Arrigo Brocca – La stanza alta

La stanza alta dell’attesa tra mito e storia
        Cenacolo di Poesia 13.02.2020

Maria Luisa Daniele Toffanin (in seguito Marisa – confidenzialmente) ci racconta la propria storia-poesia e la incontriamo in modo nuovo rispetto alle precedenti elaborazioni: eravamo infatti abituati ad osservarla nelle emozioni di “paesaggi della natura e dell’anima”. In quest’opera, nella quale scopriamo una mente impegnata ad esplorare il proprio mondo interiore e la realtà esterna, scrive Luisa Scimemi, troviamo “tutto il suo piccolo ambiente familiare [che] diventa, anche per noi, l’universo intero”. La incontriamo nel cuore di Padova dove trascorre parte della sua vita fino alla giovinezza, protetta dall’alcova familiare, mentre tesse – Penelope altra – con forza ma spontaneità, continui legami. Ne “l’abito di San Gallo”: l’abito di famiglia più / gettonato da sorelle cugine ed altre (pag 93) elabora un velo metaforico per coniugare una generazione con un’altra e ne ricava una stoffa-vita: tessuto ruvido perché sgualcito dal tempo trascorso, ma che vive nell’attesa in quella sua “stanza alta”. L’attesa, per Marisa, non sempre trascorre facile perché la vita le offrirà anche sussulti, sofferenze, ferite che si rimargineranno soltanto con il trascorrere del tempo. L’attesa, pertanto, è vissuta con pazienza, fiducia e non sarà solo creazione (abito di San Gallo) ma diventerà ri-creazione della personalità con presupposto coraggio e sopportazione per non cadere in intolleranza e frustrazione. I ricordi si sciolgono tra una poesia e l’altra, sono ombra e luce nel descrivere fatti e sentimenti: avvenimenti che sfiorano, prendono, assorbono il lettore, il quale in una “contraria utopia” viene coinvolto nell’incedere generazionale. Sì, perché Marisa, con afflati poetici trasferisce fasi del suo vivere e scandisce tempi e ritmi che hanno la fascinazione di rivelazioni, reminiscenze d’infanzia ricche di intimità suggestive di scoperte e recupero di tenerezze in albori amici. Riscoprendo i valori familiari cerca i propri spazi in quella famiglia che “migra verso la periferia per reinventare la vita in [una ]casa propria, acquistata a rate, ma aperta alla natura” (pag128). Finalmente l’anima di Marisa si inebria nella bellezza dei colli, negli amori per gli amici e nella ricerca d’affetto nel suo futuro sposo, in alterne riprese, – maturate nella contemplazione dei paesaggi della campagna veneta, – a scenari storici , a percezioni di stupore ed aperture di amore ed abbandoni contemplativi ( pag 126). Qui si riconosce Marisa nella descrizione dei paesaggi del Casentino e dirà: …la vita mi porterà a viverli [i colli] in altri modi inaspettati: un giorno innalzerò il mio canto in versi nella raccolta “Per colli e cieli mia euganea terra”. In questo contesto Marisa concretizzerà anche un bisogno personale di affermazione , così deciderà di entrare nell’insegnamento anche per educare i ragazzi alla bellezza della poesia. (pag 127) Ciò che si ama d’istinto / senza reale coscienza / ma per vocazione familiare / permane dentro per sempre / quale intimo segreto / anzi si apre in trame di vita dilatate oltre i minuti orizzonti bambini. Certo, questo non è che il risultato di una educazione sapiente trasmessa dalla madre Lia che dà spazi alle figlie per crescere nella “Stanza Alta” senza briglie strette o costrizioni eccessive nell’esperimentare la vita in un processo di crescente importanza della famiglia.

Riceviamo così un ambizioso libro-ricordo dagli spaccati di storia e di vita privata: “nuovo romanzo” alla Louisa May Alcott (1868) in Piccole Donne , in cui la storia, nei propri corsi e ricorsi, ci accomuna tutti e, anche se conosciamo la trama di simili “romanzi”, è difficile non piangere.


Che cosa significa per la poetessa Toffanin “la storia” nella descrizione della saga della propria vita? In che rapporto sta con la poesia o meglio con la sua idea di poesia? Detto molto semplicemente “La stanza alta dell’attesa” non è altro che l’espressione pienamente realizzata della sua idea di poesia. Non la definisce la trama, le persone evocate ma il tempo: il tempo naturale, le ore che trascorrono, le stagioni, gli anni, i fatti vissuti di una vita che si spende. È il tempo di storia-attesa che dà un aspetto-visuale attraverso una serie di momenti esemplari, di episodi chiave; il ritorno del padre dalla guerra (dopo averlo evocato nelle mille parole-carteggio con la madre), gli attimi di preghiera in “Santa Sofia”, le escursioni sui colli, il trasferimento dalla “sua Padova” (abitava in via Gabelli) alla campagna-periferia, la nascita dell’amore… Il tempo dunque. Perché appaia e si faccia argomento servono le tracce del suo passare, del suo “perdersi”, le “sensazioni”.

Il tempo per Maria Luisa è “attesa” percettiva, snodarsi di ore, di anni e simultaneamente è coscienza sensibile di quel fluire, sguardo sulle tracce: la propria casa con la mamma, la famiglia, le amicizie, la città di Padova, la campagna e tutto quanto vi si trova dentro senza differenza tra persone (piccole o Grandi) e no, in una sola uniforme compresenza come in un quadro dove la figura umana rischia di mimetizzarsi con il paesaggio retrostante: colore tra colori.

Ne “La stanza alta dell’attesa” la contemplazione delle cose, il “guardare”, diventa scandaglio genealogico, “gomitolo” di “appartenenza / ad una famiglia grande”, nella memoria raccontata di genitori, zii, sorelle… in vissuta infanzia, giovinezza, matrimonio, “attesa” di un figlio.

Il tempo è emblematicamente incarnato in tempo infantile (che è fatto per non durare). Gli stessi avi costituiscono una sorta di infanzia: quella della famiglia. Il componimento, quindi, ha svolgimento circolare, volando da un’infanzia all’altra. Il centro del cerchio rimane la famiglia; il racconto resta autobiografico da “Romanzo familiare”, ma resta l’autobiografia di una donna che osserva altri: la poetessa viene percepita come spettatore.

Si fatica ad accettare la poesia quale testimone della realtà e difatti non è solo questo. Eppure c’è poesia che attira la realtà e la conserva: la” Commedia” di Dante, i “Canti” di Leopardi, “Les fleurs du mal” di Baudelaire, ecc…

È il caso di “La stanza alta dell’attesa” in cui assaporiamo uno spaccato di società post bellica in simbiotica interdipendenza tra città e campagna, localismo ed apertura cosmopolita.

Osservare la storia è un “appartenervi” con tutte le sue implicazioni psicologiche e sentimentali. Guardare la storia provoca emozione. Si guarda sempre un ricordo, si guarda la consapevolezza di essere sempre stato lì, attore, non solo spettatore. Il mondo de “La stanza alta dell’attesa” è quello vero e l’autrice lo accetta completamente nell’accadere di tutto quello che avviene attorno a lei: presenze umane e paesaggio. L’identità è compenetrarsi con il proprio stato, un essere quello che si è e non altro di quei luoghi e di quelle persone: il quotidiano, il contingente si elevano a rito ed il “fumus” che ne deriva finisce per velare le presenze, sbiadire i dolori personali (come è accaduto con la morte della madre); allontana protagonisti e comparse verso un unico recesso: quello della “stanza alta” punto di fuga della casa dove, cominciando e finedo, il tempo può tutto.

(10 giugno 2020 all’amata e stimata Marisa)