Dal ricordo di Rita Levi-Montalcini alla tesina sull’Olocausto


Nei giorni della Memoria vogliamo ricordare il Premio Nobel Rita Levi-Montalcini di cui molti parenti furono vittime dei campi di sterminio. La vogliamo ricordare anche perché, laureatasi con tenacia e passione in medicina nel 1936 a Torino, nonostante le leggi razziali riuscì a conseguire la specializzazione in neurologia e psichiatria impegnandosi sempre in ogni luogo nella ricerca. Prima infatti nella sua città, poi in Belgio e a Firenze dove la famiglia si rifugiò, sino alla liberazione della città, sfuggendo all’olocausto grazie all’aiuto di amici. Un periodo difficile spostandosi da un’abitazione all’altra per non incorrere nelle deportazioni, ma vissuto sempre con entusiasmo per i suoi studi scientifici nei laboratori ogni volta reinventati. In questa fuga continua era la forza stessa della vita che li portava avanti senza pensare alla realtà, come raccontava lei alla nipote Piera. Un giorno la famiglia fu salvata da una domestica che riuscì a farli scappare tutti appena in tempo. Nel periodo dell’occupazione nazista a Firenze non rimase mai inattiva e, all’arrivo degli Alleati nella città nel 1944, divenne medico presso il Quartier Generale anglo-americano, assegnata al campo dei rifugiati di guerra provenienti dal Nord Italia, trattando le epidemie di malattie infettive. Lavoro da lei stessa definito difficile e penoso, ma determinante per il suo successivo trasferimento negli Stati Uniti nel 1946. Periodo significativo di approfondimenti scientifici e di nuovi orizzonti culturali.

Ma noi la vogliamo ricordare soprattutto per la sua attenzione nei confronti dei giovani come ideatrice dei Centri di Orientamento per la scelta delle scuole superiori aperti in tutta Italia (quello di Abano già dal 1996), ma anche come donna disponibile all’incontro umano. Ripercorriamo alcuni momenti della sua lunga vita: proprio qui ad Abano Terme nel 2002 le viene conferita la cittadinanza onoraria dal sindaco prof. Giovanni Ponchio con questa motivazione “Per i meriti scientifici della professoressa, per l’impegno civile nei confronti dei giovani attraverso la Fondazione Levi-Montalcini”. In tale occasione il prof. Bernardi, vice preside della facoltà di Medicina dell’Università di Padova, disegna del premio Nobel un ritratto autentico e ricco di umanità leggendo alcuni passi della sua autobiografia.

Abano Terme, Sala Kursaal – Consegna della cittadinanza onoraria a Rita Levi-Montalcini.

 Rita Levi-Montalcini con il sindaco di Abano Terme  Giovanni Ponchio.

Gruppo di AbanoTerme con sindaco e premio Nobel.

Altro momento significativo è la partecipazione alla festa dei suoi 100 anni a Torino in cui parla a braccio a più di 3000 persone dell’importanza della collaborazione, in campo scientifico, tra i giovani animati dal coraggio e gli anziani portatori di fantasia e immaginazione, filo rosso della sua vita e per tale intuizione ancora ricordata in più di 80 scuole che in Italia portano il suo nome. Emblema di una grande scienziata, ma anche di una grande donna aperta sempre al dialogo con gli altri, alla soluzione dei loro problemi. È da ricordare anche il suo interesse per le ricercatrici e per le donne africane.

Torino, Mole Antonelliana, Festeggiamenti per i 100 anni di Rita Levi-Montalcini. Il premio Nobel con Maria Luisa Daniele Toffanin Coordinatrice culturale del Centro di orientamento di Abano Terme.

Di lei vogliamo anche evidenziare l’amore per la scrittura espressa in molti libri come in quello dedicato ai giovani: Il tuo futuro – consigli di un premio Nobel ai giovani.

Questi ultimi hanno certamente recepito la sua attenzione, il suo ascolto nei loro confronti e hanno fatto tesoro dei valori da lei richiamati, quali la passione per la conoscenza e per la ricerca della verità. Infatti fra le tesine dell’esame di terza media dell’anno scolastico 2019/2020, dell’ Istituto comprensivo Cesarotti di Selvazzano, appare vivo l’interesse della studentessa Giulia per il messaggio trasmesso da Primo Levi nel suo Se questo è un uomo, di cui riportiamo alcuni frammenti.

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“…Nel mio elaborato voglio parlare dell’Olocausto degli ebrei e di tutte le vittime causate dalla Germania Nazista di cui era capo Adolf Hitler.

Ho scelto questo argomento perché mi ha da sempre coinvolta e interessata e ho sfruttato l’occasione per approfondirlo. Ho letto molti libri riguardanti questo tema tra cui “Il Diario” di Anna Frank, “I ragazzi di Villa Emma” di Giuseppe Pederiali, “L’amico ritrovato” di Uhlman e “Se questo è un uomo” di Primo Levi che più mi ha coinvolto anche perché l’autore è protagonista della vicenda. Narra infatti l’esperienza di Levi, ebreo deportato ad Auschwitz nel 1944 fino alla liberazione nel gennaio 1945. Ho deciso di leggerlo perché, venuta a conoscenza del suo passato, volevo scoprire lo stato d’animo, le emozioni provate da lui all’interno del campo di concentramento e ciò che lo ha spinto, nonostante fossero passati molti anni dalla tragica esperienza, a togliersi la vita nel 1987. A questo proposito un’insegnante di lettere dell’Istituto Alberti di Abano Terme mi ha riferito che in quel giorno, l’11 aprile 1987, Levi era atteso lì dai ragazzi per discutere proprio del libro sopra citato. Ma è giunta la telefonata che annunciava il suo decesso: immaginarsi il turbamento degli studenti e dei docenti e ora anche il mio. Quindi con particolare stato d’animo mi sono avvicinata a queste pagine. Leggendo la sua testimonianza ho appreso delle informazioni che non conoscevo, tra cui ciò che accadeva realmente all’interno dei campi di concentramento, l’odio nazista, il processo di disumanizzazione che avveniva in quei luoghi, progettati allo scopo di distruggere delle persone. Il libro inizia con una poesia, che descrive con linguaggio essenziale e realistico gli argomenti principali svolti poi nella composizione del libro.

Questa poesia è di un’emozione unica anche perché da subito ci coinvolge tutti con quel voi sottinteso in tutte le strofe successive, creando un contrasto tra la nostra vita nel tepore domestico, ben nutriti, tra volti amici e quella che avviene all’interno dei campi di concentramento, degradata a tal punto che tutti sono privati di ogni caratteristica umana: senza nome, denutriti, sfruttati, uccisi. Le donne in particolare senza la forza di ricordare, senza più capelli, senza più possibilità di essere madri. Nell’ultima parte ci affida il grande messaggio sulla memoria: noi lettori non dobbiamo dimenticare ciò che è accaduto in quei campi di concentramento e dobbiamo trasmettere le sue parole ai figli, pena una maledizione a noi e alle nostre case. E questo perché la tragedia non si ripeta più. Ma seguiamo il tutto nelle pagine della testimonianza in cui a momenti di descrizioni, come l’operazione di disumanizzazione effettuata all’arrivo nei campi di concentramento da parte delle SS e i metodi di selezione da loro seguiti per decidere sulla vita e sulla morte, senza alcun segno di umana pietà si alternano a riflessioni dell’autore. Levi rimane però sempre narratore quasi estraneo alla vicenda, nascondendo i suoi veri sentimenti da noi facilmente intuibili.

Nella lettura mi ha colpito il fatto che, nonostante tutto, Levi abbia trovato sempre la forza di lottare, senza arrendersi, e sia riuscito a mantenere una scintilla di umanità, ripetendo anche i riti quotidiani del lavarsi, ad esempio; la consapevolezza pure del proprio essere uomo attraverso il contatto con pochi altri ancora capaci di sentirsi tali. In particolare, risalta l’amicizia con il francese con cui recitava Dante, la cultura quindi diventa un elemento che tiene in vita. Ognuno di questi momenti ora descritti si trasforma in me in un messaggio, soprattutto ora in questo tempo tormentato dal Coronavirus, di non abbandonare la mia quotidianità, l’impegno nello studio, l’amore per il pianoforte, per la lettura perché è già una fortuna poter usare queste risorse, certamente in una dimensione ben diversa da quella di Levi e degli altri prigionieri. Lo scrittore stesso riconosce di essere stato fortunato, attribuisce infatti la propria salvezza a diversi fattori, tra i quali il suo compito nel laboratorio di chimica, dove svolgeva mansioni meno faticose; la rudimentale conoscenza del tedesco che gli hanno consentito di resistere più a lungo degli altri. Infine, riconosce che il suo ricovero in infermeria nel gennaio del 1945 perché colpito dalla scarlattina, lo ha salvato dalle “marce della morte”, in cui sono morti molti prigionieri, così da poter sopravvivere fino alla liberazione del campo da parte dei Russi, il 27 gennaio.

Mi hanno colpito molto l’eleganza con cui Levi ha scritto questo libro e l’assenza di espressioni di odio nei confronti dei tedeschi, anche nelle situazioni più disumane. Mi ha colpito ancora la sua scelta del linguaggio pacato e sobrio del testimone che narra l’esperienza vissuta, comunicando ugualmente l’angoscia e lo smarrimento di chi è stato perseguitato senza comprenderne le ragioni. Il narratore non si presenta né con un linguaggio lamentevole della vittima, né con quello irato del vendicatore: i giudici siamo noi che abbiamo il dovere di eseguire la sua volontà, cioè che nessuno si dimentichi di quello che è successo. Ritornando in questa fase conclusiva ai motivi del suo suicidio penso che, segnato dalle esperienze vissute e da quel senso di colpa, vivo in tutti gli ebrei scampati all’Olocausto, Levi sia stato spinto da tutto ciò a togliersi la vita, nonostante fossero passati molti anni dalla terribile esperienza; anche se molte voci di autori del nostro tempo parlano della possibilità di una disgrazia. Certo che l’animo umano rimane sempre un mistero.

Dopo la lettura di questo libro ho avvertito il dovere, insieme alla curiosità, di sapere di più sul nome stesso “Shoah” e sull’antisemitismo…. “

Dalla stessa tesina è tratto questo approfondimento di un’opera cinematografica:

“…Sulla Shoah sono stati scritti molti romanzi di testimonianza, vari saggi e realizzate diverse opere cinematografiche. Tra queste ho scelto il film “Il Pianista”, perché anche io suono il pianoforte, una mia grande passione.

Il Pianista è un film diretto da Roman Polanski, prodotto nel 2002, tratto dal romanzo autobiografico di Wladyslaw Szpilman. Si tratta del racconto di ciò che ha vissuto il pianista ebreo polacco Szpilman allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, con l’invasione della sua terra da parte dei tedeschi, l’occupazione di Varsavia, la creazione del Ghetto, la vita al suo interno, la sopravvivenza fuori dal Ghetto, fino alla liberazione della città da parte dell’Armata Rossa nel 1945.

Il film si apre con la scena del pianista, molto noto a Varsavia, che stava suonando alla radio, dove lavorava, il Notturno di Chopin, il suo compositore preferito. All’improvviso sente delle esplosioni avvicinarsi sempre più, fino al momento in cui una bomba cade proprio nella stanza di registrazione: è l’inizio della Seconda Guerra Mondiale con l’occupazione tedesca della Polonia. Di conseguenza le persecuzioni tedesche aumentano con l’applicazione delle leggi restrittive agli ebrei che sono costretti ad indossare la Stella di David, ad abbandonare il loro posto di lavoro, a non camminare sui marciapiedi ed entrare nei locali tedeschi. Il giovane in difficoltà è costretto a vendere con grande dolore perfino il suo pianoforte e tutta la famiglia Szpilman, insieme agli altri ebrei, nell’ottobre del 1940, deve trasferirsi all’interno del ghetto della città polacca, dove conduce una vita nella miseria, nell’ umiliazione, nell’incubo della fame e della morte. Tutti cercano di sopravvivere anche vendendo gli ultimi beni e guadagnando qualche soldo: Wladyslaw trova lavoro in un locale per intrattenere la gente suonando.

Dopo poco tempo, il pianista e la sua famiglia, sono inclusi fra i deportati nei campi di concentramento, ma Wladyslaw si salva grazie a un poliziotto amico che lo sottrae dalla fila di gente che sta per essere caricata nei vagoni-treno. Per lui, ormai solo, inizia un periodo molto difficile: trova con fatica un lavoro come carpentiere, ma il pericolo di essere ucciso è costante. Fugge quindi dalla parte della città tedesca, ospitato da un’amica cantante, si trasferisce poi in diversi appartamenti, scappando continuamente dai nazisti, grazie alla solidarietà di persone affidabili come una collega violoncellista. Nel frattempo, gli ultimi ebrei nascosti nel ghetto si ribellano, bruciando la zona ormai deserta. L’Armata Rossa è sempre più vicina alla città polacca, che insorge e il pianista rientra nel ghetto dove, ormai denutrito, viene scoperto da un generale tedesco che, invece di ucciderlo lo aiuta. Venendo a conoscere la sua vecchia professione, gli chiede di suonargli un pezzo al pianoforte e, rimasto colpito dalla sua esecuzione del brano di Chopin, “La ballata numero uno in sol minore”, decide di proteggerlo per i mesi successivi. Gli darà una mano fino a quando i tedeschi, impauriti dall’avanzata dei russi, abbandoneranno la città. Una mattina il pianista sente risuonare le note dell’inno nazionale della Polonia, esce dal suo nascondiglio e va incontro ai polacchi: rischia di essere ucciso perché portava il cappotto donatogli dall’ufficiale tedesco. Alla fine però riesce a salvarsi. Il film si conclude con una scena particolare: l’ufficiale, che aveva aiutato l’ebreo, viene trasferito insieme ai suoi compagni all’interno di un campo di prigionia in attesa di essere portato in Unione Sovietica. Il pianista in seguito a informazioni avute, ritorna nei luoghi per ringraziare l’ufficiale, ma invano. Saprà il suo nome solo dopo la sua morte.

Alcune scene tratte dal film “Il pianista”.

Questo film, tratto da una vicenda vissuta e raccontata dal protagonista, è coinvolgente per la forza realistica delle scene rappresentate come quella del disabile, ma soprattutto per la presenza continua della musica. Già all’inizio il Notturno crea un’atmosfera magica a cui si contrappone subito la forza brutale del bombardamento, nello svolgersi del film poi la musica accompagna sempre l’autore anche quando deve vendere il pianoforte e diventa malinconia come presentimento di quello che accadrà: la violenza dei nazisti nel ghetto e la deportazione della sua famiglia nei campi di concentramento. Ma la musica non lo abbandona mai, anzi sono proprio degli amici musicisti ad aiutarlo e nella sua “fuga” in un appartamento riappare anche un pianoforte che non potrà suonare se non con l’immaginazione per non essere scoperto. Il momento più emozionante però è la suonata eseguita per l’ufficiale tedesco che rivela un’umanità inattesa e una grande sensibilità tanto che tra i due si crea un’amicizia che, alla fine di tutto il protagonista vorrebbe onorare ringraziando l’ufficiale per il bene ricevuto. Questa musica è il filo conduttore del film: mantiene in vita il pianista, diviene solidarietà nei suoi confronti da parte del tedesco e degli amici. Secondo me esalta anche le scene più brutali come quella del disabile scaraventato dal terrazzo del ghetto, ma nello stesso tempo le attenua con la sua dolcezza. Grazie al regista che la utilizza con bravura. Capisco perché ha vinto molti premi.

Questo film mi fa scoprire che ancora una volta la musica, cioè la bellezza dell’arte diventa un elemento vitale per gli uomini. Allora ritorna quello che ho già detto per Levi, che il cuore umano è un mistero, e vorrei credere che la bellezza potrà salvare il mondo. Per tutto ciò il film mi ha coinvolto anche con i suoi messaggi inattesi di solidarietà e speranza, aumentando il mio amore per la musica e Chopin…”

Così si conclude con la musica, omaggio alla bellezza che dovrebbe salvare il mondo, l’itinerario attraverso la conoscenza dell’ Olocausto preceduta da un affettuoso ricordo di Rita Levi-Montalcini che, pur nascosta fortunatamente a Firenze con la sua famiglia, ha egualmente avvertito il peso delle leggi razziali e delle loro conseguenze. Questo completa il quadro dell’esistenza di una donna che non è stata solo premio Nobel, ma che ha vissuto il suo tempo in tutta la sua complessità e verità.

Pordenone, Incontro dei centri di orientamento italiani con Rita Levi-Montalcini.