Aldo Cervo – recensione “Stanza bassa dell’attesa”

Il libro è una memoria autobiografica che prende le mosse dal trasferimento-migrazione dalla dimora cittadina di Padova a quella agreste, dagli ampi spazi verdi, popolati di creature delle più diverse specie, dalle ciarliere cicale, favolisticamente rilette in chiave positiva da Gianni Rodari, alle inquiline delle paludi, le ranocchie, saltellanti, talvolta, nella flora inumidita delle rugiadose albe. E in questa cornice georgica – dove c’è spazio anche per un treno locale dal fischio amico – la poetessa veneta (cui un antico docente di italiano rimproverò la struttura precocemente ellittica del discorso negli elaborati scritti trimestrali) fa rivivere, in un’alternanza di prose e versi, gli anni “dell’attesa”; anni della fanciullezza, così ricchi di naturali esperienze formative, dalle amicizie ai giochi, alle escursioni, agli innocenti furti di grappoli, sottratti al Valpolicella, ai natalizi presepi, alle chiacchierate serali, agli ascolti di racconti di guerra e di prigionie, all’angoscia per la scomparsa di un’ amica coetanea.

  Tante le figure umane che ricorrono nella narrazione, tra le quali quella della madre, giudiziosa amministratrice della casa, del padre, internato militare in Germania, quelle di amici di famiglia: Una moltitudine di presenze, insomma, ciascuna recante un proprio tratto distintivo, testimoni, purtroppo, impotenti all’irromper devastante della ruspa, che, in anni recenti, aggredì senza riguardo il paesaggio primigenio di quelle terre cancellando quei sentieri percorsi, nell’età premoderna, dal carro giulivo del fruttivendolo, trainato dal paziente somaro.

  Un’antologia di famiglia, in definitiva – il libro – che si apre tuttavia, in una partecipazione corale, a una Comunità d’altri tempi, semplice nei sentimenti, culturalmente amalgamata e solidale.