Gianni Giolo – Prefazione “La stanza bassa dell’attesa”
DALLA CITTA’ ALLA CAMPAGNA
La storia dell’umanità è un susseguirsi di grandi migrazioni. Da Abramo che riceve l’ordine da Dio di abbandonare la sua terra, Ur dei Caldei, e andare verso una terra sconosciuta, ai Magi che seguendo la mistica stella provengono dall’Oriente per adorare il Bambino a Betlemme, un mondo in movimento versi altri luoghi e altri destini. Una piccola emigrazione è anche quella di Maria Luisa Daniele Toffanin che deve lasciare la città di Padova per trasferirsi in campagna: “come uccelli di passo migrammo in volo verso la periferia per reinventare la vita in una casa propria, ma aperta alla natura. Già allora si pensava che l’aria lì sarebbe stata più pura. Non senza una nota di dolore nel lasciare la città amata, ci ritrovammo di nuovo insieme, per uno strano gioco della vita: la nostra famiglia, genitori e noi tre sorelle, gli zii e gli amici. Ci ritrovammo a raccontarci ancora la vita in un cratere indicibile di attese, con un patrimonio già consolidato di amicizia, cultura, bellezza, accumulato in tempi non facili. Inevitabili le nuove difficoltà, superate poi nel tempo che sempre tutto leviga e risana. Però è vero, facevano bene loro, i Grandi, a credere nei miracoli!”.
Dal paesaggio cittadino i protagonisti si trovano a vivere una nuova avventura avendo come alleata la natura: “Anche là fra le vigne, lungo i fossati dei mobili girini, della ranocchia in attesa del principe, nei quartieri appena nati subito dopo, nella chiesa nuova di San Paolo, nel patronato, scorreva l’amicizia ovunque come il vessillo portato dalla città per una nuova rinascita all’aria pura, lungo gli argini del Bacchiglione, lungo la ferrovia della Veneta ancora esistente là, prototipo quasi di locomozione. Luoghi mitici di un vivere altro, nel possesso di una propria dimora, con nostalgia e rimpianto per la città. E ora che guardo con la lente larga che comprende tempi vari, età, momenti, eventi, rivedo tutto come passaggio-formazione per l’anima già addestrata alla bellezza, a quella della natura, la più vergine, la più incontaminata. Qui avviene la nostra iniziazione alla vita vera del creato sempre come una nuova esperienza che ci ricorda i leggendari Carlino e Pisana di Ippolito Nievo. Saranno questi gli anni che più ci segneranno dentro per sempre”.
Una vita completamente nuova, segnata dall’esplorazione, dalla scoperta e anche da un senso di avventura che anima l’adolescenza dell’autrice e dei suoi cugini che ancora ripensano a questo luogo unico, ai suoi anfratti segreti per i loro giochi, e per i loro passatempi. Tempo lungo in cui non solo i ragazzi, ma anche gli adulti riconquistavano i loro spazi, la loro dimensione umana, nelle passeggiate a sera per questi angoli ancora incontaminati in cui ci si raccontava, ci si emozionava, si discuteva, ricercando quell’equilibrio necessario ed utile per vivere. Si profila un susseguirsi estatico in spazi immensi, senza confini, ariosi, limpidi, sereni, aperti e luminosi, ma anche la scoperta dei duri lavori della campagna e le fatiche dei contadini intenti a dissodare l’arida terra, pagine intense che ricordano le Georgiche di Virgilio: il brillare della primavera, i rigogliosi prati fioriti lungo le rive dei fiumi, le maestose distese dei vigneti, e la presenza eterna della natura, che, come scrive Leopardi “sta ognor verde”, sempre viva e possente:
Hic ver purpureum, varios hic flumina circum
fundit humus flores, hic candida populus antro
imminet, et lentae texunt umbracula vites.
(Qui la primavera è di porpora, qui intorno ai fiumi
la terra effonde fiori variopinti, il bianco pioppo
sovrasta la grotta e le flessibili viti intrecciano pergolati).
Il tutto accompagnato dal gioioso canto degli uccelli, dal suono domestico delle fronde degli alberi, durante il giorno e la serenità della sera. “Tante volte mutata dimora, – nota l’autrice – mi sono accorta di stare in ascolto del passaggio del treno che, a seconda della direzione del vento, può arrivarti con diversa intensità sul davanzale della notte. Quel treno è anche metafora della vita che passa, che devi saper cogliere al balzo, che può essere senza ritorno e tanto altro che vivendo s’impara. Ma non pensavo che quel fischio del treno lo avrei sentito ovunque impresso dentro sempre, come segno di orizzonti nuovi, di dimensioni altre attraversate un giorno lontano”.
Il treno, che dal Carducci in poi è stato sempre interpretato come simbolo di modernità e di progresso, nella Toffanin si avvolge di nostalgia per i ricordi fatati della giovinezza:
Il fischio di tutti i treni a notte passava nel vento
salutato dal mito dell’infanzia
che viaggia viaggia sognando avventure
sorprese di mondi non noti
ma il più dolce il più lento
ora a sfilarsi dal cuore
va lungo rotaie di una verde età
e il fossato dei principi ranocchi
fra odori di erba menta e camomilla
soffio leggero ai nostri piedi nudi.
La poetessa ci vuole portare forse in una specie di locus amoenus ancestrale, nel mitico tempo dell’Eden di biblica memoria? La sua campagna non è un paradiso terrestre ma un “mondo tutto nostro, riflesso dentro, come dono e stupore: un infinito scrigno di fantastiche emozioni non più provate. La vita stessa ci fu maestra del vero”:
Era l’estate più azzurra
e il vento caldo di cicale
estate fino a sera di cristallo
le cose sempre terse, pure a notte
L’estate favo di miele
grappolo di tutti i fiori di vita
succhiati avidi da minuti eventi
sincera o ignara la gioia del poco.
L’estate dall’odore ancora intenso
di quei nidi felici e voli arditi
con l’infinito stretto nelle mani
e immortali guizzi nei nostri occhi.
Segue il racconto delle feste rituali dell’anno a cominciare dal Natale che si focalizza anzitutto nella costruzione corale del presepio, presepio immenso preparato per giorni col muschio vivo raccolto lungo i fossati, con tanti ponti, grotte ed altri elementi di legno fatti a mano, con i cieli infiniti sopra e intorno, e una stella cometa splendente disegnata e ritagliata su carta dorata, così grande che quasi annunciava l’arrivo dei magi prima del tempo.
Man mano che la vita avanza ci troviamo dinanzi a eventi dolorosi e tragici, al passare dei giorni e al trapassare dei propri cari:
Tutti voi usciti da cattedrali d’amore
nei sogni vegliati da musica d’angeli
fra ali bagliori riverberi dell’ultimo sole
sulle invetriate aperte alla vita
voi tutti siete andati
chini nella foschia opaca o nell’azzurro di sole
mesta processione senza ordine razionale
ma vegliata dall’amore.
Ma la vita è fatta di gioie e di dolori e nel piccolo regno di felicità cala ben presto l’algida ala della Negra Parca, contrassegnata dal grido straziante del padre che apprende la sentenza mortale che condanna alla morte la figlia di cinque anni. Anche la Toffanin, come Dostoevskij, comprende il dolore degli adulti ma non quello dei bambini innocenti: “un mistero da noi incomprensibile nell’umano nostro limite, a cui non riusciamo a dare un senso, una spiegazione perché diviene l’indicibile martirio di un innocente”. Il tempo intanto si trasforma in una serie di giorni grigi senza voli, in cieli avvolti in nubi di dolore.
Luci e ombre nella vita di tanti personaggi, papà, mamma, parenti, amiche e amici, un universo improvvisamente demolito e annientato dalla presenza assordante e infernale di un trattore, rumoroso e violento, che distrugge in un batter d’occhio vigne, tronchi, tralci fino alle radici, quel “piccolo mondo antico” che diventa un moderno e orribile quartiere di condomini popolari:
La scure assassina di un bulldozer vendemmiò grappoli e vigne
ne sradicò l’anima, la mente, in un lampo distrusse sogni
frutti del dopo.
Si passa così traumaticamente dal mito alla realtà feroce dei nostri gironi, caratterizzata da un senso d’oltranza e d’impotenza. Così – scrive la Toffanin – lentamente ci siamo adattati al mutamento del paesaggio, sempre con nostalgia degli anfratti campestri e segreti dei boschi di un tempo per sempre perduto e irritornabile.
Gianni Giolo