L’umile Friuli nel linguaggio di David Maria Turoldo – NTL
La Nuova Tribuna Letteraria
Ho lasciato il gregge: ricordila pecora segnata di bianco in fronte,la pecora vissuta con noi tanti anni,la madre di tutti gli agnelliche sapeva il tuo passo lievee ti chiamava con la voce di una creaturae ti guardava con occhi così dolciquando la mungevi a sera.E io ero felice come una rondinedi ritorno dai campi col gregge sazio.
Ho lasciato i vostri campi, mamma,quella pianura vasta e taciturnadal colore del tuoi capellibiondi come le vigne all’autunno.
Ho lasciato i compagni sul sagratoa rincorrersi e la chiesa bianca:ricordi quel giorno triste di settembre,tu mi salutavi dietro la porta e dicevi:figlio, noi siamo poveri,è un’avventura troppo grande!È un’avventura troppo grande, Madre!E il cielo non risparmia nessunoe gli uomini non perdonano ai sacerdoti.
(Da Io faccio amara anche la tua morte Friuli, inverno 1954)
Ripercorrendo, con vari rischi, i passi del mio umile Pastore, ritorno all’humus-Friuli-terra di Turoldo, primo nido… della sua vocazione… alla poesia, al dire di Andrea Zanzotto.
Entro nella stanza degli affetti in Salmodia della povera gente e Io faccio amara anche la tua morte, due liriche che inverano l’intuizione zanzottiana sull’origine della sua poesia, nata cioè nel nome della madre.Entro nel cuore sanguinante della casa assediata dalla desolazione della fame, dagliaghi del freddo che gonfiavano le mani dei genitori, del fratello, sensazioni, secondo l’autore, mai provate dalle molteEccellenze appartenenti ad ogni macrocosmo, anche della stessa chiesa più opulente. Ascolto il poeta che rievoca il padre, la madre e Lino in un’atmosfera realistica, aspra ma anche magica: “e la pioggia batteva sul tetto / batteva con migliaia di mani / batteva con dita di vetro / e con occhi di vetro / spiava dalle crepe del vecchio solaio”.
E colma l’aria di indimenticabili sapori, odori della sua infanzia: dell’acqua, del pane, del latte, profumi caratteristici anche della nostra stessa casa e per questo amati come segni di appartenenza. Rivelando nostalgia e rimpianto per un tempo povero, ma felice ormai perduto, ricorda le attese delle piccole cose: il vestito rimesso a nuovo dalla mamma, le prime scarpe, un dono mai posseduto e l’incantesimo di un solo giocattolo / rapito coi nostri occhi alle vetrine. Qui il vissuto, nutrimento all’anima di Turoldo, diviene parola-poesia, canto sofferto di un mondo umile che accetta con dignità, espressione altra di umiltà, la fatica, il dolore e insieme manifesta una carica di umanità che possiedono solo gli umili, i provati dalla vita, quelli che ne conoscono la vera dimensione, quelli che sentono l’humusscorrere nel loro sangue e sanno sublimarsi fino al cielo nel loro impegno quotidiano. Non certo nessuno de’ cristiani degli alti palazzi / nessuno dei molti benefattori. Tutto nella cornice di un umano paesaggio friulano: “ho lasciato i nostri campi, mamma, / quella pianura vasta e taciturna / dal colore dei tuoi capelli / biondi come le vigne dell’autunno” offerto nella seconda lirica, quella del ritorno desolato alla casa abbandonata dove solo il vento fischia e cavalca su tutta la pianura. Arpeggi della sua voce lirica ricorrenti in tutte le raccolte: il fiume povero d’acqua, i pioppi, il melograno, i colori dell’autunno e le splendide fioriture di vitalbe, narcisi, rosmarino e di un ramo di bosso tutto candore (Offertorio).
I versi quindi esondano di natura friulana, di figure familiari, in particolare la madre, icona sempre presente nel suo poetare: “d’allora mi pesi ogni giorno sulla patena / insieme a Cristo, mia dolce rovina, / come forse noi ti pesavamo nel grembo. / Prima tu piangevi sulla nostra sorte, / ora io faccio amara anche la tua morte”. Il linguaggio è intriso di infanzia: è sì aspro come la vita di quella terra ma tenero come quell’età beata. La pecora del gregge, mai dimenticato, conosceva il passo di sua mamma, la chiamava con voce umana, guardandola con dolcezza e io ero felice come una rondine / di ritorno dai campi con il gregge sazio.
La pecora, or ora citata, il gregge stesso sono qualcosa di più di una descrizione: sono sentimento del mitico tempo. La pecora infatti è entrata nell’anima stessa del bambino-poeta e con il suo sguardo mite, la sua voce diviene l’anima di Turoldo che rievoca l’incanto del momento intorno alla figura della madre regina delle greggi, con
parola sorgiva che ha tutta la freschezza dell’infanzia e insieme la sapienza del suo popolo. Linguaggio sigillato sempre dall’autenticità di un mondo antico la cui sacralità si avverte nell’atmosfera d’eterno che avvolge questa liturgia domestica, derivata dal sacro, proprio della sua terra, il sacro dei primordi, incontaminato. E tale mondo antico è celebrato anche nella lettera scritta da Turoldo alla madre di Pier Paolo Pasolini, straziata dal dolore per la morte del figlio, e letta dall’autore al suo funerale.
Vi esalta quel mondo per la sua storia di popolo passatoattraverso la lunga tribolazione, per i suoi costumi e tradizioni: le donne vestite da sempre di nero con le lunghe gonne, il fazzoletto sulla testa sceso fino alle spalle, come madonne sul Calvario, sono a mio avviso l’espressione di questo perenne lutto per la sofferenza della loro terra. Lo celebra anche per la sua umanità e solidarietà, per la sua gentilezza derivata dall’umiltà, il solo quindi capace di consolare questa madre compatendo con lei in silenzio: tutti accumunati dal medesimo destino di patire il caldo il freddo e tutte le tempeste del cielo e quindi stretti da una reciproca piétas. Un mondo antico che anche Pasolini riteneva sacro (per questo si sentiva colpevole nella sua diversità), ma che nel suo profondo sentire non aveva mai tradito. Così Turoldo: avrebbe infatti potuto accordarsi per comodo-convenienza al diverso habitat umano, però non l’ha fatto: né mia è la speranza di mutare dice alla madre in un’altra sua lirica. Ed è proprio la sua umiltà d’origine che lo porta invece a difendere gli umili, gli indifesi anche con forti invettive, non per un esito personale, ma per riscattare dall’offesa la sua gente e gli altri ingiustamente trattati dalla storia. Ecco che ritorniamo alla sua prima formazione: il suo vissuto diviene ispirazione per una poesia altra. Quindi la parola umile della madre,figlio noi siamo poveri / è un’avventura troppo grande! il vivere nel suo umile Friuli diventano parola-poesia dell’innocenza, carica però di tutte le memorie personali e storiche della sua terra e del dolore di tutta l’umanità degli umili. E umiltà è anche la sua sofferta ricerca continua di Dio, l’urgenza di parlare con Lui e sentire nella sua finitezza di uomo l’infinito di Dio, come già espresso precedentemente.
Nella fase conclusiva piace allargare l’interpretazione zanzottiana della poesia di Turoldo (riportata per esteso nel quaderno XXXIX) a Pasolini: anche per lui il Friuli è primo nido di poesia e la madre è prima voce ispiratrice. E se si vuole andare oltre, anche per Zanzotto Pieve di Soligo è il nido del suo Verbo; la madre, il padre pittore, la famiglia, la casa, la maestra Morchet, l’amico Nino, le tradizioni, il paesaggio sono il latte poetico primo da lui succhiato che genera il suo verso, un verso intriso dal sacro della sua terra che acquista nella scrittura sapore d’eterno.
E avvicinandoli ancora nelle loro diversità, piace vederli come umili operai a servizio della Parola nel laboratorio infinito della ricerca umana-divina: la poesia.