Aldo Tumiatti – Dal fuoco etneo alle acque polesane
Ho letto e riletto, a non brevi intervalli di tempo, la silloge “Dal fuoco etneo alle acque polesane”.
La percezione sincretica della prima lettura ha lasciato progressivamente spazio ad una visione-sensazione sempre più dettagliata, ad intensità crescente, nella quale le forme espressive si componevano e si disaggregavano richiamandosi le une alle altre come in un gioco di specchi.
Sono rimasto catturato dall’insieme. Sono stato sedotto dai particolari. Non vorrei che giocasse un ruolo inconscio la mia appartenenza ad uno dei due poli entro i quali i versi sono, molto armonicamente, collocati. La scelta nord – sud non è un pretesto letterario o un abile quanto legittimo artificio di struttura come in un primo tempo poteva sembrare. La sintesi si è finalmente (e felicemente) compiuta. Complimenti alla gentile signora Maria Luisa, fine conoscitrice dell’anima e dell’incanto dei paesaggi conosciuti e amati, che serba nello scrigno del cuore e riesce a tradurli con un linguaggio apparentemente semplice, in realtà sapientemente filtrato dalla fatica della creazione-espressione poetica ben riuscita.
Sono nato e cresciuto lungo le sponde del Fiume gigante (pp. 28-29), accanto al quale ho trascorso tutta la vita, mai appagato di osservarlo, percorrendone le strade arginali specie nella stagione primaverile – autunnale. Mi considero un indigeno di specie rara: la mia vita conta poche escursioni extraterritoriali. Ogni anno mi appariva identico e sempre diverso, portatore di nuovi segreti. Non mi sono mai stancato di assorbirne il colore, il calore e tutta la felicità possibile. Ed ora che sono costretto a privarmene mi dolgo per avere più volte rinviato occasioni di ammirare e cogliere altri spazi e visioni.
Questa poesia mi riporta emozionalmente molto vicino alla mia infanzia. Ma ho anche la sensazione che sia la rievocazione, perfettamente assimilata, del vissuto di un bambino di nome Massimo, mio coetaneo, che ebbe la ventura di nascere ad Ariano e di vivere e giocare negli spazi aperti del paese fino ad otto anni. Io abitavo a brevissima distanza dal palazzo estense, in una povera casa, dove però non mancava l’amore dei genitori, elemento essenziale per una crescita equilibrata. Abbiamo frequentato la stessa scuola, giocato nello stesso cortile e frequentato la stessa chiesa. Eppure non ci siamo mai conosciuti. Poi lo scambio epistolare e la scoperta di essere stati compaesani ignoti e di avere in comune una piccola patria da condividere, ancorata a un lontano tempo immobile.
La poesia sul grande fiume è dono stupendo di Maria Luisa che, ascoltando e rielaborando in silenzioso raccoglimento il vissuto dell’infanzia dell’amato, lo ha ri-creato in una poesia mirabile: almeno tale la percepisco, consapevole di non essere un testimone del tutto credibile, forse perché suggestionato anche da quell’acerbo ciclista quale io effettivamente ero e nel quale mi identifico.
Gli elementi fisici del paesaggio sono tutti realistici, ma ne esce un quadro trasfigurato. Trasfigurato dal magico potere della poesia, che continua idealmente nel “Ritorno ad Ariano Polesine”, dove prevale un’intensità, oserei dire più potente, raffinata, universale dove il richiamo all’insondabile mistero della vita si fa pianto silenzioso:
“Pura illusione, anima mia
è ritrovare ora lo spazio-tempo remoto
stagione altra tramontata
col sole vermiglio nell’acqua alta
trascinata via dentro il mare
dalla corrente smemorata”. Ariano nel Polesine, 13 febbraio 2024