Anna Ventura – In chartis
Quaderno di Praglia nr 33
31 gennaio 2013,
Insieme nell’Umano e nel Divino
Ho conosciuto Anna Ventura, poetessa abruzzese, al premio Histonium a Vasto dove ho vinto nel 2007 il primo premio con Fragmenta. E’ stato un momento felice anche perché Anna, membro della giuria, ha condiviso pienamente i miei messaggi e la mia scrittura: questo per chi scrive è veramente sublime. Successivamente ci siamo scambiati i nostri lavori conoscendoci così più profondamente anche attraverso una coinvolgente corrispondenza.
Abbiamo imparato ad apprezzarci e siamo diventate amiche nella poesia. In una delle sue lettere mi ha confidato che stava creando, nel suo palazzetto nel centro storico de L’Aquila, una biblioteca con i libri che più le piacevano, raccolti nella sua esperienza di membro di giuria. In mezzo c’erano anche i miei. La morte di suo marito, successivamente il terremoto hanno spezzato questo equilibrio e interrotto momentaneamente il nostro rapporto. Alla notizia l’ho cercata ovunque e, solo dopo sette giorni dalla catastrofe, sono riuscita a sapere che era ancora viva da sua nuora di Padova rintracciata per un’improvvisa illuminazione. Poi i tragici particolari a tutti noti: la casa inagibile, la vita trasferita senza gli oggetti amati che sono la tua storia, in un luogo altro. Racconto questi particolari, che hanno segnato i più fortunati, per esprimere la mia ammirazione ad Anna, non più giovane, capace di adattarsi e pure di rinnovarsi: così l’ho sentita nelle nostre conversazioni.
Ma ritorniamo ad Anna Ventura poetessa dalla ricca produzione; raccolte di poesie, volumi di racconti, romanzi, libri di saggistica ed altro. Qui riporto alcuni testi, che rispondono al tema in oggetto questo mese, tratti da In Chartis e Non suoni ma rumori, sillogi a me care, che hanno come protagonisti appunto gli oggetti capaci di ascoltare, di dire. Sono parte viva della nostra esistenza, anzi ne sono la memoria,i segni sacri che identificano il nostro presente,che ci proiettano nel futuro, almeno nella pagina. Così in Il fischio del treno attraverso cose cariche di umanità: i vasetti delle spezie, la tendina, la pianta di basilico, la bottiglia del latte… ci ritroviamo tutti noi con la nostra vita scandita dal passaggio delle stagioni, dalla puntualità-ossessione del tempo-treno che passa e ripassa in questa storia infinita di noi nelle cose.
Ne risulta, da una attenta lettura, che Anna Ventura è amorosamente piegata in ascolto della realtà quotidiana, anche quella più confusa, coperta di polvere, con la vecchia lampadina segnata dalla mosca, apparentemente trascurata, in cui la vita si manifesta in maniera semplice quasi dimessa, che Anna trasforma in una epopea umile, affettuosa, autentica delle cose, come in Hic et nunc. Cose che creano una particolare atmosfera di pace dell’inutile,/del tempo immobile del dolce far niente, che riflette l’anima dell’autrice, dei vicini di casa abbandonati a una primordiale filosofia, quasi un’atarassia, ai perché ai quesiti dell’esistere, lasciandosi andare nel grande fiume delle cose. E queste poesie, legate dalla comune poetica delle piccole cose, sono sempre diverse, nate da una diversa ispirazione, da una uguale fedeltà alla sacralità degli oggetti derivata, a mio avviso, dall’humus stesso della sua terra.
Dalla saggezza, pacatezza, dai costumi della sua gente attenta proprio alle piccole cose, attraversate però da infiniti gesti in cui ogni uomo riconosce se stesso nei minuti passaggi della sua storia, convergenti tutti nella grande Storia. Una poesia regionale che acquista una valenza universale. Si rivela anzi antica laude moderna alla vita attraverso gli oggetti della quotidianità intesi come dono rinnovato sempre, recitata con gratitudine al miracolo celato in essi-oggetti-poesia-voce in intimo colloquio con noi nello snodarsi del tempo.
Una poesia apparentemente semplice, ma che nasconde il segreto stesso dell’esistenza, proprio perché riesce a varcare il limite della cosa appropriandosi nei versi di sentimenti e memorie universali. Il suo quindi è un apparente crepuscolarismo perché non nasce dal rimpianto per il passato, ma dall’esaltazione della vita stessa che negli oggetti si conferma, nel sentire di Anna, con la sua vitale carica di speranza. Ne è esempio Due lettere di carta: racchiudono nei primi versi la puntualità della natura, vedi i giorni della merla, come espressione di una tangibile incomunicabilità per il freddo rigido di quei giorni. Ma le due lettere di carta giunte da amici lontani diventano una testimonianza che tutto tornerà all’equilibrio normale, che la speranza della primavera è ancora viva e che nel bosco ci sono già promesse di ciclamini per un’estate migliore. Un amalgama reso con leggerezza, sapienza e riconoscenza per la natura di cui, altrove, anche gli animali, le piante, i fiori sono avvicinati francescanamente.
Lo stile è immacolato per proprietà lessicale, per la misura della parola, per i ritmi, per la tonalità leggera del linguaggio, vicino al quotidiano, ma calibrato sapientemente, sempre in una visione etica delle cose, dell’uomo, accesa da uno stupore fanciullo che ha dentro tutta la coscienza dello spazio-tempo nel ciclo eterno del creato. Una dimensione poetica unica quella di Anna Ventura che è in fondo lirica coerenza al suo modo di porsi nella vita.
P.S.
Solo ora trovo queste note sparse poi ricomposte in una lettera nel 2007….: la tua poesia è così pura, semplice come germinata dalla madre terra e nello stesso tempo ha dentro tutta la sapienza delle stagioni e dei loro riti eterni. Come la terra ne percepisce tutte le più intime pulsioni nel naturale scorrere del tempo, così la tua poesia conosce tutti i segreti delle cose, degli uomini, degli animali, dei luoghi. E in queste voci minime incontra storie-verità di esseri animati ed inanimati che insieme dicono il senso del nostro esistere ogni giorno. E’ moderna e antica insieme: vive di istanti di stupore accesi di eterno….
Il fischio del treno
Flaconi di vetro colorato
con dentro semi e spezie,
immobili salse in porcellane bianche;
dietro la tenda di trina
c’è il mondo, immenso.
Le stagioni cambiano:
l’estate è il vaso di basilico,
l’inverno, la bottiglia di latte alla finestra.
Così in infinite case,
in infinite finestre.
Infinite antenne sui tetti,
tutte eguali.
Passa il fischio del treno,
sempre alla stessa ora.
da “In chartis”, Bastogi, 1996
Hic et nunc
Qui dove si stringe l’interno,
dove il raggio di ponente
riscalda il cuore
e gli oggetti scombinati e vecchi
tranquilli convivono;
qui dove la vecchia lampadina
conserva la pulce nera
della mosca estiva,
le piastrelle non brillano,
la polvere pacifica
sta sulle cose,
qui c’è la pace dell’inutile,
il tempo immobile del dolce far niente,
lo sguardo che osserva dietro le garze rosse e bianche
altre case,
altri comignoli e tetti,
balconi, finestre, ballatoi
dove la vita dei semplici
scorre
senza chiedersi come
e perché, e fino a quando,
e con quale fine e mistero.
No, non ha questa presunzione
la vita dei miei dirimpettai,
perciò qui sto bene anch’io,
come loro,
nel grande fiume delle cose
che non aspettano niente.
da “In chartis”, Bastogi, 1996
Due lettere di carta
Oggi, gennaio,
i giorni della merla, la resa
all’incomunicabilità è un oggetto,
una cosa che si può toccare. Eppure
due lettere di carta, spedite da amici lontani,
bastano a farmi credere
che le strade torneranno transitabili,
che la spiaggia fredda aspetta
la prima passeggiata senza scarpe,
il bosco a mezza costa cova sotto le brine
il suo manto di ciclamini cremisi,
per l’ultima estate, la migliore.
da “Non suoni, ma rumori”. Venilia editrice, 2009