare stesa.

Un’esperienza lontana (“Abbacinava il sole | la pineta…”, un’esperienza di tipo essenzialmente impressionistico: la pineta, i bagliori delle resine che colano, la “nenia” delle cicale nel caldo dell’estate) si fa qui valore durevole nel ricordo, si fa esperienza ancora viva nel presente, diventa appunto “grido di gioia”, dà voce al silenzio del presente, lo popola di vita ricuperata. L’istante remoto si è trasformato in un valore perenne, raggiungendo l’emozione vertiginosa dell'”Eterno”.

Quanto agli accordi, si osservi almeno il sottile arpeggio delle assonanze (“Assonanze” è anche il titolo di una sezione), per cui, al sesto verso, “ossessione” (v.6) riprende il “sole” del verso d’apertura, e poi c’è tutta quella cascata che lega “calde“, “arcane“, “donate“, “istante“.

Di solito i ricuperi si risolvono, nei casi migliori, in toni lamentosamente elegiaci, in rimpianti, in dolorosi abbandoni, in quei ripiegamenti decadentistici che lasciano nella pena il cuore. La Daniele Toffanin non cade in questo amaro e comune gorgo di spenta e chiusa rassegnazione. Ecco, per fare un solo esempio, come il suo insopprimibile canto si può accordare col dolore:

Ora che mi sento chiusa
in un tondo d’angoscia
persa in un vuoto di cielo
come se troppe stelle
insieme si fossero spente,
cerco la Cuna d’amore
per dissetarmi di Luce.

(“Casa-cuna”, p. 53)

L’iniziale commosso stupore della Toffanin di fronte al mostrarsi delle cose e dei luoghi ha una tale autentica vitale energia che niente riesce a rimuoverlo, a soffocarlo. Al contrario, quella meraviglia fuggevole dell’attimo, arricchito di tutti gli attimi che l’hanno preceduto (fino ai più remoti), acquista quasi – già nella parola poetica presente – un valore di eternità, anzi di una visione nuova, annunciatrice luminosa di gioia.

Arriverei a dire che in questa gioia ritrovata ci sia qualcosa – anche se ottenuta per vie sostanzialmente diverse – dell’esperienza esemplarmente indicata da Proust, per il quale la felicità consiste nello scoprire il legame che si instaura fra una sensazione provata occasionalmente nel presente e una analoga provata in un lontano passato e che si credeva del tutto dimenticata. Solo il vero artista riesce a fissare il particolare rapporto esistente fra queste due sensazioni analoghe e fra loro distanti, rapporto che viene a costituire una terza realtà, una nuova vita che, appunto, soltanto la poesia (intesa in senso lato) può garantire. Questa è la principale ragione che impedisce al ricordo di rimanere ripiegato in se stesso, esaurendosi in lamento e lasciando il lettore con la pena nel cuore.

Nella poesia della Daniele Toffanin c’è senz’altro (come ho detto) il mondo della memoria, ma si tratta di un mondo sempre riconsegnato alla vita entro un trepido orizzonte di speranza e di eternità.

In questa stessa linea lirica si colloca la successiva deliziosa raccoltina intitolata A Tindari, uscita nel 2000, risultato di un breve soggiorno siciliano della scrittrice. Ma qui l’emozione rimemorativa dei quindici componimenti che la costituiscono articolandosi in due sezioni (“A Tindari”, “Visioni”) trae la sua più viva luce da una commossa immaginazione classica intimamente legata alle manifestazioni di uomini e cose che si propongono nel presente carichi del loro prestigioso passato. La classicità si allarga nel mito e il mito si fa realtà attuale. Non è possibile dimenticare il valore antico, la sana sensualità pagana che nell’undicesimo componimento (p. 21) assumono i “gesti flessuosi” di “fanciulli” e “fanciulle” che fanno festosamente il bagno nel mare di Patti:

Fanciulli vidi
bagnarsi di onde
leggeri i corpi di luna
e fanciulle vidi
alzarsi da schiuma
con ali di cigno
e unirsi insieme
in cerchi di acqua.

Forme composte
con gesti flessuosi
di membra di mani
in crateri di argilla
a propiziarsi con riti
l’arcano ignoto silenzio
e vivere eterni nei miti.

E noi con l’anima confusa
ormai in catene di acqua e luce.

Il passato remoto rievocato come personale esperienza (“Fanciulli vidi…) ci porta al presente di “noi” separati, certo, ma “ormai” anche irrimediabilmente coinvolti, anche se con l’”anima confusa”, nel miracolo della visione fatta di “acqua e luce” in una realtà trasformata, sospesa nella suggestione di in un tempo senza tempo.

Nella raccolta Per colli e cieli insieme, mia Euganea terra – percorso d’autunno – del2002, la Toffanin torna con sentimenti rinnovati e particolarmente inteneriti alla sua terra. Come è già bene annunciata dal titolo, la più rilevante caratteristica di questa nuova esperienza lirica è la fusione – favorita in modo determinante da particolari scansioni ritmiche – di sentimenti e cose. Si capisce che questa fusione ha radici solide nell’amore. Prendiamo, ad esempio il testo XXIX (p. 55). Solo a leggere la prima strofa, si rimane tutti presi dal largo respiro di associazioni e d’ immagini:

È l’Amore la luce d’oro
leitmotiv che tutto percorre l’universo
e l’arco nostro di sole
nel dono di sentieri di ginestre
nell’offerta di parole e di gesti.

Qui la nostra immaginazione è portata a percorrere un vertiginoso percorso che dalle vastità dell’universo ci riconduce alla porzione di sole riservata alle nostre povere vite individuali, al “dono” dei sentieri bordati di ginestre fino alle parole e ai gesti della nostra semplice quotidianità.

Direi che questa “luce d’oro” assicura l’unità complessiva dell’intera raccolta, che quasi assume il valore di un breve ‘canzoniere’. Per questa via la Toffanin scopre nella natura (che è appunto quella dei Colli euganei) il suo fervore vitale, la sua strutturale positività, il suo messaggio segreto, sempre da lei sentito come privilegio e, appunto, come dono.

In ogni testo di questa raccolta avvertiamo che la Daniele Toffanin ci porta a perlustrare con sorpresa qualcosa di vero, di profondo e autentico, qualcosa che noi tutti proviamo senza però sapergli dare un’espressione, una forma che ce lo renda chiaro alla coscienza nella sua specifica, nella sua luminosa verità.

Le cose non sono mai descritte, non sono mai lasciate nella loro inerte separatezza, nella loro fredda e distaccata oggettività, nel loro essere altro (che di solito non va al di là di un ‘altro’ di convenzione). Al contrario, nella particolare esperienza della Daniele Toffanin, le cose sono portate alla presenza e alla vita tramite un vigoroso atto d’amore che il più delle volte risulta vittorioso, imprimendo ai singoli versi un respiro che si trasmette al lettore in modo quasi concreto. È un atto d’amore fatto di energia, di partecipazione vitale, di primordiale fiducia nel creato e nel suo senso. Alla luce di ciò, l’”insieme” del titolo s’illumina nel suo duplice possibile significato, riferendosi, certo, ai “colli e cieli” e forse all’unitarietà della raccolta, ma anche a un andare “per colli e cieli” insieme, cioè in compagnia di due o più persone, e magari con tutti noi. Basti osservare, ad esempio, come i fiori entrano nello spazio umano e si confondono, per gente che va e osserva, col mistero delle nostre sillabe (VIII componimento):

E si va in radure
smarriti all’incanto
di fiori e sillabe strane.

Topinambur
esotico Suono
che a danza ci muove
nel sogno del giallo…

In tutto ciò c’è spesso anche, naturalmente, l’esperienza del dolore, che tuttavia nella Toffanin, come già abbiamo avuto occasione di accertare, non prende mai il sopravvento. In lei il dolore è tenuto sotto controllo, non gli è concesso di avvilire la forza creatrice. Infatti, quando appare col suo insopportabile peso (specie nel ricordo delle persone care e perdute), è subito trasformato in immagini lievi, in colori vivi e delicati, in chiare e rasserenanti visioni. Insomma, il dolore, ad ogni sua apparizione, risulta sublimato, illuminato da una fondamentale riconfortante fiducia:

Trepido a ombre del morire, s’accende
il vivere in lampi dorati dentro (XVI, p. 36).

Ogni incontro col mondo si fa esplorazione-creazione ed è ad ogni passo in grado di rivelare insieme la realtà complessa dell’anima e quella della natura (la natura dei colli). Il momento fugace della contingenza si sposa con l’Eterno, la natura respira e le cose mute parlano.

Così si attua una sorprendente rivelazione di vita, di vita segreta. “Si sente – per riprendere le pertinenti parole che Andrea Zanzotto (a cui i Colli euganei sono particolarmente cari) ha voluto scrivere su questa raccolta – che questo discorso già nutrito continuerà col più costante senso di amore-dovere progredendo in un necessario cammino”.

Si diceva prima del dolore e del particolare significato rigeneratore che esso assume nella Daniele Toffanin. Questo sentimento è diventato il motore centrale e onnipresente del libro poetico che nel 2004 la Daniele Toffanin ha voluto dedicare a un’amica e collega, una cara grande amica padovana dalla “rossa criniera”, prematuramente scomparsa. Il ricupero orfico si risolve nel canto, quasi sempre scandito dal verbo-valore “lavava”, solitamente iterato (“lavava lavava”), quasi a suggerire un’aerea, un’incantata continuità in un passato che sta già come sospeso in una sua mitica lontananza. Può darsi che l’origine di questa suggestiva e dominante risorsa stilistica sia rintracciabile nella ben nota poesia di Valeri (che la Toffanin conosce e ama) intitolata “Milano”, specialmente nell’arioso endecasillabo “Noi due, sperduti, s’andava s’andava”. Ovviamente ciò nulla toglie alla specificità di “un’opera – per riprendere le pertinenti parole di Gerardo Vacana nella bella Prefazione al libro – che musicalmente e pittoricamente si affida alla ricchezza, alla varietà dei colori e dei toni, più che alla nettezza del disegno e del segno”.

Si leggano almeno questi versi intitolati Leggenda agordina:

Mai ci fu ora d’amicizia
uguale tra noi e la natura
con la gioia dentro accanto
che rara così si respira
età d’oro della vita
nel dopo sempre fabulata
come tempo senza tempo
leggenda solo
delle Dolomiti agordine.

L’amica diventa proiezione di un rimpianto e di una speranza. Quasi assume lo splendore benefico di una divinità del luogo. Tutto un mondo perduto di immagini e di affetti si raccoglie e si esalta in lei, nella sua commossa evocazione, nella sua celebrazione (“E aveva un festoso trionfo | tra le mani e fiaccole accese | per stanare il tempo che passa”, In attesa del primo albore, p. 50). E così la città, Padova, specialmente nella seconda delle due parti di cui si compone il libro (Il nostro tenero tempo e Il nostro tempo maturo), partecipa di questo mitico ricupero e nello stesso tempo si fa espressione di consuetudini amate e perdute, sopraffatte “da un tempo troppo arrogante” (Accendendo due tre parole, p. 45).

Ognuno di noi sa bene quanto nel nostro tempo il viaggio sia sempre più diventato un fenomeno di massa. Decisamente il viaggio si è banalizzato, si è standardizzato, si è ridotto a un prevedibile elenco di stereotipi. Ciò è almeno provato dai racconti e soprattutto dalle immagini fotografiche e dai filmini che gli amici viaggiatori si affrettano a farci vedere al loro ritorno.

Si capisce che questo stato di cose costituisce una difficoltà enorme per chiunque voglia oggi rendere conto con originalità (con verità) di qualche viaggio che fa. Il rischio di essere risucchiati dai luoghi comuni è un buco nero che incombe ad ogni passo di chi viaggia (tanto più che a monte della nostra tradizione preme un’imponente letteratura di viaggio, davvero sterminata, a cominciare dall’Odissea).

Ebbene, del tutto noncurante di tante difficoltà decisamente scoraggianti, la Daniele Toffanin non ha esitato a fare ancora del viaggio, dell’iter – certo incoraggiata dalla felice esperienza di quello precedentemente celebrato in A Tindari – il filo conduttore di un’ulteriore coraggiosa sfida poetica, realizzata nella raccolta che porta il titolo di Iter ligure (Pisa, Edizioni ETS, 2006).

L’autrice ha voluto affrontare (senza spingersi verso l’esotico o lo strabiliante) la quasi domestica Liguria, ossia la regione che da più di un secolo costituisce, specie per la buona borghesia padana, il luogo delle vacanze marine e di un privilegiato riconfortante clima, il luogo turistico per eccellenza.

Ma c’è di più come agente condizionante. Per chi pratica l’arte poetica, la Liguria rappresenta la patria di elezione della poesia del Novecento. Basti dire che a quella regione appartengono alcuni dei poeti più significativi per la poesia del secolo passato, a cominciare da Eugenio Montale (se non altro per la sua enorme influenza) senza dimenticare, prima e accanto a lui, Angiolo Silvio Novaro, Angelo Barile, Camillo Sbarbaro, Giovanni Boine, in buona parte anche il livornese Giorgio Caproni (che però fu ligure soltanto di elezione). Credo che la Toffanin abbia saputo perfettamente difendersi da questi condizionamenti.

C’è da chiedersi per quale ragione, nel titolo, la Toffanin abbia voluto denominare il viaggio col termine latino iter. La prima risposta che sorge spontanea è che iter, diversamente da viaggio, tende a suggerire uno spostamento non solo verso il passato latino della nostra civiltà, ma anche (a dispetto di certi usi burocratici, tipo iter parlamentare) verso qualcosa di alto, di nobile, e comunque di diverso dal normale e banalizzato viaggio moderno. Aggiungerei però che iter può evocare anche l’idea di itinerario, ossia di un percorso che ci allontana dalle piacevolezze di una sensibilità borghese (di un turismo elegante) per orientarci piuttosto verso qualcosa che costituisce una meta, un obiettivo (e qui non riesco a sottrarmi al ricordo dell’ “itinerarium mentis in Deum” di san Bonaventura da Bagnoregio).

Il libro si articola in tre sezioni, riservandoci un’altra sorpresa. I titoli di queste sezioni non ci propongono le tappe di un itinerario di tipo geografico (o magari turistico), ma orientano i pensieri piuttosto verso valori di sentimenti (“Trame d’armonia”), di visioni (“Suoni-Colori”), di percezioni del tempo (“Pause”). C’è insomma una generale e prevalente proposta di interiorità. Ancora una volta c’è l’assunzione della realtà visibile per trasformarla in messaggio umano, in verità dell’anima.

Dicevo del carattere in certo senso nobilitante del termine iter. Ebbene, coerente con questa linea alta e impegnativa, la Toffanin ci mette subito di fronte, fin dal primo componimento (“Umano e selvaggio”) alle articolazioni classiche dalle quali i poemi prendevano normalmente solenne avvio. Avevano una Proposizione dell’argomento e una Invocazione di aiuto alle divinità che presiedevano alla poesia. Nei versi che danno inizio al nostro libro sono appunto riconoscibili questi stessi procedimenti cari alla nostra più illustre tradizione. C’è una invocazione alla natura e alla vita, seguita da una proclamazione della forza poetica, del pensiero poetico “acceso dal nume creatore”.

Tutto ciò è molto suggestivo, perché è ottenuto con mezzi letterari assolutamente moderni e, meglio ancora, con la particolare lingua (essenzialmente lirica) che ormai sappiamo essere propria della Daniele Toffanin.

Nulla in questi versi fa infatti pensare a una volontà classicheggiante, arcaicizzante. In uno schema che certamente riprende un nobilitante gusto antico, sentiamo circolare tutta la freschezza di una vita vera, una vita partecipata, fatta di palpitante presenza, di accordi nuovi, pieni di colore e di luce. Così ci troviamo di fronte a quella che la voce del “poeta” chiama con accenti quasi commossi

Mia natura variopinta regina
di rare essenze radiosa
puella eterna sempre nuova a festa
ed amicizia nel tuo arboreo vivere.

Si noti come anche qui il termine latino puella abbia la funzione di conferire alla sempre rinnovata giovinezza della natura invocata, alla “variopinta regina”, uno spessore di nobiltà antica.

Questa puella non tarda infatti a rivelarsi nella maestà mitologica di Venere “rapita nel sogno d’amore | che non può morire”. Sono versi che leggo nella quarta poesia della raccolta, quella che porta il titolo “Golfi di poesia” (p.18) e che a me sembra uno dei momenti più luminosi e più esemplari del libro:

O seni verdi d’Appennino
striati da mani di colore
aperti ai venti odorosi
di vele sartie di pelle
ruvida di fatica e sale,

aperti a brezze-echi di poesia
alitata da lontano
ma qui meditante su scogli e
lembi di mare umbratili d’ulivi

il respiro lieve di Venere
rapita nel sogno d’amore
che non può morire,
fra ali ancora invocate
a velare il femminino mistero.

E Venere dallo smeraldo fluttuante
pura rinasce, o poeta,
col suo primo sorriso
e nella tela immortale s’eterna.

Davvero bello questo felice abbandono, questo gioioso trasporto, rilevabile nelle tre prime strofe unicamente nominali e quasi esclamative, ma soprattutto in quell’arioso, in quell’amoroso attacco “O seni verdi d’Appennino”. Insomma, c’è qui una grande apertura di visione, una partecipazione viva di sentimenti e di affetti, una simpatia sincera per una natura attraente, amata, bella da sempre, e sempre nuova nel suo dono antico. Così è, con diverse tonalità, tutto il libro. Voglio dire che ancora una volta torna a dominare in queste pagine della Toffanin un sentimento positivo della vita, sentita appunto come un dono, come un atto d’amore.

Fa bene, allarga il cuore – in tempi troppo spesso soffocati dal pessimismo e dalla più cupa malinconia (quante sono le raccolte che premono questo tasto!) – sentire una voce orientata alla gratitudine, diciamo pure (nonostante tutto) alla gioia di vivere, una gioia che arriva a sprofondarsi nell’intenso significato di “un morire di speranza” (Al poeta, p. 34).

Ecco la conclusione della seconda parte di Catarsi e scoperta (p. 31). Le parole sono rivolte al precedente “mio cuore”:

E rinato al fermento della vita
come al primo fuoco acceso nel mondo
gioia risenti dentro e sulla pelle,
imbrigliato il treno del tempo reale
al binario dei più segreti battiti.

Non meno rasserenanti e luminosi sono i versi della poesia intitolata “Sono” (p. 33), dove l’io poetico si fonde intimamente con la natura per concludere con questi accenti commossi nella loro bella semplicità:

Sono una donna
che seduta sul molo a Monterosso
nell’aria muta di colori,
si dondola in pensieri con le barche
poi raccoglie la sua anima dal mare
e dal sole attende risposta chiara.

Dicevo prima che l’iter ci accosta all’idea di un itinerario e che, in questo senso, tende a portarci verso un traguardo. Non c’è pagina di questo libro che non ci faccia sentire questa discreta tensione verso una meta non chiaramente definibile, ma solo avvertita in controluce come emozione, sentita dal “cuore ardente” come un altrove delicatamente percepito attraverso le visibili meraviglie colorate della natura ligure e intimamente collegato ai moti segreti dell’anima, talvolta in rapporto con certe lontane emozioni provate nell’infanzia. Ecco uno dei testi che più rivela il senso di questo singolare e suggestivo itinerario. È quello intitolato “Al davanzale del creato” (p. 35):

Sempre ansima la strada del pensiero
su al varco del quesito
e spacca l’aspra pace
intima chiusa a rilento

fibrillante ora in frammenti impazziti
con macchia d’ulivo e
graffiante roccia fiorita
dal vento arruffata l’antica armonia.

Solo incanto di trasparenza rara
al sublime davanzale del creato
con ali e canti ricompone
il musivo intarsio d’anima

e alla mente apre immenso
orizzonte di luce
linea d’aria d’acqua
che lontana riluce dentro.

Ebbene, questo modo di sentire mi sembra restituire al viaggio – all’iter – il suo significato profondo, illuminandolo dall’ interno e respingendo ogni tentazione di facile illustrazione turistica.

Nel 2006 Maria Luisa Daniele Toffanin ha avuto la felice opportunità di riproporsi a un più ampio pubblico con un libro accolto nella collana Elleffe (diretta da Cesare Ruffato) della casa editrice Marsilio, un libro che per molti aspetti ha la funzione di dare un’immagine complessiva dell’opera poetica della poetessa, consentendoci anche di ricuperare, per concludere, i principali aspetti finora sottolineati.

Il titolo scelto per questa nuova importante pubblicazione ci propone una parola latina: Fragmenta. È un titolo che, per quanto riguarda il suo significato, dovrebbe avvertire il lettore circa le non grandi pretese del libro: la parola Fragmenta annuncia infatti, con indubbia modestia, non un’opera organica, ma soltanto dei pezzi, dei frammenti, o magari niente più che degli avanzi, dei rottami, o anche delle rovine, evidentemente di un oggetto unitario scomparso, di un’opera compiuta e organica andata appunto in frantumi.

Tuttavia questo titolo, qualora sia considerato nel suo aspetto formale, rinvia nello stesso tempo a qualcosa di molto alto e prestigioso: rinvia nientemeno che al Canzoniere del Petrarca nel suo titolo colto, che è Rerum vulgarium fragmenta.

Se poi cominciamo a leggere l’opera, il testo liminare che subito incontriamo ha anch’esso un titolo in latino: Introibo. A nessun lettore che oggi abbia una certa età può sfuggire che questa parola (un verbo) ci riporta direttamente, prima ancora che al quarto versetto del salmo 43, alla formula di apertura della messa nella sua forma tradizionale, formula che comporta l’esplicito riferimento alla divinità (Introibo ad altare Dei).

Questo riferimento alla liturgia eucaristica in latino (abbandonata nel 1964, non senza aspri contrasti, col Concilio Vaticano Secondo) porta con sé, fin dall’inizio, una certa nota di ricupero, di ritorno al passato, una sottile delicata venatura di rimpianto, anche se bisogna riconoscere che esiste (o è esistita) l’espressione laica “fare l’introibo” per dire semplicemente che “si entra in discorso”.

Dunque, per queste due iniziali ragioni, il libro della Toffanin ci porta subito su un piano sicuramente alto, arriverei a dire persino un po’ ardito, voglio dire compromettente o rischioso, poiché instaura un inevitabile rapporto, in primo luogo, addirittura con il grande capostipite della poesia lirica occidentale (Petrarca) e, in secondo luogo, con l’atto liturgico più altamente sacro che esista nella nostra cultura (la messa). Si tratta insomma di rispondere in modo adeguato a poesia e religione nelle loro forme più elevate, nelle loro manifestazioni più nobili. Poesia e Religione sono, in certo senso, due archetipi.

Adesso però, di tutto questo, restano soltanto frammenti, e questi tendono a organizzarsi in una sorta di celebrazione, portandoci dal riconoscimento rassicurante degli Archetipi alla speranza a cui sono indissolubilmente legate le Attese (Archetipi e Attese sono le due grandi sezioni che appunto raccolgono – dotandoli di un senso e di una direzione – i frammenti, anzi i fragmenta).

Non credo che la parola Archetipo sia qui usata dalla Toffanin in qualche sua accezione tecnica (alla Jung ecc.). Mi pare di capire che la parola voglia soltanto significare dei modelli costanti, dei punti di riferimento originari e non modificabili, delle verità che uno si trova dentro, per così dire, dalla nascita, come degli a priori. Come si arriva, nel concreto del testo, a questi archetipi?

La domanda ci porta nel cuore stesso dell’opera poetica della Toffanin. Infatti agli archetipi si arriva tramite una ricerca di natura squisitamente lirica, quella che appunto ci propone il libro di cui ci stiamo occupando. Agli archetipi si arriva attraverso un percorso che ci tiene costantemente in contatto con la vita che viviamo, con le emozioni che quotidianamente proviamo, con i dolori che inevitabilmente affliggono i nostri giorni spesso tanto difficili.

Nella Toffanin il mutevole è osservato nelle sue più varie manifestazioni con vigile, con amorosa attenzione, ma è ad ogni istante osservato con l’occhio di chi pensa all’immutabilità degli archetipi. C’è un sentimento che accompagna il lettore lungo tutto il libro: è, in modo più o meno evidente, una tormentosa angoscia legata al timore che le cose non abbiano più alcun senso (il “nonsenso delle cose”, dice l’autrice già da Introibo), un’angoscia legata al timore che tutto si sia irrimediabilmente deteriorato. C’è insomma, alla base, un sentimento tragico della vita. Ma questo timore o questo sentimento tragico comporta anche sempre l’insopprimibile e intima convinzione che l’attuale nonsenso sia il risultato di una perdita, di una realtà perduta o deteriorata, di qualcosa che sia però in qualche modo ricuperabile.

Per questa via frammentata e dolorosa la Toffanin si apre la strada maestra per la sua ricerca, per tentare il ricupero di ciò che permane, di ciò che dà un senso alla vita (gli archetipi). È una ricerca, come ho detto, che non ha nulla di intellettualistico, nulla di intenzionale, di volontario, di costruito. Al contrario, essa si attua nella spontaneità, nello slancio del cuore, in una vitalità sempre rinnovata, e comunque sempre capace di alimentare una liricità particolarmente felice, quella stessa che già si è potuto rilevare nelle precedenti raccolte dell’autrice.

Gli archetipi (o ciò che permane dando senso alla vita) si illuminano via via attraverso la contemplazione, spesso turbata o commossa, delle cose.

È fondamentale in primo luogo il sentimento di una benefica primordiale maternità della natura, il riconoscimento della Madre terra, della sua forza e dei suoi ritmi.

Non è possibile per questo dimenticare un testo che a me pare di sicura e tesa ispirazione, quello significativamente intitolato “Materni scorci” (pp. 36-37). Sono le emozioni suscitate da un limpido tramonto d’ottobre su Padova. Il sole “indulgente sui colli” dà particolare risalto a quelli che la Toffanin, cresciuta nella sua diletta Padova, chiama amorosamente “cari materni scorci”, prima di tutto quelli che danno risalto alle cupole delle basiliche di Sant’Antonio e di Santa Giustina. E così, attraverso i ricordi, si vanno in lei ricostituendo, come in un prodigioso puzzle, i frammenti di un’età “trascorsa percorsa | pei portici avvolgenti | per slarghi luminosi | trasparenti di miracoli”. Con l’avanzare dell’ora, gli “slarghi luminosi” (che per un attimo lasciano intravedere, mi sembra, il Prato padovano per eccellenza, quello della Valle) ci portano alla magnifica contemplazione del “prato della notte”. Ma qui è necessario abbandonare ogni tentativo (sempre indigente) di parafrasi per ripercorrere le vigorose, le luminose e giuste scansioni di un testo nato da un’autentica, da una viva commozione:

Opus musivo nel prato della notte
terso brillante di miti archetipi
Dai primordi riletto dalle genti
Dal limite dell’umana specula
Per trarre gli auspici scalzare il destino
Svelare alfine della madre terra
Quel provvido moto, vero inquisito.

Molto bello, davvero, questo intenso sguardo verso il cielo stellato. Molto bello perché è uno sguardo a cui, in questa poesia, si arriva dopo un progressivo approfondimento e allargamento e innalzamento dei ricordi, da quelli individuali dell’infanzia, a quelli comunitari della città nei suoi più eccelsi monumenti per giungere infine, appunto, a quello di tutta l’umanità fin dalle sue più remote origini, a quel “prato della notte”, a quel cielo stellato che ha ispirato i grandi miti, che ha illuminato le filosofie, prima fra tutte la speculazione che ha reso certo Platone circa la realtà del suo mondo delle idee, immutabile ed eterno, fonte infinita di consolazione e di speranza.

Qui la Toffanin ha sicuramente sfidato un luogo quasi comune, perché non c’è dubbio che il cielo stellato è stato spesso celebrato in grandi testi (specie moderni) di poesia e di pensiero, da Leopardi, a Nerval, da Rimbaud ad Apollinaire, per nominare soltanto alcuni fra i maggiori. Ma la Toffanin ha saputo felicemente staccarsi dalla imperiosa suggestione di quei modelli famosi. È rimasta se stessa. È riuscita a darci una visione generale che nasce dalla sua città, dalla sua realtà vissuta negli anni, dalla sua specificità. Insomma ha percorso col suo ritmo una strada sua, fatta (a me pare) di emozioni autentiche, non propriamente letterarie.

La madre terra ispira molti altri testi del libro. Se ne può segnalare almeno uno, quello intitolato (come la sezione che lo comprende) “In stanze della vita” (p. 39):

È fiorito tutto improvviso
il prato del Toro
in lucenti petali lievi
nuove corolle di vita

come, dopo amare piogge,
su slarghi di sole
spaccano la terra
dal profondo grembo

primizie-tenerezze
nutrite con amore-magie
tramate dall’antica Madre
in stanze della vita

raccolte da altre acerbe mani
pensose leggere
in sacri riti cari al Cielo
a perpetuare
il dono-mistero dei nostri giorni.

Può darsi che l’attacco debba anche qui qualcosa a Valeri. Ma subito la Toffanin prende con decisione la sua strada e ci dà la gioia di toccare quasi con mano la meraviglia del mondo che fiorisce e si allarga ai misteri del Cielo. Per tornare ora a quanto si è già potuto dire considerando il titolo del libro, leggiamo una breve poesia che si trova nella conclusiva sezione “Attese”, quella intitolata “Io petalo piuma fiore” (p. 112):

Dentro in antico coccio
schegge di pruno
farfalle di pesco
sogni di primavera
a ruvidi stecchi librati
senza più estive promesse.

Fuori nevica l’albero
piume d’uccello
e corolle stroncate
da vento crudele
che non lascia fiorire
attese raccolte
nel calore del cuore.

Io petalo piuma fiore
ora in turbine pazzo di dolore.

Dimmi, ti prego,
nel tepore segreto
si potrà preparare ancora
nido di nuova gioia?

La natura è qui osservata nel suo momento di distruzione, di morte. L’unità e l’armonia dello splendore primaverile con le sue “estive promesse” si sono ridotte ad essere soltanto immagine di una realtà distrutta, smembrata, fatta appunto di resti, di frammenti sparsi nei luoghi più casuali e incongrui (dentro a un coccio restano soltanto “schegge di pruno” e “farfalle di pesco”; dall’albero il vento fa scendere, come neve, soltanto le piume di un uccello scomparso). Tutto ciò è interiorizzato, divenendo figura dell’anima e concretandosi nel lamento di un distico a rima facile e baciata ( “Io petalo piuma fiore | ora in turbine pazzo di dolore”). Ma la poesia non finisce qui, non si spegne, non si esaurisce nella rassegnazione. Si apre, nella sua conclusione, in parole di attesa, di speranza. Tutto si risolve nell’intensità di una domanda che non sopprime l’angoscia, ma si affaccia anche su un orizzonte che lascia intravedere un ritorno o magari una forma di resurrezione. Eccoci di fronte a qualcosa che potrebbe essere una preghiera, perché la domanda è rivolta a un “tu” ed è implorante (“Dimmi, ti prego…”):

Di fronte ai beni perduti, di fronte al dolore che inevitabilmente accompagna lo scorrere inesorabile del tempo, la speranza è certamente messa a dura prova. Ma la natura ci fa continuamente conoscere una forma di rinascita. Di qui il pensiero della Toffanin può trarre dalle piume (che sembrano neve) di una vita distrutta (quella dell’uccellino) un grande motivo di speranza, la speranza di un “nido di nuova gioia”, di una nuova primavera.

In ciò è ancora una volta riconoscibile il messaggio fondamentale e profondo che incessantemente e in forme diverse la Daniele Toffanin comunica da un decennio al suo lettore. In questo orizzonte di speranza sta la verità più intima di una voce poetica nuova dal timbro insieme familiare e grave, voce per noi di grande e rasserenante conforto.