Incontro via Zoom con la V B del Ginnasio Liceo Tito Livio di Padova


Intorno al libro di poesia e prosa

“La stanza alta dell’attesa tra mito e storia”

Incontro via Zoom con la V B del Ginnasio Liceo Tito Livio

organizzato dalla prof. Maria Pia Dimech

Finalmente il tanto atteso momento per parlare con voi giovani di questo mio libro, fortemente boicottato dal Covid. Edito nel novembre 2019, dopo una prima conversazione al Cenacolo di Poesia “Insieme nell’umano e nel divino” di Praglia, è presentato ufficialmente solo nell’ottobre 2021 nel prestigioso Museo degli Eremitani per il gentile intervento della dott. Liana Donolato del Comune di Padova. Finalmente oggi, su invito della prof. Maria Pia Dimech, l’occasione di rivivere con voi queste pagine di vita e di storia nello sfondo della Padova negli anni ’40… Ecco il mio immediato grazie a Maria Pia che con piacere conosco ora dopo diversi contatti telefonici.

E inizio con la spiegazione del titolo, precisando che la stanza alta è il salotto buono della mia famiglia, residente in via Gabelli 13 al terzo piano, con soffitti molto alti. Qui con amici e parenti, in questa fase ancora bellica, attendiamo il ritorno del padre dai campi di concentramento da me vissuto nell’età mitica dell’infanzia, nell’atmosfera della seconda guerra mondiale di cui però mi ero proposta di non parlare oggi. L’argomento è infatti approfondito ne “La grande storia in minute lettere”, nata dal carteggio, 550 lettere circa, tra mio padre e mia madre dal periodo della loro conoscenza al suo ritorno a casa.

Ecco l’attesa era appunto del padre, uno dei 650 mila e più I.M.I., acronimo inventato da Hitler per Internati Militar Italiani, soldati fatti prigionieri per il rifiuto di collaborare con la Germania, in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 in cui l’Italia, rotta l’alleanza, si allinea con gli angloamericani. Questi Internati Militari Italiani sono chiusi in campi di concentramento polacchi e tedeschi senza possibili interventi della Croce Rossa: non godono della convenzione di Ginevra sui diritti dei prigionieri di guerra. Saranno liberati solo con la sconfitta della Germania del gennaio 1945. Mio padre tornerà nel settembre. Chi volesse rivedere il libro già citato, verrebbe a sapere che è stato fatto prigioniero con i commilitoni in Grecia, vicino al Pireo e che, una volta deposte le armi secondo gli ordini dati dai tedeschi, tutti sono trasportati in carri bestiame alle destinazioni sopra citate. Concludo con un altro riferimento alla guerra ricordato nella poesia “Non dirò dell’attesa di Pippo” in cui accenno al rifugio da me frequentato nelle notti, portata in braccio dallo zio partigiano, quando gli aerei di Pippo bombardavano la città. Questi Pippo erano aerei da caccia notturni delle forze alleate che compivano solitarie incursioni nel nord Italia chiamati popolarmente così dal nome tecnico Piper, pronunciato in inglese «paiper» ma in tedesco «piper». Per cui, ogni volta che si sentiva il caratteristico e inconfondibile rombo, i soldati tedeschi dicevano: «Piper! Piper!» simpaticamente italianizzato in «Pippo» (tratto da sabatosera.it).

E ritorniamo, dopo queste necessarie precisazioni, al nostro discorso. Non è che io abbia una reale conoscenza del tutto, ero troppo piccola, ma come direbbe Zanzotto l’ho succhiato dal latte materno. A suo dire la poesia nasce proprio dal vissuto della propria terra ricevuto attraverso il latte materno, ovvero l’ambiente familiare della propria infanzia, come ribadiranno anche Pasolini e Turoldo. Sollecitata dalla docente racconto della mia amicizia con Andrea Zanzotto per dieci anni fino alla sua morte, un’amicizia fra noi leggera, come scrivo io, derivata dall’incontro con il poeta e gli alunni dell’istituto Alberti di Abano da me organizzato. Devo premettere brevemente che, già prima di andare in pensione, per continuare a seguire ancora i miei ragazzi, mi ero aggregata all’Associazione Levi-Montalcini creando un centro ad Abano di orientamento scolastico ma anche di progetti culturali. Per fare una scelta giusta nella scuola superiore è necessario avere più conoscenze possibili. La scelta giusta è determinante per realizzare un lavoro tale che, come diceva Rita Levi-Montalcini riportando le parole di Primo Levi dal libro “La chiave a stella”, potesse corrispondere alle proprie attitudini, passioni, interessi. Solamente in questo caso si possono avere le premesse per essere felici svolgendo il proprio lavoro. È la sacrosanta verità: noi insegnanti se lavoriamo con passione possiamo sentirci, in mezzo ai nostri ragazzi, soddisfatti e felici anche se avvertiamo la stanchezza dell’impegno. La prova del forte legame creato con la classe è che questi ragazzi diventati uomini ancora ti scrivono, hanno con te un colloquio umano, il dono più importante che si possa ricevere. Qualcosa di sacro. E ritornando a Zanzotto, il Nostro dava un grande valore alla forza del sacro della vita e della morte in una società, anzi affermava che se viene meno, la società stessa facilmente si sgretola priva ormai di tutti i valori fondanti.

Dopo questi cenni sulla mia attività, desidero ora percorrere con voi le vie di Padova nelle quali è avvenuta la mia formazione umana e ho respirato l’atmosfera della rinascita postbellica di una città unita dai comuni ideali dell’amicizia, solidarietà, in pieno slancio vitale. Rendo tutto questo nella poesia “Via Gabelli” (pag. 32) descritta nella sua fisicità: i portici affettuosi, i polmoni verdi con vasche di pesci all’interno dei portoni, dalla parte opposta appartamenti con terrazze ricoperte di glicine degradanti sui tetti delle officine di Sordina dove si costruivano arredi in ferro per gli ospedali. E in lontananza l’abside della chiesa romanica Santa Sofia. Di questa magica via descrivo le figure più significative: Maria la pittrice, Giannina la scrittrice, la Pamio un personaggio particolare, la zia Lina Crescente con le sue galline, zio Toni, il partigiano violinista e Ada la pianista. In tale atmosfera di musica e di canto si percepisce la bellezza della vita insieme vissuta nell’amicizia: qui si forma la mia anima, qui mio padre al ritorno trova un gruppo di sodali che lo sostiene nel suo difficile inserimento nella vita da reduce, dopo questa pagina di storia imica solo ora letta con onestà intellettuale.

Vedendo la fotografia della terrazza di via Gabelli 13, tutta fiorita di bianco e pure di glicine, nel giorno del matrimonio dei miei genitori, mi sono ispirata a questa visione per ricreare l’immagine delle loro nozze e sottrarla al tempo come stampa di uno stile, di un costume proprio dell’epoca: uomini vestiti da ufficiali in grigio verde, donne con cappelli a larga tesa, mia madre bellissima in un abito di seta bianco e mio padre in divisa, tutti in corteo dalla chiesa di Santa Sofia al ritorno verso via Gabelli. Poi il rinfresco con la foto ricordo degli sposi circondati da tutti gli amici: Paolo Sambin, Jolanda e Orazio Mengoli, lo zio Leone, i genitori, assente il padre della sposa l’onorevole Sebastiano Schiavon morto solo a 38 anni. Così nella poesia “Nozze al vento di guerra” (pag. 41) e gli occhi tutti dai terrazzi vicini partecipavano a questa emozione. E anch’io scrivendo questi versi.

Quindi, cari ragazzi, il libro è certamente autobiografico, e fa capire quanto io abbia risentito nella mia crescita di questi valori appresi dai Grandi che si incontravano negli eventi della vita, ma anche sotto i portici, per le piazze o nei salotti, legati dagli stessi sentimenti e di come abbia subito scoperto, succhiandolo in me come nettare, che le cose prime dell’esistenza sono proprio l’amicizia, la solidarietà e il desiderio di procedere insieme, in questo caso di rinascere insieme. Quindi il libro è anche storia di Padova. Non mi stanco mai di ripeterlo. Ho avvertito questo anche da racconti di mia madre relativi ad altre tradizioni del tempo: sono nata, come si usava allora, in casa; la mamma è stata assistita dall’ostetrica più nota della città, e dall’amica Jolanda che per starle accanto lasciava la sua famiglia. Premesse queste di un modo di vivere intensamente partecipe, affettuoso, diventato quasi un mito perché Jolanda sarà presente anche alla nascita delle altre due mie sorelle. Esperienze uniche, da leggenda. Un mondo, quello degli anni ’40, davvero particolare in cui esistono, come accennato prima a proposito dello zio Toni, anche i partigiani. Moltissimi a Padova – interviene anche la Dimech con ricordi familiari –, effettuano una forma di resistenza al nazifascismo, estesa nell’Italia del nord, coinvolgente tutti: cattolici e non, comunisti ed altri, anche donne, in qualche modo autogestiti, con vita nascosta nelle campagne, nelle montagne, con continui rischi soprattutto nella fase della ritirata dei tedeschi macchiata da terribili mortali rappresaglie sui civili (vedi a Saonara in villa Bauce: uno dei troppi esempi).

E questo mi porta a pensare, non in ordine cronologico ma per analogia, che anche il nipote di monsignor Pierobon, un giovane ventiduenne cattolico universitario partigiano, è vittima dei fascisti nel 1944, come anche il famoso frate di sant’Antonio Placido Cortese di cui sarebbe interessante parlare… episodio nell’insieme disumano. Immediatamente risento l’affetto e l’amicizia con cui tutta la parrocchia di Santa Sofia si stringe intorno a monsignor Pierobon per la morte del nipote, amicizia esaltata nella poesia “L’amicizia scorreva per le antiche vie” (pag. 52). Anche questo è un ricordo respirato dal latte materno, dalle conversazioni degli amici dei miei genitori e dal cuore della mia famiglia.

E a te Alex, che mi chiedi perché non parlo mai della scuola frequentata, rispondo che sono stata educata fin da piccina dallo stile di vita condiviso da tutti questi cari amici devoti agli stessi valori e soprattutto sono stata educata dalla loro cultura poggiata sulla bellezza della pittura, della scrittura, della musica, del teatro… tutto quello che rendeva migliore quel mondo postbellico. Nell’infanzia infatti si assorbe tutto dalla vita perché siamo ancora puri. Poi certamente frequento la scuola Ardigò in via Agnus Dei, con il rifugio nel sotterraneo durante le incursioni di Pippo, e pure la scuola Belzoni al Portello, dove insegnava mia mamma che aveva in classe i figli dei giostrai del Prato della Valle. Così io, grazie ai biglietti da loro donati, trascorrevo bei pomeriggi in giostra ovviamente accompagnata da un adulto.

Ora vi presento Maria e Giannina, due figure sinonimo di bellezza data la loro vocazione artistica: donne di grande spessore ma anche di grande umiltà, amiche di tutti, che frequentano non solo via Gabelli ma anche le piazze e sotto il Salone dove vanno a fare le spese in un continuo scambio di saluti. Giannina è nota per le sue poesie e i suoi romanzi per ragazzi, editi ancora da “Il Messaggero di Sant’Antonio”, con cui vinse molti premi. La sorella Maria invece è una nota pittrice, come già sottolineato.

E tu Pietro, intanto, mi aiuti nella lettura di questa poesia, “Giannina e Maria” (pag. 37), che completo illustrando l’immagine degli occhi puri di mio padre definiti da Giannina comei primi fiori di rosmarino. Insomma io e poi mia sorella cresciamo in questa atmosfera di poesia e di amicizia perché anche Giannina e Maria con il loro affetto aiutano mio padre ad inserirsi nel mondo postbellico. C’è da aggiungere che nella terrazza, accanto alla nostra, scrive versi il poeta padovano Giulio Alessi e Jolanda recita le sue poesie nel suo musicale veneziano. Personaggi tutti che frequentano, come la mia famiglia, la parrocchia di Santa Sofia, luogo di preghiera ma anche di intense confidenze con il parroco e suo fratello don Pietro.

Ed ecco, che tu Giulia intervieni chiedendomi della mia fede, ricordando la processione di sant’Antonio, le visite alla tomba del Santo in braccio a mio padre, la partecipazione alla vita della parrocchia evidenziate nel libro. Racconto che nella nostra casa si parlava sempre di miracoli e di provvidenza, espressioni ripetute anche in quel famoso libro “La grande storia in minute lettere”. I miei avevano una fede autentica che si traduceva dall’interiorità al gesto: la nostra casa infatti era sempre aperta ai ragazzi che venivano a ripetizione gratuitamente perché per fortuna il business non esisteva anche se eravamo poveri. Quindi io ho vissuto la loro testimonianza di fede e ho respirato il grande senso della provvidenza, parola ormai desueta. Maria Pia sottolinea che voi ragazzi conoscete bene cos’è la provvidenza dalla lettura de “I promessi sposi”. Incitata ancora da Giulia, affermo che il mio cammino di fede non mi è stato imposto, ma l’ho scelto liberamente: credo che l’uomo abbia bisogno di un essere trascendente a cui fare riferimento, a cui parlare, da cui attendere risposte e anche da ringraziare. Addirittura penso che se non ci fosse un dio bisognerebbe inventarselo per questa esigenza interiore di confronto con il divino, alter con cui colloquiare, a cui rivolgere una preghiera, un divino che dà senso alla nostra vita. Devo ammettere però, cara Giulia, che in questi giorni di sofferenza bellica, mi chiedo spesse volte dove sia Dio, come diceva anche don Giovanni dalla Rovere, nostro amico, che si rispondeva che forse era in sciopero, in ferie o in pensione. Perché io lo sento distante in questo grande dolore, però continuo a parlargli discutendo, contestando: cerco insomma la sua presenza anche ora. Pure questo è un atto di fede. Ti affermo però, ragazza mia, che c’è sempre un mistero che non possiamo capire, anche nella nostra religione, anche nella nostra stessa vita, che richiede un atto di accettazione. Ad ogni modo, il dubbio anche nella fede ci sta: anzi il dubbio è ricerca di verità.

Purtroppo il tempo stringe e l’insegnante riflette che i ragazzi di ora sono diversi da come eravamo noi una volta, perché hanno meno punti di riferimento, ma lei ugualmente, con saggezza, li incita a credere e ad andare avanti sempre nel loro cammino. A questo punto emerge un’altra domanda: «Quando ha capito la bellezza di queste cose? Già da piccola o nel procedere degli anni?». E subito rispondo di aver capito il tutto da grande quando, vedendo da lontano le cose passate, mi sono resa conto di quanto di buono e di bello avevo avuto nella mia formazione, dalla famiglia, da via Gabelli. Ho valorizzato quindi tutta questa bellezza, tema del mio libro, affrontando più sicura il resto del mio cammino. Devo ammettere però, cara amica, che la mia adolescenza è stata come la vostra, inquieta, tormentata, anche solo per motivi generazionali, dalla lotta tra il giusto e l’ingiusto, tra i miei ideali e la realtà, incisivi anche i rapporti difficili con gli insegnanti pure al Tito Livio dove c’erano delle carogne emerite. E quindi mi chiedete a più voci come sia riuscita a procedere. Ho scoperto che si deve andare avanti in ogni modo, rispondendo al richiamo della vita-dono, anche attraverso le difficoltà che sono delle prove, dei trampolini di lancio per raggiungere il positivo. Ho visto, successivamente, che la vita, prima deludente, ci dà poi delle risposte inattese, quando vuole lei però, non certo per me al liceo. Nei momenti in cui finalmente ho ricevuto queste risposte, ho rivisitato tutto il mio cammino riscoprendo che amavo la bellezza, la cultura, l’arte a cui mi sono dedicata come ad una nuova scoperta. Ho riflettuto così che quello che ero allora, lo dovevo tutto al prima cioè alla mia mitica contrada, direbbe Zanzotto, e agli affetti familiari e amicali. E anche ai compagni di classe con cui bisogna procedere uniti con speranza nella vita perché, lo aggiungo adesso, ogni dolore ha poi una minuta risurrezione. Certo che per capire questo bisogna attraversare anche il dolore, parte del nostro vivere.

Dopo questa bella e sincera conversazione con voi giovani, Maria Pia mi incita a darvi un messaggio. Io vi invito nuovamente a credere con fiducia sempre, ma soprattutto ad unirvi facendo barriera tra voi in modo da superare insieme le difficoltà scolastiche ed altre. E vi invito anche ad ascoltare le piccole cose e di sentirne il palpito di vita come mio padre reduce dalla tragedia bellica che al vento d’anemoni e viole / umile sorrideva all’erba della terra. Un modo per trovare altre risorse per essere felici. Concludo con un nuovo sentito ringraziamento alla docente per avermi offerto questa splendida occasione di vita con l’augurio di poterci in altro modo risentire. E rivolgo un caro saluto a tutti voi e vi ricordo ancora che questi sentimenti da me respirati da piccina mi hanno accompagnato per tutta la vita. Ancora sono amica di Matilde, nipote di Jolanda e Orazio, che condivide con me preziose memorie dei suoi genitori ormai scomparsi e di altro che ha ritrovato in questo libro come i miei giochi con Jone (sua madre) e Giuliano, il gemello, nel fantastico giardino di via Rinaldi.

N.B.: constato con dispiacere che il discorso si è fatto lungo, però le precisazioni storiche erano indispensabili e possono essere per voi motivo di nuova conoscenza. Grazie ancora e un affettuoso abbraccio.

° ° °

Credo però che sia rilevante sottolineare che questi studenti, secondo il progetto creato dall’insegnante Maria Pia Dimech, hanno espresso i loro commenti dopo la lettura personale de “La stanza alta dell’attesa tra mito e storia” che qui presentiamo. Prova che hanno recepito il messaggio, lo hanno elaborato, qualcuno addirittura invitando alla lettura di questo libro.

Elisa P.

La stanza alta dell’attesa – tra mito e storia” è un libro in versi e prose poetiche di Maria Luisa Daniele Toffanin a cura di “Valentina Editrice” pubblicato nel 2019. Si presenta come un sottile libro – di circa 150 pagine – molto curato sia nella grafica e nell’impaginazione sia nella copertina che presenta la raffigurazione – realizzata da Marco Toffanin nel 1968 – di una via di Padova. riflessione sulla tragedia bellica, sul dopoguerra, sulla vita di un tempo e quella di oggi, testimonianza della corrispondenza tra i suoi genitori divisi durante il periodo di guerra e grande omaggio alla città di Padova, la Toffanin presenta un’opera unica nel suo genere.

È una lettura che si divide in tre principali sezioni – “rituali nella grande attesa in cui si formò un’anima, l’attesa, luoghi-persone, giochi e stupori” – legate tra loro dal lungo filo conduttore che il tema dell’attesa rappresenta in questo libro. Che si tratti dell’attesa in campagna, di quella del presepe, di un’attesa innocente – sorgiva nativa d’un tempo felice – o di quella della vita e della morte, l’autrice dà spazio al racconto delle tante attese che sono parte della vita, sottolineandone conseguenze, circostanze ma soprattutto le emozioni che caratterizzano quel frangente di tempo.

Nel libro si definisce l’attesa come “il ritmo che cadenza la vita e della natura e dell’uomo”, “un sentiero-percorso vita / che si allarga in radure di germogli / si restringe in strettoie di rinunce / inconscio esercizio di accettazione / poi cifra del proprio dovere” definizione che porta alla luce ogni più piccola sfaccettatura dell’atto di rimanere in attesa fiduciosi, con il fiato in sospeso, trepidanti di speranza e aspettative che, talvolta, finiscono con il venire deluse. L’aspetto razionale viene affiancato a quello emotivo e la combinazione dei due dà luogo a un microcosmo che l’autrice chiama “stanza alta dell’attesa”, un luogo in cui tutte le sensazioni disordinate e indefinite che rimandano al momento dell’attesa trovano una loro sistemazione o, talvolta, qualora l’attesa si sia conclusa in modo spiacevole, una spiegazione che ne renda più facile l’accettazione.

La natività, e la grande attesa tradizionalmente legata ad essa, è l’altro tema che trova grande spazio tra le pagine di questo libro, ed è in questo frangente, ancor più che in altri, che diventa difficile non notare l’unità della famiglia di cu viene raccontata la storia, un’”universa famiglia” a cui l’autrice dedica l’intera opera – “a mia madre Lia e mio padre Gino / in Padova la mia città natale”.

È Padova forse la chiave e il tema centrale di questo libro, luogo natale, per l’appunto, della Toffanin e “sua città dell’utopia / mondo limpido di gente fida / il sentire sincero e umile”; la prima sezione di questo libro si apre proprio con queste parole che sin da subito sottolineano quello che si rivelerà essere il profondo legame dell’autrice con questa città. “Via Aristide Gabelli 15” – “nascondevi il virginale riserbo di eleganti dimore / strette insieme da affettuosi portici / in verdi arpeggi rossi guizzi d’acqua / segreti in giardini oltre discrete soglie inizia così la poesia a lei dedicata” – riecheggia tra le righe con insistenza diventando familiare al lettore dopo sole poche pagine, così come il Caffè Pedrocchi, l’abside di Santa Sofia, il Monumento al Gattamelata e tanti altri importanti punti di riferimento di Padova che sono stati parte fondamentale della vita e dell’infanzia dell’autrice. La “sorgiva bellezza” di questa città ha ispirato numerose delle poesie presentate in questo libro alcune delle quali già apparse in precedenti volumi così che vediamo le vie e i portici sotto i quali camminiamo ogni giorno venire celebrati e raccontati da chi forse li ha vissuti più di noi.

La poesia che, per la sua semplicità o per il tema di cui tratta, mi è rimasta più impressa è la poesia “A Elvira” con la quale l’autrice si duole per la morte del suo usignolo regalatole dallo zio Nino; con sole due strofe piuttosto brevi la Toffanin riesce a esprimere il dolore per aver perso la parte felice di se stessa e a riconoscere il preludio dell’amara verità che scoprirà solo da adulta: quando si perde una persona cara si perde una parte di se stessi.

Dal ritmo piuttosto lento e dal lessico molto ricercato, è in generale un libro la cui lettura richiede concentrazione e attenzione e la cui comprensione non è sempre facile e immediata. L’utilizzo dell’endiadi, enumerazione, anastrofe, anacoluti e frequenti metafore rende la scrittura molto elevata, piacevole alla lettura anche se poco scorrevole. Le frasi lasciate in sospeso e le spiegazioni non ultimate rendono questo libro quasi da completare e non solo da sorbire in modo passivo, come se venisse richiesto al lettore di inserire l’ultimo tassello di un grande puzzle traendo in questo modo le proprie conclusioni.

È un libro in cui Maria Luisa Daniele Toffanin ha riposto l’essenza della sua vita, una trasposizione degli eventi che più l’hanno segnata, dei suoi affetti e dei suoi ricordi di infanzia; l’autrice dà la possibilità al lettore di avere tra le mani il proprio diario personale, lo rende partecipe di racconti, emozioni, attese che si susseguono tra le pagine che scorrono con un ritmo che ora rallenta ora incalza la lettura. Le poesie, numerose e sempre molto diverse tra loro, rappresentano un mezzo capace, con parole ricercate ed efficaci di condensare ciò che l’autrice esprime nelle pagine successive con una concretezza e una tensione emotiva di molto maggiori.

Come nelle favole dei bambini, come nelle antiche mitologie, i versi e le memorie così personali e vive di Maria Luisa Toffanin […] infondono nel nostro cuore un’intima armonia, alludendo ad un’unità compiuta, e tuttavia in continua evoluzione, tra materia e forma” scrive Luisa Scimemi nelle primissime pagine del libro e sempre così credo si possa concludere questo percorso di lettura con “La stanza alta dell’attesa” che, unico nel suo genere, costituisce un omaggio alla città di Padova, d’amicizia, familiari e di condivisione.

Beatrice R.

Maria Luisa Daniele Toffanin nata a Padova è l’autrice di una grande raccolta di poesie tra cui “La stanza alta dell’attesa”, pubblicato a novembre del 2019, un libro in cui è presente un alternarsi e mescolarsi di prosa e poesia.

L’autrice, attraverso il ricordo, visita diverse stanze nella sua memoria: stanze che racchiudono la sua infanzia felice ricca di affetti, figure, ambienti, sogni e attese compiendo un viaggio a ritroso nella sua mente, è una riaffermazione di quei valori familiari e d’amicizia da lei sempre sostenuti.

Nel susseguirsi delle pagine intrise di ricordi, nel succedersi delle vicende diventano simbolo di una comunità viva, seppur lacerata dal dopoguerra, la solidarietà, la gioia, il conforto, l’accoglienza e lo stare insieme. Una storia che deve essere insegnata alle nuove generazioni attraverso la quotidianità della gente comune.

Il filo conduttore del libro è proprio l’attesa che scandisce i vari momenti, tra tutte la più bella era quella del Natale che sottolinea il senso di appartenenza dell’autrice ad una grande famiglia, a lei molto cara.

Nello sfondo del ricordo dell’infanzia occupa una grande importanza la città di Padova, che definirei un personaggio principale al pari delle altre figure descritte: giardini, portici, piazze, negozi e case vengono raffigurati come luoghi magici e vividi, grazie ai dettagli con cui vengono illustrati, e solo una volta cresciuta la protagonista diventerà consapevole di quanto questi siano stati importanti per la sua crescita.

Al termine del racconto l’autrice descrive un presente, un nuovo orizzonte, lontano dalla sua amata città, che comunque riserva ancora attese e magie. In questo modo il libro si chiude con una riflessione sullo scorrere del tempo e sull’importanza che i ricordi hanno su di noi e sul nostro futuro.

Non avevo mai letto un libro di questo genere ma, nonostante questo, l’ho trovato molto coinvolgente e curato, solo inizialmente mi è parso un po’ confusionario, ma poi leggendolo una seconda volta ho capito ciò che l’autrice voleva trasmettere attraverso la descrizione attenta anche ai minimi dettagli. Nonostante questa sia un’autobiografia molto personale, mi ha permesso allo stesso modo di ritrovarmi nelle varie osservazioni e riflessioni dalle quali si può comprendere che noi stessi siamo frutto delle nostre esperienze passate che non vanno dimenticate ma anzi custodite nella nostra “stanza alta”.

Giada L.

Maria Luisa Daniele Toffanin, poetessa e scrittrice padovana, si impegna nel promuovere corsi di scrittura e iniziative culturali quali il concorso di poesia e disegno “Mia Euganea Terra” e collabora con alcune riviste letterarie. Della stessa casa editrice, si trovano altre raccolte di poesie come “L’attesa perlata di stelle e rugiada” (2015), “La casa in mezzo al prato” (2018) e “Pionieri a San Domenico” (2019).

L’autrice ha una notevole padronanza del proprio linguaggio, che è forbito ed elegante, anche se – a tratti – può risultare pomposo e difficile, tanto da rendere la lettura, per coloro che non sono avvezzi a sfogliare poesie, poco scorrevole, cosa dovuta anche alla presenza di numerose anastrofi ed ellissi. D’altro canto, molto apprezzati sono stati i vari punti in cui il parlato padovano si fonde perfettamente con l’italiano, dando vita ai versi dal suono conviviale e vero. Un invidiabile talento dell’autrice è quello di saper dipingere a parole immagini meravigliose, perfettamente vivide nella memoria di una lei bambina quanto sulla carta: leggendo il libro, sono riuscita a vedere Giannina, amica di famiglia, intenta a scrivere in quel suo ameno giardino, fra edere rampicanti e balconi adornati dal viola del glicine, ma anche lo sguardo di quei bambini che guardavano desiderosi lo zucchero filato tenuto da lei tra le mani. Splendida, forse – a mio parere – anche più della poesia stessa, è la prosa, che accompagna i versi arricchendoli di dettagli, che si fa lirica, quasi intima per quanto intensa.

Quelli che Maria Luisa Daniele Toffanin racconta, sono gli anni del secondo dopoguerra che si palesa nella figura del padre, prigioniero di guerra, e in quella dei parenti e degli amici partigiani. Padova, però, si presenta agli occhi della scrittrice, che guarda tutto con l’innocenza dei fanciulli, come un’utopia e in via Aristide Gabelli, con le sue stanze alte, si ha il suo piccolo mondo, dai tratti fiabeschi, colmato dal colore dei fiori e dalle voci di coloro che, insieme a lei, abitavano quel luogo. Padova si ripropone in chiave antica, fatta di tradizioni, di pomeriggi trascorsi a giocare dinnanzi alla basilica di Sant’Antonio e alla chiesa di Santa Sofia, di girotondi davanti al capolavoro di Giotto, non ancora pienamente apprezzato, e della gioia dei giorni di festa. Il filo conduttore del libro è l’attesa: l’infanzia – trapunto di stelle di un cielo aperto ai miracoli –, l’attesa del tempo natalizio e dell’Epifania, che si incarna anche nel presepe “affidato ad altre mani // tante, come una mitica leggenda”, delle giostre e dei dolci nel prato della Valle. Vi erano anche altre attese più semplici, come la nascita di un virgulto di un fagiolo – cosa grandiosa agli occhi di un bambino –, ed altre che vertevano sulla vita, come la nascita di una sorella. Il mondo dell’autrice bambina è fatto dell’affetto dei suoi familiari, dei nonni in campagna che cantavano canzoni che risuonano ancora come echi sul suo futuro di poetessa, degli zii e delle zie in città, che la accompagnavano in bicicletta per le vie del centro, del padre, conosciuto veramente solo dopo il ritorno dalla guerra e della madre, “vestale della casa”. Questo libro, che ho davvero apprezzato – nonostante lo scetticismo iniziale –, narra l’importanza della famiglia, della solidarietà nei momenti del bisogno, di luoghi ormai mutati in quelli da me conosciuti, di ricordi che rimarranno per sempre tra queste pagine come nella memoria dell’autrice.

Alex M.

“La stanza alta dell’attesa – tra mito e storia” è un libro che colpisce immediatamente il lettore per la sua forma letteraria di prosimetro, di dantesca memoria, originale quanto inconsueta, dove prosa e poesia si alternano in maniera sapiente ed armoniosa. L’autrice e poetessa è la padovana Maria Luisa Daniele Toffanin, docente per anni negli istituti superiori della nostra città e attualmente impegnata nelle scuole in incontri con l’autore, momenti di poesia, laboratori di scrittura e attività di orientamento scolastico.

Il libro è autobiografico e si focalizza sul tema dell’attesa nelle molteplici forme, sfaccettature e situazioni vissute dall’autrice durante la sua infanzia: l’attesa del padre che ha combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, la Vigilia di Natale, la notte della Befana, la festa di Sant’Antonio del 13 giugno… Una pagina dopo l’altra, leggendo questo libro, ci immergiamo nell’esperienza della protagonista e insieme a lei viviamo la trepidazione, la gioia, l’impazienza e l’aspettativa dell’attesa, l’eccitazione che precede i momenti importanti della vita familiare e di quella della comunità, emozioni che, così intense e profonde come vengono tratteggiate dall’autrice, caratterizzano in modo particolare il sentire e il mondo interiore dell’età giovanile. Il tema dell’attesa si intreccia con quello della memoria e della rievocazione della sua famiglia, dei luoghi, delle persone care, di fatti ed eventi della vita quotidiana.

L’attesa più grande e logorante che ha affrontato l’autrice è stata quella del padre in guerra, una lontananza straziante e dolorosa confortata però dalla madre, figura fondamentale che ha infuso consolazione e coraggio sia alla figlia che al marito.

L’autrice dà ampio spazio alla descrizione della casa e della via in cui è nata, ovvero Via Aristide Gabelli 15, luogo che non solo ha fatto da sfondo alle sue attese, ma è anche il vero e proprio simbolo e luogo della memoria dell’infanzia e dell’adolescenza, dove ha passato molto tempo con la sua famiglia, con i suoi amici e con i suoi piccoli animali domestici in terrazza. La casa è il luogo fisico, spirituale e ideale che sintetizza e rappresenta la semplicità della vita di una volta, quando la voglia di fare era tanta e ancora di più quella di ricominciare dopo la fine della guerra. La sua casa era dunque, per dirla con la metafora dell’autrice, “un faro comune a cui rivolgersi/ col mare in tempesta”.

L’autrice ricorda poi con affetto e nostalgia i nonni paterni che le sono sempre stati vicino durante l’infanzia nel periodo bellico, colmando, per quanto potevano, il vuoto creato dalla lontananza del padre, a cui inviavano cibo e lettere premurose sul campo di battaglia e poi nel campo di lavoro di Benjaminow, vicino a Varsavia, per tenerlo aggiornato su ciò che accadeva nella sua famiglia e nella sua città.

Un luogo per la Daniele Toffanin molto caro e carico di ricordi è la chiesa di Santa Sofia, dove incontrava zii, cugini e amici del quartiere: lì era stata battezzata insieme alle sorelle, lì si sono sposati i suoi cugini e amici e lì sono state celebrate anche le esequie degli zii.

L’autrice ricorda poi Prato della Valle per l’attesa delle giostre nel periodo della festa di Sant’Antonio, la Basilica di Sant’Antonio e l’attesa della processione che ha luogo ogni anno il 13 giugno, i Colli Euganei, luogo incontaminato in cui faceva gite e pic-nic con familiari e conoscenti, e l’abbazia di Praglia, luogo di feste giovanili e di ispirazione poetica.

I pomeriggi passati con la famiglia sono all’insegna della semplicità e della frugalità di un mondo in cui non esistevano ancora le tecnologie moderne che avrebbero cambiato poi drasticamente Padova e, in generale, tutto il mondo. Consumismo e social network, pilastri portanti della modernità, non esistevano ed erano parole sconosciute: ci si accontentava del poco che si aveva e prevaleva la voglia di stare insieme e divertirsi.

Questo libro presenta un linguaggio ricercato e colto, che richiede una certa attenzione per affrontarne la lettura. Il significato delle parti in poesia non è sempre di facile ed univoca interpretazione, abbondano le metafore e le similitudini.

“La stanza alta dell’attesa – tra mito e storia” è un libro interessante e intenso perché l’autrice tratta un argomento affrontato normalmente in modo veloce, quello dell’attesa vissuta durante la sua giovinezza. Durante questo periodo di transizione avviene la maturazione e il cambiamento del bambino che lo porterà a diventare un adulto e a essere più consapevole e responsabile della propria vita. La giovinezza è inoltre costellata di molte attese che non ci sono più durante l’età adulta; è un periodo di spensieratezza in cui i problemi sono lontani o quasi inesistenti.

Questo libro mi ha fatto riflettere molto sul cambiamento sociale che si è verificato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e mi sono reso conto che la vita di quei tempi era molto semplice, prevalevano valori come l’onestà, la lealtà e la fiducia. Oggi invece viviamo in un mondo in cui la tecnologia ha cambiato molto la nostra vita, si dimenticano gli antichi valori e le piccole cose che ci rendono felici e diminuiscono i contatti sociali che avvengono esclusivamente via cellulare tramite i social network.

Personalmente, consiglio vivamente questo libro a tutti, specie alle giovani generazioni, perché, facendo riflettere sulle differenze tra la giovinezza dell’autrice e il periodo attuale, aiuta a prendere maggiore consapevolezza del presente e a considerare il passato un bagaglio di esperienze da far fruttare nella quotidianità.