Arrigo Brocca – La stanza alta dell’attesa
Che cosa significa per la poetessa Toffanin “la storia” nella descrizione della saga della propria vita? In che rapporto sta con la poesia o meglio con la sua idea di poesia? Detto molto semplicemente “La stanza alta dell’attesa” non è altro che l’espressione pienamente realizzata della sua idea di poesia. Non la definisce la trama, le persone evocate ma il tempo: il tempo naturale, le ore che trascorrono, le stagioni, gli anni, i fatti vissuti di una vita che si spende. È il tempo di storia-attesa che dà un aspetto-visuale attraverso una serie di momenti esemplari, di episodi chiave; il ritorno del padre dalla guerra (dopo averlo evocato nelle mille parole-carteggio con la madre), gli attimi di preghiera in “Santa Sofia”, le escursioni sui colli, il trasferimento dalla “sua Padova” (abitava in via Gabelli) alla campagna-periferia, la nascita dell’amore… Il tempo dunque. Perché appaia e si faccia argomento servono le tracce del suo passare, del suo “perdersi”, le “sensazioni”.
Il tempo per Maria Luisa è “attesa” percettiva, snodarsi di ore, di anni e simultaneamente è coscienza sensibile di quel fluire, sguardo sulle tracce: la propria casa con la mamma, la famiglia, le amicizie, la città di Padova, la campagna e tutto quanto vi si trova dentro senza differenza tra persone (piccole o Grandi) e no, in una sola uniforme compresenza come in un quadro dove la figura umana rischia di mimetizzarsi con il paesaggio retrostante: colore tra colori.
Ne “La stanza alta dell’attesa” la contemplazione delle cose, il “guardare”, diventa scandaglio genealogico, “gomitolo” di “appartenenza / ad una famiglia grande”, nella memoria raccontata di genitori, zii, sorelle… in vissuta infanzia, giovinezza, matrimonio, “attesa” di un figlio.
Il tempo è emblematicamente incarnato in tempo infantile (che è fatto per non durare). Gli stessi avi costituiscono una sorta di infanzia: quella della famiglia. Il componimento, quindi, ha svolgimento circolare, volando da un’infanzia all’altra. Il centro del cerchio rimane la famiglia; il racconto resta autobiografico da “Romanzo familiare”, ma resta l’autobiografia di una donna che osserva altri: la poetessa viene percepita come spettatore.
Si fatica ad accettare la poesia quale testimone della realtà e difatti non è solo questo. Eppure c’è poesia che attira la realtà e la conserva: la” Commedia” di Dante, i “Canti” di Leopardi, “Les fleurs du mal” di Baudelaire, ecc…
È il caso di “La stanza alta dell’attesa” in cui assaporiamo uno spaccato di società post bellica in simbiotica interdipendenza tra città e campagna, localismo ed apertura cosmopolita.
Osservare la storia è un “appartenervi” con tutte le sue implicazioni psicologiche e sentimentali. Guardare la storia provoca emozione. Si guarda sempre un ricordo, si guarda la consapevolezza di essere sempre stato lì, attore, non solo spettatore. Il mondo de “La stanza alta dell’attesa” è quello vero e l’autrice lo accetta completamente nell’accadere di tutto quello che avviene attorno a lei: presenze umane e paesaggio. L’identità è compenetrarsi con il proprio stato, un essere quello che si è e non altro di quei luoghi e di quelle persone: il quotidiano, il contingente si elevano a rito ed il “fumus” che ne deriva finisce per velare le presenze, sbiadire i dolori personali (come è accaduto con la morte della madre); allontana protagonisti e comparse verso un unico recesso: quello della “stanza alta” punto di fuga della casa dove, cominciando e finendo, il tempo può tutto.
(10 giugno 2020 all’amata e stimata Marisa)