La stanza alta dell’attesa fra mito e storia – Voci critiche di Nazario Pardini e Mario Richter
Nazario Pardini
Prosimetro. Una storia, una vita, una preziosa avventura di canto e meditazione; di affetti e incontri; di vicissitudini di rara valenza memoriale. Sarebbe lungo dissertare su questo antico genere letterario che affonda le radici nei primordi della nostra letteratura e vanta nomi di grande prestigio: da Severino Boezio a Brunetto Latini, da Dante a Boccaccio… fino a Dino Campana (Canti orfici), e a John Ronald Tolkien (Il signore degli Anelli). Insomma un equilibrato connubio di prosa e poesia. E qui c’è proprio questo ensemble misurato e compatto; proporzionato e lirico di una scrittrice che ha fatto della vita un serbatoio da donare alle richieste del canto. La Toffanin si narra a vele spiegate; racconta un mondo di episodi da storicizzare; da donare ad una poesia fresca e cristallina, maturata su abbrivi di intima valenza; su valori che sempre l’hanno distinta: fede, amore, gioie e melanconie, naturali messaggi di simbolica struttura esistenziale; il suo canto è di una euritmia avvolgente e convincente, di una sonorità che fa da appoggio a tanta esplosione umana. D’altronde molte sono le connessioni epigrammatiche che vengono a galla e chiedono di tornare a vivere: la Nostra dà loro la forza della narrazione e della poesia. Quello che si ripropone è di tramandare ai figli, ai nipoti, alla storia fatti e vicende succedutisi nel corso degli anni, tormentata dal fatto che così importanti avvenimenti possano essere ingoiati dalla insaziabilità dell’oblio. La stanza alta dell’attesa fra mito e storia, il titolo di questa miscellanea. Si inizia da una splendida lirica dedicata alla sua Padova:
Mia città dell’utopia
mondo limpido di gente fida
il sentire sincero umile
pur d’interiore spessore
gli occhi non baluginavano
ancora d’arroganza.
“Nacqui nella stanza alta sotto l’ala della Madonna azzurra, non quella di Antonello ma opera di anonimo ceramista, dono di nozze ai miei genitori per la camera degli sposi, non di Mantova, del Mantegna, ma di Padova, centro storico, via Aristide Gabelli 15. Nacqui nel letto grande ove si compie il rito dell’amore, nasce la vita nuova e l’ultimo respiro si spegne…”, confessa la Toffanin. La prosa si fa lirica, poeticamente intrisa di un’intimità acchiappante, per lasciare spazio a La madre vestale della casa, dove rispende la calda voce di un’anima tutta volta a ritrovare se stessa e il mondo primigenio di antiche figure familiari. Sacre lettere scrigno, bombe mortali, casa gomitolo di speranza, sollievo di amicizie, la vita di via Gabelli, stanze amicali, luoghi mitici, presenze sbiadite dal tempo, zii Leone e Nino… tutto si muta in immagine; una realtà vissuta che, col tempo, ha assunto lo stato di grazia per fioriture liriche.
(…)
E nel periodo magro postbellico
era già festa l’andare insieme uniti
sostare in sincere parole e saluti
in slarghi d’amicizia sempre allargati.
Ancora all’ombra dei portici nelle piazze patavine
alitano echi di voci autentiche riverberi
di questo ardore riacceso dal ritrovarsi vivi
nella vita rinata a un’aria frizzante di attese.
Vagare nel travaglio della memoria
non è poeta ricerca del tempo perduto
sofferta nostalgia del passato fioritura non più rifiorente
ma ricupero di calchi da calcare, cifra di un vivere altro
per quelle presenze, oggi conforto al dopo
cum-divisione di gioia e dolore
per una nuova umana dimensione.
Persino le cose negative, trafitte dalle frecce di un ritorno memoriale, assumono connotati di poetica valenza; di ontologica commistione scaldata da una saudade che si impadronisce della mente dell’Autrice. Un nostos di empito umano che attraverso un mare non sempre liscio riesce ad approdare ad un porto di luce e di speranza: “… Ci ritrovammo in un’altra Stanza bassa a raccontarci ancora la vita in un cratere indicibile di attese, con un patrimonio già consolidato di amicizia, cultura, bellezza, accumulato in tempi non facili. Inevitabili le nuove difficoltà, superate poi nel tempo che sempre tutto leviga e risana. Però è vero, facevano bene loro, i grandi, a credere nei miracoli!”. Quei miracoli che fanno della vita un patrimonio unico e prezioso di cui la Toffanin è cosciente e di cui si convince sempre più a mano a mano che la narrazione si fa zeppa di fatti e di emozioni; di raccolte intimità familiari che il tempo con le sue fauci a poco a poco ci sottrarrebbe se non cristallizzate in pagine di storia:
(…)
La Befana! Fu esplosione muta del gruppo.
Apparizione solo di un attimo
infinito poi scomparsa.
Un sogno? Un’emozione unica
intima e corale
che per i cugini smaliziati
fu segreta domanda sulla realtà.
Ma non conta risposta
fu il vissuto insieme nell’ora più tarda
fu l’inatteso di un’attesa rituale
che lasciò dentro per sempre
un insieme di gioia e turbamento.
Tanta poesia, tanta storia e tanta confessione emotiva fanno di quest’opera un approdo di forte connotazione umana e artistica a cui la Nostra è pervenuta dopo anni di lavoro e di creatività; pagine di vera intuizione dove la memoria si fa protagonista sfornando episodi da conservare; da tramandare per la loro epicità: (Nazario Pardini)
L’amicizia scorreva per le antiche vie
L’amicizia scorreva come luce
per le vie antiche più oscure della città
e riaccendeva le piazze ariose e luminose
ove gli incontri più frequenti s’allargavano
per desiderio così vivo dell’insieme
per quell’aria lì di famiglia respirata
nobilitata dal palazzo della Ragione.
S’innalzava come faro nell’abside di Santa Sofia
ove l’amicizia si faceva preghiera
intorno al monsignore Pierobon
don Pietro e la sorella Letizia
stretti a tutti noi parrocchiani.
Lì al vento di guerra
si erano sposati i miei genitori
lì il mio fonte battesimale
la mia prima comunione
i miei giochi piccini bambini
sotto l’occhio esperto della Letizia
che sulle nostre orme sempre nel grande
giardino all’ombra dell’immenso noce.
Ma il legame più forte fra tutti noi e monsignore
fu il nipote Luigi giovane cattolico universitario
anima della resistenza fucilato con altri partigiani
fu quel mito ancestrale del dolore
che abbraccia gli uomini per sempre
e si fa memoria eterna più del nome dato ad una caserma.
Dal testo
La silloge è così divisa:
1- Rituali in cui si formò un’anima
2- L’attesa
3- Luoghi-persone
4- Giochi e stupori
La stanza alta dell’attesa fra mito e storia
A mia madre Lia e a mio padre Gino
in Padova la mia città natale
Grazie, Paola, ho ascoltato i tuoi consigli. Allora, nel lontano novembre del 2009 al palazzo Panciatichi a Firenze, mi avevi sollecitato a raccontare l’origine della mia creatività. Con me presentavano le loro esperienze anche Isabella Horn Baldelli, Cristina Morandi e Laurana Barra. Ed io a dire con entusiasmo e verità a voi di Sguardo e Sogno alcuni squarci del mio passato evidenziato in alcune poesie lette in quel momento. E voi a seguirmi con simpatia e partecipazione tradotte, cara Paola, nel tuo invito a continuare quel racconto per iscritto. Ora, sulle orme di quell’intenso pomeriggio e delle tue parole, ho tentato qui l’impresa, iniziando dalla Stanza Alta, luogo della mia nascita in via Gabelli 15 a Padova.Sono andata così a ritroso nel tempo mitico dell’infanzia e ho ritrovato la mia minuta vicenda inserita tra le pagine del secondo conflitto mondiale proprio nel carteggio fra mio padre e mia madre risalente a quel periodo. Ho sentito allora di appartenere all’universa famiglia nelle mie prime attese sospese fra mito e storia.
I parte
Rituali della grande attesa in cui si formò un’anima
Padova
Mia città dell’utopia
mondo limpido di gente fida
il sentire sincero umile
pur d’interiore spessore
gli occhi non baluginavano
ancora d’arroganza.
Nacqui nella stanza alta sotto l’ala della Madonna azzurra, non quella di Antonello ma opera di anonimo ceramista, dono di nozze ai miei genitori per la camera degli sposi, non di Mantova, del Mantegna, ma di Padova, centro storico, via Aristide Gabelli 15. Nacqui nel letto grande ove si compie il rito dell’amore, nasce la vita nuova e l’ultimo respiro si spegne. Letto custode di memorie delle nonne, delle mamme, della vita e della morte. In quel letto spirò mia madre in una dimensione ancora estetica, se si può dire con Raboni della morte, fra le braccia figliali, le mani strette in quelle del nipote, il cuore gelido come il torrente d’inverno. Mio padre morì ogni giorno un poco in un letto altro chiuso in una morsa tecnologica quando solo gli occhi parlano e la parola non ha più fiato. La vita e la morte strette insieme anche per chi cavalca ogni giorno destrieri d’invenzioni non per sentirsi vivi ma per sfuggire la morte stessa. Bene, nacqui forse alla luce del mattino, ora meno grata alla mia vista ma ricercata per tutta la vita, fra le premure di donne amiche, la Jolanda per prima, e l’ostetrica più famosa. Nacqui all’ombra sacra della romanica chiesa di Santa Sofia, in una casa aperta all’attesa ancor più in quel periodo bellico quando l’assenza paterna si dilata per ore e giorni, anni di sofferta speranza che stringe tutta la famiglia in un cerchio di preghiera, conforto, aiuto. E l’amicizia si erge come un grande albero che dà ossigeno e rifugio.
Madre miracolosa madre
La madre vestale della casa
tenuta viva dalla sua speranza
la mia vivace presenza piccina
da antiche figure familiari
succhiava attimo per attimo
l’attesa del paterno ritorno
nel salotto buono ricuperato
rifiorito da interiore sua linfa
dopo la fuga nella campagna veneta
alla bellica urgenza
l’attesa dello sposo dai campi imici
a lei stretto da un rosario epistolare
d’amore dolore premura
a me, stella piccina
che accendevo il vuoto dell’ abbraccio
ispiravo al padre tenerezza quale
una bambola in dono il giorno compleanno.
Madre miracolosa madre
col padre assente
universo di luce riflesso
nella mia vita Sempre.
In sillabe ambrate d’eterea grafia
da devote mani serbate
in sacrari di memoria
si riconferma, padre, altro tuo tempo
sotto quei cieli plumbei
solo da neri corvi solcati
per magia d’amore
mutati in candide colombe
rassicurante voce del tuo esserci là
alla sposa-madre. Sola.
In sillabe riemerse oggi, 29 marzo
palpita di tenerezza
il tuo sogno-dono dal segreto spazio
di una bambola coperta di baci
per me piccina ancora
nata al vento marzolino oggi, allora.
L’anima in altra età
brivida ora all’emotiva visione e
subito s’addensa in stupore
suonando note meditanti.
La vita piccina fra voi rinsaldava
nel vuoto dell’amplesso
la melagrana succosa dell’amore
quella stagione felice dei fiori
sacro profumo sull’altare di Dio
radicava quale tenace virgulto
nella passiva resistenza imica.
La vita piccina-comune linfa interiore
stringe avvicina oltre l’umano confine
nell’orizzonte infinito del cuore
in albe tramonti odorosi di primule e viole.
Campo di Benjaminow n. 5437- 1944
https://nazariopardini.blogspot.com/2018/02/n-pardini-legge-inedito-di-m-l-daniele.html
Mario Richter
In questa organica raccolta dal carattere rimemorativo e dall’impegno poeticamente autobiografico, Maria Luisa Daniele Toffanin ci consegna tutto un mondo legato ai tempi incantati dell’infanzia. Si tratta di una realtà ricca di suggestioni, illuminata – tramite un’alternanza di prosa e versi – da ampi slarghi elegiaci, da visioni e meraviglie. Ogni cosa vi trae vita e vigore da un irrinunciabile onnipresente sentimento, quello dell’attesa, sempre alimentato da una costante e vigile speranza. Avvalendosi del prezioso commovente carteggio che in anni difficili ha mantenuto costante il rapporto fra i suoi genitori divisi dalla guerra, la poetessa padovana ha ritrovato commosse movenze di forza lirica (si veda almeno Altri pomeriggi: “O amicizia senza tempo nei giardini”, con tutto ciò che segue). Non è possibile dimenticare lo straordinario slancio emotivo presente nei versi che riguardano il padre reduce dalla tragedia bellica (“E al vento d’anemoni e viole / umile sorriso all’erba della terra”). Maria Luisa Daniele Toffanin ci fa ora dono, con nuovi e già noti accenti, della sua coinvolgente impresa di poesia, il cui interesse, grazie a molte situazioni “universali” e intimamente umane, può raggiungere con efficacia anche pubblico non strettamente padovano.